I minori intersessuali

Avv. Anna Napoli

 L’art. 3 della nostra Costituzione sancisce che: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, religione, opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” e tanti passi sono stati fatti, sia a livello nazionale che internazionale, per raggiungere concretamente la parità.

Esistono, però, condizioni “limite” che, nel nostro ordinamento, ancora non trovano tutela, tra queste c’è quella dei “minori intersessuali”.

La determinazione del sesso, come è noto ai più, avviene già durante la gestazione con esami prenatali o, al più tardi, alla nascita, attraverso l’osservazione dei genitali.

Purtroppo, però, a causa di alcune condizioni genetiche rare, problemi ormonali o gonadici, numerosi bambini (circa trenta milioni nel mondo) nascono con mutazioni genetiche relative ai genitali. Tali anomalie possono riguardare sia il fenotipo (organi genitali esterni) sia gli organi interni. In alcuni, si osservano genitali ambigui, tali cioè da non consentire una precisa attribuzione del sesso; altri, possono avere genitali appartenenti ad un determinato genere ma possedere corredo cromosomico del genere opposto o, addirittura, presentare entrambi gli organi riproduttivi sessuali. E questi sono solo alcuni esempi della casistica.

Nel momento in cui ci si trova di fronte ad una situazione del genere, è chiaro che l’assegnazione ad un genere, piuttosto che ad un altro, non è semplice e necessita di adeguati approfondimenti. Questi ultimi possono richiedere, a seconda della gravità della patologia, dalle poche settimane ad anni.

Tuttavia, nel completo vuoto normativo e a causa di una insufficiente preparazione medica, questi neonati, per la necessità sociale e burocratica di “normalizzare” il loro status, sono vittime di assegnazioni di genere affrettate e sottoposti a interventi chirurgici, spesso vere e proprie mutilazioni, per conformarli allo standard assegnato.

Ne discende che i minori intersessuali sono fortemente discriminati da un sistema giuridico basato sul cosiddetto “sesso binario”, o maschio o femmina. Basti pensare alla dichiarazione di nascita per cui, ex artt. 29-30 d.p.r. n. 396-2000, è richiesto necessariamente di indicare il sesso del bambino.

E proprio al detto decreto fa riferimento il parere del 25-02-2010 del Comitato Nazionale di Bioetica della Presidenza del Consiglio dei Ministri sui Disturbi della Differenziazione Sessuale dei minori (DSD).

Il Comitato, cogliendo le problematiche etiche e giuridiche, ha espresso delle linee guida per il trattamento di questi minori.

In particolare, il Comitato ha fermamente affermato la necessità che la normativa, relativa alla dichiarazione del sesso alla nascita, debba essere integrata attraverso un’annotazione riservata, corredata da certificazione medica, attestante la patologia del neonato, in modo da consentire in seguito, se necessario, una rettificazione dell’indicazione anagrafica, attraverso una procedura più semplificata, rispetto a quella prevista dalla L. 14-04-82, secondo cui il cambio di sesso è condizionato al trattamento medico-chirurgico. Il Comitato, inoltre, ha posto particolare attenzione anche al problema relativo agli interventi chirurgici, cui vengono sottoposti i minori, senza il loro consenso informato e senza tenere conto dei loro desideri e inclinazioni.

Proprio a tal proposito, il Comitato ha raccomandato vivamente di evitare mutilazioni non necessarie, rinviando eventuali interventi chirurgici al raggiungimento di una maturità del soggetto, consentendo allo stesso di esprimere il proprio consenso.

Tuttavia, a parte una sentenza della Cassazione, la n. 15138/2015, che ha affermato la non necessarietà dell’intervento chirurgico degli organi sessuali, per ottenere il cambio del sesso all’anagrafe, poco o nulla è stato fatto dal nostro ordinamento, per realizzare quanto raccomandato dal CNB.

