Lo ius variandi ed il demansionamento alla luce del D.Lgs. 81/2015 (Jobs Act)

Dott. Alfredo Naselli (Funzionario Amministrativo Senior ASL Napoli 1 Centro)

L’oggetto del contratto di lavoro subordinato

Con la stipula del contratto di lavoro subordinato il lavoratore si impegna a mettere a disposizione il proprio lavoro intellettuale o manuale sotto la direzione ed alle dipendenze del datore di lavoro.

Lo stesso lavoratore si trova a dover esercitare delle mansioni specifiche di cui ha il diritto di essere reso edotto.

Il prima e dopo la riforma dell’articolo 2103 c.c.

Esse non sono altro che l’oggetto concreto del rapporto di lavoro e, prima della riforma dell’art. 2103 c.c. ad opera del Dlgs 81/2015, esse erano tassativamente quelle pattuite da contratto e non potevano essere modificate dal datore di lavoro se non in melius ovvero con mansioni equivalenti.

Alla luce, quindi, della anzidetta riforma c.d. Jobs Act, il novellato art. 2103 c.c. consente al datore di lavoro di modificare le mansioni del lavoratore durante lo svolgimento del rapporto di lavoro rispetto a quanto concordato al momento dell’assunzione (c.d. ius variandi) purché le mansioni a cui venga destinato siano comprese nel livello e nella categoria legale di appartenenza (c.d. mobilità orizzontale) ovvero siano mansioni superiori (c.d. mobilità verticale). 

L’introduzione del preciso riferimento al livello contrattuale e alla categoria per la validità del mutamento di mansioni, sebbene possa sembrare meno stringente rispetto alla normativa ante riforma che faceva riferimento ad un generico concetto di equivalenza, risulta invece essere molto più oggettivo come criterio in quanto meno soggetto alla speculazione interpretativa dottrinale e giurisprudenziale.

L’innovazione dello jobs act e lo ius variandi

Il punto più innovativo segnato dal Jobs Act in materia di ius variandi è dato dal fatto che oggi è consentito al datore di lavoro di poter adibire il lavoratore anche a mansioni inferiori (c.d. demansionamento) rispetto a quelle pattuite in sede di assunzione.

Purché queste rientrino nella medesima categoria legale e siano giustificate con i motivi di riorganizzazione aziendale ovvero previsti dai CCNL (c.d. patti di declassamento) ovvero ancora siano frutto di un accordo consensuale tra le parti per soddisfare l’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione (c.d. mobilità verso il basso consensuale).

Il precedente dettato normativo conteneva, invece, il divieto assoluto di demansionamento e la nullità di ogni patto contrario.

Variazioni delle mansioni

Era stata la giurisprudenza, con una interpretazione più a larghe maglie, a favorirne una razionalizzazione rendendo possibile, pur considerandolo come extrema ratio, in caso di esigenze straordinarie e sopravvenute il passaggio a mansioni inferiori come consentito dalla normativa vigente.

In ogni caso la variazione di mansioni ad un livello inferiore deve essere comunicata dal datore di lavoro in forma scritta a pena di nullità e, laddove necessario, il dipendente deve essere formato allo svolgimento delle stesse continuando comunque a mantenere lo stesso livello di inquadramento e lo stesso trattamento retributivo in godimento.

Il livello di inquadramento

In altri termini, il dipendente conserva la permanenza nel livello di inquadramento e agli stessi emolumenti economici che gli spettavano con la precedente mansione con un’unica eccezione: non devono essere mantenuti gli elementi retributivi strettamente collegati alle mansioni svolte in precedenza. (es.: l’indennità legate alla specifica mansione).

La riforma dell’art.2103 c.c., così come delineata, grazie alla sua estrema oggettività, è andata a mitigare l’utilizzo illegittimo dello ius variandi, facendo diminuire i casi in cui il demansionamento fosse arbitrario ed illegittimo.

Come si difende il lavoratore

Ciononostante, il lavoratore che ravvisi profili di illegittimità, ha la facoltà di ricorrere al tribunale ovvero dimettersi per giusta causa, laddove l’assegnazione di mansioni inferiori rappresenti un ostacolo alla prosecuzione del rapporto di lavoro.

Risarcimento del danno per demansionamento

Nei casi più gravi, quando il demansionamento arrechi pregiudizio al lavoratore (es. la lesione della dignità) è prevista, inoltre, la possibilità di chiedere il risarcimento dei danni.

Tuttavia, come chiarito dalla Cassazione (Cass. civ. Sez. lavoro, Sent, n. 13484/2018): “nel demansionamento non è configurabile un danno risarcibile in re ipsa,[../..] L’oggettiva consistenza del pregiudizio derivante dal demansionamento (e il nesso causale) va, perciò, provato, dal lavoratore che ne domandi il risarcimento, anche attraverso presunzioni.”.

Tuttavia, è possibile per il giudice determinare il quantum del risarcimento in via equitativa parametrandolo alla retribuzione mensile (o a una sua percentuale) moltiplicata per il numero di mesi di demansionamento.

E ciò poiché la qualità e quantità dell’esperienza lavorativa pregressa, la tipologia di professionalità, la durata del demansionamento e l’esito finale della dequalificazione sono stati considerati elementi sufficienti affinché il giudice possa, in via presuntiva, desumere l’esistenza di una lesione e quantificare il danno patito dal lavoratore (cfr. Cass. sentenza n. 23432 del 17 novembre 2016).

Decorrenza del risarcimento del danno

Infine, appare opportuno precisare che con l’ordinanza n. 31558 del 04.11.2021, la Cassazione stabilisce che il diritto al risarcimento dei danni per demansionamento decorre, non da quando il lavoratore contesta al datore la nuova collocazione in azienda, ma dal momento in cui il dipendente è adibito alle nuove e inferiori mansioni, in quanto è da quel momento che il nocumento ricade in capo al lavoratore.

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