E, infatti, nel 2016 il Comitato delle Nazioni Unite sui Diritti delle persone con disabilità, ha ammonito l’Italia per le mutilazioni genitali intersex, denunciate come una violazione della “protezione dell’integrità della persona”.

Ma non è finita qui!

Già nel 2013, il Consiglio d’Europa, con la risoluzione 1952, aveva invitato gli Stati membri a rispettare il diritto all’integrità fisica dei bambini, sottolineando che nessuno dovesse essere sottoposto a trattamenti medici o chirurgici inutili di tipo estetico.

Anche l’Unione Europea, il 14/02/2019, ha preso consapevolezza dei diritti negati a questi bambini, con la Risoluzione sui diritti delle persone intersessuali (2018/2878 rsp).

Il Parlamento europeo, infatti, tenuto conto che, numerosissimi neonati “nascono con caratteristiche sessuali fisiche che non corrispondono a norme mediche o sociali, per il corpo maschile o femminile e tenuto conto che le persone intersessuali sono esposte a numerose forme di violenza e discriminazione” ha condannato tutti gli interventi e trattamenti di normalizzazione sessuale, elogiando unicamente Malta e Portogallo, per aver già predisposto normative ad hoc.

La risoluzione, inoltre, ha invitato i Paesi UE ad adottare procedure più flessibili per la registrazione delle nascite, oltre a prendere coscienza di tali realtà, che risultano ancora sconosciute al grande pubblico.

Malta è stato il primo Paese dell’UE a varare una legge in favore dell’integrità fisica degli intersessuali, il “Gender Identity, Gender Expression and Sex Characteristics Act”, nel 2015.

L’esempio è stato seguito, nel 2018, dal Portogallo, che ha approvato la l. 242/XII/1°, al fine di semplificare le procedure di modifica anagrafica del genere (artt.6-9) e di tutelare le persone intersex (art.5).

Unico paese dell’Unione ad essersi adeguato alla risoluzione UE del 2019 è stata la Germania che, con la legge “Per la protezione dei bambini con varianti di sviluppo del sesso” (L. 19/27929), ha vietato ogni tipo di intervento chirurgico estetico sui minori intersex e ha riconosciuto l’assegnazione ad un terzo genere “divers”, nella fase di registrazione all’anagrafe.

L’Italia, purtroppo, è tra i 21 Paesi europei che ancora non hanno adottato alcuna normativa a tutela dei minori intersex, che, intanto, hanno subito, subiscono e continueranno a subire gli effetti di questo vuoto normativo. È auspicabile che il nostro ordinamento segua l’esempio di Malta, Portogallo e Germania ed intervenga, al più presto, per restituire a questi bambini quei diritti e quella dignità finora negati.


Tesina al Corso “Ius neutrum est: il diritto nasce senza genere. Parità Permanente” del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Nocera Inferiore (bando CASSA FORENSE 14/2019)

Smart working e controlli del datore di lavoro: applicabilità dell’art.4 della legge n.300/1970 e trattamento dei dati

Raffaella Bonadia
Funzionario dell’Agenzia per l’Italia digitale (presidenza del Consiglio dei Ministri)

La normativa che regola il potere di controllo del datore di lavoro sull’attività lavorativa del lavoratore è sicuramente la Legge 20 maggio 1970, n. 300Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e nell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”.

In particolare dall’art. 4 della citata legge possono derivare due principi in materia ovvero:

che il datore di lavoro può controllare l’attività lavorativa dei dipendenti attraverso personale interno o personalmente

che il datore di lavoro se si avvale di personale “esterno” quest’ultimo non può svolgere attività di controllo dei dipendenti ma soltanto attività di controllo a tutela del patrimonio aziendale.

Se l’art. 4 è la base di partenza sulle attività di controllo del datore di lavoro per poter comprendere meglio la tipologia di controlli che lo stesso può effettuare per il lavoratore che svolge l’attività lavorativa in smartworking o lavoro agile, dobbiamo tenere conto degli accordi individuali stipulati con il lavoratore e delle Linee guida in materia di lavoro agile nelle amministrazioni pubbliche (adottate dal Ministro per la pubblica amministrazione) secondo quanto stabilito dalla Legge n. 81/2017.

Le linee guida prevedono le seguenti ulteriori condizioni per lo  smartworking:

a) l’invarianza dei servizi resi all’utenza;

b) l’adeguata rotazione del personale autorizzato alla prestazione di lavoro agile, assicurando comunque la prevalenza per ciascun lavoratore del lavoro in presenza;

c) l’adozione di appositi strumenti tecnologici idonei a garantire l’assoluta riservatezza dei dati e delle informazioni trattati durante lo svolgimento del lavoro agile;

d) la necessità, per l’amministrazione, della previsione di un piano di smaltimento del lavoro arretrato, ove accumulato;

e) la fornitura di idonea dotazione tecnologica al lavoratore;

f) il prevalente svolgimento in presenza della prestazione lavorativa dei soggetti titolari di funzioni di coordinamento e controllo, dei dirigenti e dei responsabili dei procedimenti;

g) la rotazione del personale in presenza ove richiesto dalle misure di carattere sanitario;

h) il dovere di fornire al lavoratore idonea dotazione tecnologica, che garantisca la sicurezza e il divieto di ricorso all’utenza personale o domestica del dipendente, salvo i casi preventivamente verificati e autorizzati.

Pertanto l’accordo individuale, ai sensi degli artt. 19 e 21 della Legge n. 81/2017 e compatibilmente con la disciplina prevista dai rispettivi CCNL vigenti, disciplina l’esecuzione della prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali dell’amministrazione, anche con riguardo alle forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro ed agli strumenti utilizzati dal lavoratore.

L’accordo dovrà contenere le modalità di esercizio del potere direttivo e di controllo del datore di lavoro sulla prestazione resa dal lavoratore all’esterno dei locali dell’amministrazione nel rispetto di quanto disposto dall’art. 4 della Legge 20 maggio 1970, n. 300 e s.m.i.

A tal riguardo è opportuno citare anche il parere del Garante della privacy sul “Controllo a distanza dei lavoratori il parere del Garante”. L’Autorità era intervenuta su una presunta illiceità dei trattamenti effettuati da una Università, mediante strumenti elettronici.

Sebbene il provvedimento del Garante sia stato adottato nel 2016, quindi molto prima della Legge n. 81/2017 in materia di lavoro agile, lo stesso merita una particolare attenzione per definire meglio i parametri di applicazione dell’art. 4 della Legge n. 300/1970 e costituisce sicuramente uno spunto di riflessione anche per l’esercizio dei poteri di controllo del datore di lavoro al lavoratore che si trova in smartworking.

L’Autorità, nel provvedimento, ha operato una distinzione tra:

  •  “strumenti di lavoro”, rispetto ai quali non sono necessari accordi con le rappresentanze dei lavoratori né, in subordine, le autorizzazioni amministrative ad esempio la posta elettronica, internet o software di lavoro o applicativi strettamente funzionali alla prestazione lavorativa, anche sotto il profilo della sicurezza;
  • “altri strumenti” che, non rientrando nella categoria degli strumenti di lavoro, fanno parte della categoria degli strumenti di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori.

Nella categoria degli strumenti che consentono di svolgere un’attività di controllo, in background, ed in modo del tutto indipendente rispetto alla normale attività dell’utilizzatore, attraverso il ricorso ad operazioni di filtraggio, blocco, controllo e tracciatura costanti. Per tali strumenti si rientra nella fattispecie normata dall’art. 4, Legge 300/1970, con la conseguente applicazione delle regole ivi previste.

L’art. 4 della Legge 300/1970 è applicabile, per espresso richiamo normativo, anche ai lavoratori che svolgono la prestazione lavorativa in modalità agile.

Il datore ha l’obbligo di fornire ai dipendenti adeguata informazione circa le modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli nonché l’obbligo di rispettare la normativa sulla privacy nella raccolta e nel trattamento dei dati che non deve eccedere gli scopi dichiarati. Pertanto il trattamento di dati personali dovrà sempre ispirarsi ai principi di correttezza, pertinenza e non eccedenza dettati dalla normativa privacy.

Per avere un quadro completo è importante citare anche il c.d “diritto alla disconnessione”. Anche qui il Garante della Privacy, nell’audizione del 13 maggio 2020, ha dichiarato che “Il ricorso alle tecnologie non può rappresentare l’occasione per il monitoraggio sistematico del lavoratore. Deve avvenire nel rispetto delle garanzie sancite dallo Statuto a tutela dell’autodeterminazione del lavoratore che presuppone, anzitutto formazione e informazione del lavoratore sul trattamento a cui i suoi dati saranno soggetti”. .E prosegue “Il minimo comun denominatore di queste garanzie va individuato nel diritto alla protezione dei dati: presupposto necessario di quella libera autodeterminazione del lavoratore che ha rappresentato, come si è detto, una delle più importanti conquiste del diritto del lavoro”.

IL DIRITTO ANTIDISCRIMINATORIO – LA DISABILITÀ

Avv. Mario Faraco

Tesina al Corso “Ius neutrum est: il diritto nasce senza genere. Parità Permanente”  del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Nocera Inferiore (bando CASSA FORENSE 14/2019)

1.LA DISCRIMINAZIONE PER DISABILITA’ E NORMATIVA DI TUTELA.

Per “discriminazione fondata sulla disabilità” si intende qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo. Essa include ogni forma di discriminazione, compreso il rifiuto di un accomodamento ragionevole, ossia «le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari.

In relazione alla disabilità, il principio di eguaglianza e non discriminazione è affermato, nelle sue molteplici declinazioni, in vari punti del preambolo della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità (ratificata dall’ordinamento italiano con L. 18/2009).

Nonostante l’assenza nella nostra Carta costituzionale di una specifica previsione a tutela dei diritti delle persone con disabilità, non v’è dubbio che queste ultime sono “titolari di tutte le situazioni soggettive garantite in generale dalla Costituzione”, ed i problemi che si pongono per i disabili sono quindi problemi che riguardano tutte e ciascuna delle situazioni disciplinate nella Costituzione.

Nel programma di giustizia sociale delineato dalla nostra Costituzione con una quantità di norme rivolte in favore dei soggetti più “deboli”, ed assecondato dalla giurisprudenza costituzionale, la posizione delle persone con disabilità trova comunque una protezione costituzionale adeguata e, comunque, idonea “a non emarginarli dalla vita più del necessario -più di quel che la loro stessa condizione non comporti- ma anzi rivolta ad inserirli nella vita stessa il più possibile”.

Il “riconoscimento” e la “garanzia” (art. 2 Cost.) dei diritti dei disabili, per il conseguimento di quella “pari dignità sociale” (art. 3 Cost.) che consenta il “pieno sviluppo della persona umana” (art. 3 cpv. Cost.), trova un saldo fondamento proprio in quel parametro espansivo offerto dalla Costituzione e rappresentato dalla pienezza dello sviluppo della persona.

In altre parole, nella nostra Carta costituzionale, il fondamento ultimo di ogni disposizione è rappresentato dalla persona umana, considerata “libera e tendenzialmente eguale”, nonché “titolare di diritti inviolabili in quanto addirittura preesistenti alla Costituzione”, in relazioni ai quali le istituzioni pubbliche si assumono l’impegno di renderli effettivi, malgrado i tanti limiti di fatto esistenti, ai quali non possono e soprattutto non debbono aggiungersene altri derivanti dal mero stato di inabilità delle persone interessate.

2. IL DIRITTO ANTIDISCRIMINATORIO- TIPOLOGIE DI DISCRIMINAZIONE.

L’art. 2 della L. 67/2006, oltre a denunciare il principio di parità di trattamento, individua varie specie di discriminazione in presenza delle quali è possibile adire il Giudice:

Si ha discriminazione diretta quando, per motivi connessi alla disabilità, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga, mentre si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono una persona con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto ad altre persone.

Nella legge 67/2006 si precisa inoltre che sono considerate discriminazioni le molestie, intendendosi per tali quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi connessi alla disabilità, che violano la dignità e la libertà di una persona con disabilità, ovvero creano un clima di intimidazione, di umiliazione e di ostilità nei suoi confronti.

Particolarmente rilevante, soprattutto nel caso della disabilità (che permette la tutela dei caregiver), è poi la discriminazione per associazione, fattispecie creata per via giurisprudenziale, dove il soggetto subisce una discriminazione non a causa della sua disabilità, ma in quanto in stretto rapporto con persone, familiari o amici con disabilità; la disabilità di questi ultimi è dunque la ragione della discriminazione subìta.

Al contrario, non esistono ancora definizioni ufficiali “discriminazioni multiple” e “intersezionali”, anche se all’interno di numerosi testi normativi – soprattutto ad efficacia non vincolante– non mancano riferimenti ai due termini.

Ad esempio, se pure la Convenzione sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (c.d. Convenzione di Istanbul) non si richiama esplicitamente alla multidiscriminazione o alla interregionalità, tuttavia il memorandum esplicativo, al par. 53, fa riferimento alle “forme multiple di discriminazione”, tra le quali compare anche quella nei confronti delle donne con disabilità.

La L. 67/2006 è, insieme alla Direttiva 78/2000/CE (e le relative norme di attuazione) sulla parità di trattamento nei luoghi di lavoro, uno dei due elementi portanti del diritto antidiscriminatorio che riguarda le persone con disabilità nel nostro paese e costituisce strumento per attuare, mediante la tutela giurisdizionale, l’uguaglianza sostanziale tra persone con disabilità e chi disabile non è, anche alla luce dell’art. 3 della Costituzione della Repubblica Italiana. L’art. 1, 1° co., infatti esordisce enunciando enfaticamente che: «la presente legge, ai sensi dell’art. 3 della Costituzione, promuove la piena attuazione del principio di parità di trattamento e delle pari opportunità nei confronti delle persone con disabilità di cui all’art. 3 L. 5 febbraio 1992 n. 104, al fine di garantire alle stesse il pieno godimento dei loro diritti civili, politici, economici e sociali».

Il principio fondamentale su cui si regge la norma in commento è quindi quello della parità di trattamento. Questo principio comporta che non può essere praticata alcuna discriminazione in pregiudizio delle persone con disabilità. Ciò che viene considerato lesivo di questo principio è la disparità di trattamento che determini uno svantaggio per la persona disabile e non anche quella che determini un vantaggio.

Inoltre il principio enunciato esplicita in modo chiaro che già la sola discriminazione non è compatibile con il nostro ordinamento, quindi non è necessaria, oltre la norma introdotta dal legislatore del 2006, un’ulteriore norma per affermare che vi è un diritto leso: dal 2006 esiste, per le persone con disabilità, un chiaro diritto di per sé sufficiente a richiedere la tutela in giudizio a non essere discriminati, o, che è lo stesso, a non essere poste in condizione di svantaggio rispetto alle altre persone.

3. IL PROCEDIMENTO ANTIDISCRIMINATORIO

Quanto al procedimento antidiscriminatorio, si segnala la novella introdotta dal D.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, le cui disposizioni si applicano ai processi per discriminazione in danno delle persone con disabilità iniziati dopo l’entrata in vigore del provvedimento.

L’azione civile contro le discriminazioni può essere fatta valere tanto nei confronti dei privati quanto nei confronti della p.a.

La giurisdizione è del giudice ordinario, anche se l’atto che si ritiene discriminatorio è posto in essere dalla p.a. (cfr. le pronunce della giurisprudenza di merito Trib. Milano, ord., 10 gennaio 2011, Banca dati Leggi d’Italia, 2011; Trib. Varese, ord., 2 dicembre 2010, n. 5105, DeJure, 2010; Trib. Milano 21 marzo  2002, FI, 2003, 3180; Trib. Messina 29 dicembre 2011).

La domanda si propone con ricorso al Tribunale in composizione monocratica.

La competenza per territorio, in questo caso inderogabile, è fissata dalla legge non con riferimento alla residenza della parte convenuta, ma avuto riguardo al domicilio della parte ricorrente.

In questo caso il soggetto che assume di essere stato discriminato può stare in giudizio personalmente (solo per il primo grado di giudizio).

Inoltre, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. III, 19 maggio 2004, n. 9567, MGC, 2004) «l’azione civile contro le discriminazioni configura un’ipotesi di competenza territoriale inderogabile, ex art. 28 c.p.c., che non può subire modifiche neppure per ragione di connessione».

La disciplina, contenuta nell’art. 28, D.lgs. 150/2011, è oggi comune a tutti i procedimenti contro la discriminazione: la disciplina processuale accomuna tra loro le ipotesi di discriminazione sul lavoro, quella di genere, le discriminazioni per ragioni legate all’origine etnica e quelle che vedono come soggetto passivo della discriminazione le persone con disabilità.

Il legislatore afferma chiaramente, all’art. 28, D.lgs. 150/2011, che le cause per discriminazione devono seguire il rito previsto per il processo sommario di cognizione, e, salve le peculiarità indicate dallo stesso art. 28 ed il fatto che nelle ipotesi di procedimenti antidiscriminatori, pur trovando applicazione in via generale la disciplina degli artt. 702–bis, 702–ter e 702–quater c.p.c., non si applicano i 2° e 3° co. dell’art. 702–ter.

Secondo la disciplina introdotta nel 2011, il ricorso al rito sommario di cognizione nei casi di discriminazione non è facoltativo. In quest’ipotesi non trova applicazione il 3° co. dell’art. 702, per il quale il giudice, rilevata la complessità istruttoria della questione trattata secondo il rito sommario, avrebbe potuto fissare l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c. determinando mutamento del rito.

Inoltre l’art. 4 dispone che, quando una controversia viene promossa in forme diverse da quelle previste nel decreto, è il giudice a disporre il mutamento del rito con ordinanza pronunciata anche d’ufficio non oltre la prima udienza di comparizione.

Con il provvedimento che accoglie il ricorso, e quindi con l’ordinanza, il giudice può «provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno». Dunque, il legislatore ha espressamente attribuito al giudice in questa fase il potere di decidere in merito al risarcimento. Peraltro, il fine della norma del 2006 è stato senz’altro quello di apprestare una tutela rapida, immediatamente satisfattiva.

Per tutte queste ragioni è difficile inserire tale procedimento di cui parliamo tra le usuali categorie di procedimento sommario, procedimento cautelare o camerale. Si tratta piuttosto di una procedura atipica e snella, che, avuto riguardo all’effettivo provvedimento richiesto, tende ad uno snellimento del contenzioso.

Si nota come, considerato il carattere sostanzialmente decisorio dell’ordinanza, l’espressa previsione del potere attribuito al giudice di provvedere in materia di danno e l’indubbia volontà di apprestare una tutela efficace, pareva potersi attribuire, secondo la previgente disciplina, efficacia di giudicato al provvedimento ottenuto ex L. 67/2006, se non reclamato.

Questa previsione risulta in linea con le esigenze sottese alla norma, che è sicuramente quelle di reagire efficacemente a disparità di trattamento in modo che non vi siano dubbi in ordine al disvalore che è rappresentato dalla discriminazione delle persone disabili.

Secondo grado

Per quel che riguarda il secondo grado, si applicano le norme previste per il processo sommario di cognizione.

Onere della prova

L’onere della prova segue le regole ordinarie. Oggetto della prova è la discriminazione intesa come pregiudizio per la persona disabile. Sul piano probatorio si hanno delle novità a seguito della riforma: dal 2011 è possibile, anche per la discriminazione in danno di persone con disabilità (e non più solo per le discriminazioni sul lavoro), far ricorso a dati statistici.

È sufficiente che il ricorrente fornisca elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori. Assolto questo onere minimo, spetta al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione. Si ha, nella sostanza, un’inversione dell’onere della prova (essendo sufficiente, per il soggetto che lamenta la discriminazione, il «fornire elementi di fatto»).

La prova più che concentrarsi sulla condizione dell’individuo dovrebbe cercare di mettere in luce gli elementi di fatto che hanno fatto sì che quella persona venisse discriminata. Il legislatore ha rimesso al giudice il compito di individuare le modalità concrete di rimozione della discriminazione. Al giudice è infatti riconosciuto il potere di ordinare, in positivo, un facere ai soggetti responsabili della discriminazione.

La disciplina esprime claris verbis un concetto: diviene esplicito che il giudice della discriminazione può ordinare un facere anche alla p.a. Il concreto atto idoneo a riparare alla discriminazione è rimesso al prudente apprezzamento del giudice: egli dispone ciò che è opportuno, avuto riguardo per il caso concreto.

La disposizione in esame menziona «un comportamento, una condotta ovvero un atto discriminatorio»: l’ampia locuzione dimostra la precisa volontà di rimuovere, attraverso il rimedio apprestato, il maggior numero possibile di situazioni discriminatorie, mettendo il giudice in condizione di operare concretamente affinché la «persona», quale soggetto protagonista della norma di tutela, possa realizzarsi pienamente.

Risarcimento del danno

È previsto anche il risarcimento del danno che il legislatore precisa poter essere anche – e soprattutto – quello non patrimoniale. È questa una delle ipotesi espresse di risarcibilità di danni afferenti alle attività realizzatrici della persona.

Il danno qui non copre il solo pretium doloris sofferto dalla persona disabile in seguito alla discriminazione: mai come prima in questa ipotesi di danno emergono profili esistenziali. Il danno da discriminazione consiste proprio nel “non poter fare come altri fanno” , non avere le stesse opportunità, non godere delle stesse prestazioni rispetto a beni e servizi di uso quotidiano.

Un profilo innovativo della novella del 2011 è costituito dalla circostanza che si introduce anche per le ipotesi di discriminazione in danno delle persone con disabilità una sorta di tutela dalle ritorsioni per cui secondo il 6° co. dell’art. 28: «Ai fini della liquidazione del danno, il giudice tiene conto del fatto che l’atto o il comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento» (art. 28, 6° co., D.lgs. 1° settembre 2011, n. 150).

Il giudice può ordinare l’adozione di un piano per l’eliminazione delle discriminazioni da eseguirsi entro un termine determinato. Il che conferma la visione per cui il fenomeno discriminatorio in quanto tale sia legato a una molteplicità di fattori, che vanno rimossi e affrontati in maniera strutturale (cfr. Trib. Roma, ord., 24 ottobre 2011; Trib. Roma, ord., 8 marzo 2012).

Il giudice può infine ordinare la pubblicazione del provvedimento emesso a conclusione del giudizio antidiscriminatorio, per una sola volta, su un quotidiano a tiratura nazionale, ovvero su uno dei quotidiani a maggiore diffusione nel territorio interessato.

Questo potere attribuito al giudice risulta funzionale all’obiettivo di promuovere una diversa coscienza sociale sul problema della discriminazione nei confronti delle persone con disabilità. Il Tribunale di Milano (v. Trib. Milano, ord., 10 gennaio 2011) attribuisce alla pubblicazione del provvedimento finalità sanzionatorie da una parte, e riparatorie delle situazioni giuridiche soggettive lese dall’altra, anche se nel caso specifico non ordina la pubblicazione del provvedimento medesimo.

4. SENTENZE RECENTI

Di seguito, esempi di giurisprudenza antidiscriminatoria sul tema:

Corte appello Genova sez. lav., 21/07/2021, n.211.

-L’esclusione dal computo del periodo di comporto dei giorni di assenza per malattie connesse allo stato di handicap dei lavoratori non costituisce un carico eccessivo per il datore di lavoro che ha a disposizione tutta una serie di misure e sostegni per poterlo sopportare, non ultimo quello di controllare in modo costante l’idoneità alla mansione del lavoratore disabile; fatta tale premessa, la conseguenza è che è discriminatorio non contemplare un regime differenziato del periodo di comporto per malattie connesse allo stato di handicap, equiparando in modo non consentito lo stato di handicap (caratterizzato da una menomazione permanente non destinata alla guarigione ma, nella maggior parte dei casi, al peggioramento dei postumi) ad una comune ‘malattia’ (intesa come episodio di inabilità temporanea destinato alla guarigione).

Corte giustizia UE sez. I, 11/09/2019, n.397.

-L’art. 2, par. 2, lett. b), ii), della direttiva 2000/78/Ce deve essere interpretato nel senso che il licenziamento per “ragioni oggettive” di un lavoratore disabile per il motivo che lo stesso soddisfa i criteri di selezione presi in considerazione dal datore di lavoro per determinare le persone da licenziare (vale a dire una produttività inferiore a un livello determinato, una minore polivalenza nei posti di lavoro dell’impresa, nonché un tasso di assenteismo elevato) costituisce una discriminazione indiretta fondata sulla disabilità, ai sensi di tale disposizione, a meno che il datore di lavoro non abbia previamente messo in atto, nei confronti di tale lavoratore, soluzioni ragionevoli, ai sensi dell’art. 5 della suddetta direttiva, al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, circo stanza che spetta al giudice nazionale verificare.

Cassazione civile sez. lav., 25/07/2019, n.20204.

-Sono diversi i presupposti di fatto e, conseguentemente, le allegazioni che devono sorreggere una azione volta a far valere una discriminazione diretta rispetto a quelli necessari per sostenere una richiesta di accertare l’esistenza di una discriminazione indiretta e viola il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato il giudice che senza una specifica richiesta ed in mancanza di specifiche allegazioni muti la causa petendi e qualifichi la discriminazione come diretta in luogo di quella indiretta prospettata dalle parti.

Tribunale Milano, 28/10/2016.

-Posto che l’applicazione del periodo di comporto ordinario al lavoratore portatore di handicap ai fini del licenziamento costituisce discriminazione indiretta, va riconosciuto allo stesso un regime presuntivo “alleggerito”.

Corte di Appello di Torino sentenza 29 novembre 2012.

-Il Tribunale di Aosta aveva accolto il ricorso per il risarcimento dei danni proposto da una lavoratrice disabile con mansioni di biologa presso la ASL, ritenendo che la stessa fosse stata vittima di molestie sul luogo di lavoro, appunto a causa della propria disabilità. Tanto il Tribunale quanto la Corte di Appello di Torino hanno accettato la richiesta di risarcimento dei danni, riconoscendo la sussistenza delle molestie: invero, per integrare la fattispecie in questione, sono sufficienti il fatto oggettivo della lesione della dignità della persona, nonché il carattere indesiderato di questi comportamenti.

Tribunale Napoli, 31/05/2012.

-Integra una discriminazione indiretta in ragione della disabilità il comportamento di una p.a. che, dopo aver bandito fra i dipendenti una selezione per progressione orizzontale, preveda quale unico modo di accedere alla procedura quello informatico, con ciò rendendo impossibile la trasmissione della domanda da parte di un lavoratore non vedente (nella specie il giudice, a titolo di rimozione degli effetti, ha ordinato l’inserimento in graduatoria del dipendente non vedente la cui domanda non era tempestivamente pervenuta per un errore informatico nell’inoltro).