Licenziamento per reazione alterata ed aggressiva: Cass. Civ., n. 1196 del 2019

(di Giovanna Romano Resp. Servizio P.O. Delegata – Provincia di Benevento)

La Cass. Civ., sez. lav., 17 gennaio 2019 n. 1196 ha confermato la sentenza della Corte d’appello, la quale rigettava la domanda proposto dal lavoratore  avverso la sentenza di primo grado, che ne aveva respinto la domanda di accertamento dell’illegittimità del licenziamento intimatogli dalla società per giusta causa, consistente nella reazione intollerabilmente alterata ed aggressiva tenuta, il 28 maggio 2009 a seguito della contrarietà manifestata per le note annuali di valutazione negative, dal lavoratore che, con plateali reazioni di protesta con affissione di cartelloni visibili ai colleghi e al pubblico recanti a caratteri cubitali frasi di denuncia (“mi sta devastando”, “sono vittima di stalking”, “accetto tutti i lavori eccetto quelli che mi obbligano a tacere”), non abbandonava alla fine del turno di lavoro, benché invitato dal direttore, i locali aziendali, ivi trattenendosi fino a sera, quando ne era allontanato a forza per intervento del personale di polizia.

In base al complessivo comportamento di palese insofferenza del lavoratore e di sua incapacità a rispettare ruoli, direttive e doveri connessi al rapporto di impiego e tenuto anche conto delle precedenti sanzioni disciplinari conservative riportate, la Corte condivideva la valutazione di irreversibile lesione del vincolo fiduciario tra le parti, escludendo infine la prova, a carico del predetto, del dedotto motivo ritorsivo del licenziamento.

SENTENZA PER ESTESO

Fatto

Con sentenza del 3 ottobre 2015, la Corte d’appello di Roma rigettava l’appello proposto da A.A.B. avverso la sentenza di primo grado, che ne aveva respinto la domanda di accertamento dell’illegittimità del licenziamento intimatogli il 23 giugno 2009 da Banca XXX. s.p.a. per giusta causa, consistente nella reazione intollerabilmente alterata ed aggressiva tenuta, il 28 maggio 2009 a seguito della contrarietà manifestata per le note annuali di valutazione negative, dal lavoratore che, con plateali reazioni di protesta con affissione di cartelloni visibili ai colleghi e al pubblico recanti a caratteri cubitali frasi di denuncia (“mi sta devastando”, “sono vittima di stalking”, “accetto tutti i lavori eccetto quelli che mi obbligano a tacere”), non abbandonava alla fine del turno di lavoro, benché invitato dal direttore, i locali aziendali, ivi trattenendosi fino a sera, quando ne era allontanato a forza per intervento del personale di polizia.

In base al complessivo comportamento di palese insofferenza del lavoratore e di sua incapacità a rispettare ruoli, direttive e doveri connessi al rapporto di impiego e tenuto anche conto delle precedenti sanzioni disciplinari conservative riportate, la Corte territoriale condivideva la valutazione di irreversibile lesione del vincolo fiduciario tra le parti, escludendo infine la prova, a carico del predetto, del dedotto motivo ritorsivo del licenziamento.

Con atto notificato il 25 gennaio 2016, il lavoratore ricorreva per cassazione con tre motivi, illustrati da memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c., cui la società resisteva con controricorso.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 c.c., 5 I. 604/1966 e 7 I. 300/1970, per mancata prova, a carico datoriale, della legittimità delle sanzioni disciplinari considerate ai fini della sussistenza della giusta causa di licenziamento.

2. Con il secondo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., per insussistenza della giusta causa di licenziamento, per la dipendenza del comportamento del lavoratore, mai lesivo del minimo etico, da una condizione di malattia causata dalla condotta mobbizzante datoriale, come accertato dalla sentenza resa dal Tribunale di Torre Annunziata nel corso del giudizio di appello, non considerata dalla Corte territoriale.

3. Con il terzo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., per l’erronea esclusione del carattere ritorsivo del licenziamento, alla luce della ricostruzione in fatto dell’andamento del rapporto tra le parti, non correttamente accertato, in particolare dal giudice di primo grado, in ordine alla condotta mobbizzante datoriale.

4. Il primo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 c.c., 3 I. 604/1966 e 7 I. 300/1970 per mancata prova della legittimità delle sanzioni disciplinari valutate a fini di sussistenza della giusta causa di licenziamento, è inammissibile.

4.1. Esso è infatti generico, violando il principio di specificità prescritto dall’art. 366, primo coma, n. 4 c.p.c., che esige una specifica enunciazione così da rientrare nelle categorie logiche stabilite dall’art. 360 c.p.c. e tale da contenere una puntuale critica delle argomentazioni della sentenza impugnata (Cass. 22 settembre 2014, n. 19959; Cass. 19 agosto 2009, n. 18421; Cass. 3 luglio 2008, n. 18202).

In particolare, esso omette alcuna censura in riferimento all’accertamento di assenza di alcuna doglianza del lavoratore appellante sui fatti oggetto delle sanzioni disciplinari precedenti il licenziamento (e valutate ai soli fini di sussistenza, nel più globale scrutinio degli elementi probatori acquisiti, della giusta causa: Cass. 21 maggio 2008, n. 12958), “quando invece avrebbe dovuto proporre domanda di annullamento delle stesse … e non certo riservarsi per una futura, eventuale ed ormai superflua impugnazione o riversare sulla banca l’onere di proporre domanda di accertamento della legittimità delle precedenti sanzioni” (così all’ultimo capoverso di pg. 5 della sentenza).

5. Il secondo (violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., per insussistenza della giusta causa di licenziamento) e il terzo motivo (violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., per l’erronea esclusione del carattere ritorsivo del licenziamento) possono essere congiuntamente esaminati, per ragioni di stretta connessione.

5.1. Essi sono infondati.

5.2. La censura di violazione dell’art. 2119 c.c. deve investire (come ancora recentemente ritenuto da: Cass. 15 aprile 2016, n. 7568; Cass. 2 settembre 2016, n. 17539; Cass. 10 luglio 2018, n. 18170) una questione di sindacabilità, sotto il profilo della falsa interpretazione di legge, del giudizio applicativo di una norma cd. “elastica” (quale indubbiamente è la clausola generale della giusta causa), che indichi solo parametri generali e pertanto presupponga da parte del giudice un’attività di integrazione giuridica della norma, a cui sia data concretezza ai fini del suo adeguamento ad un determinato contesto storico – sociale: in tal caso ben potendo il giudice di legittimità censurare la sussunzione di uno specifico comportamento del lavoratore nell’ambito della giusta causa (piuttosto che del giustificato motivo di licenziamento), in relazione alla sua intrinseca lesività degli interessi del datore di lavoro (Cass. 18 gennaio 1999, n. 434; Cass. 22 ottobre 1998, n. 10514). E ciò per la sindacabilità, da parte della Corte di cassazione, dell’attività di integrazione del precetto normativo compiuta dal giudice di merito, a condizione che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (Cass. 26 aprile 2012, n. 6498; Cass. 2 marzo 2011, n. 5095)

5.3. Ma nel caso di specie, oggetto di doglianza non è l’erronea sussunzione della fattispecie nella clausola elastica della giusta causa, in assenza di una censura alla correttezza dell’operazione compiuta dal giudice di merito, secondo gli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (Cass. 2 marzo 2011, n. 5095; Cass. 26 aprile 2012, n. 6498; Cass. 24 marzo 2015, n. 5878; Cass. 15 aprile 2016, n. 7568), avendo la Corte territoriale correttamente proceduto alla suddetta qualificazione del comportamento del lavoratore alla stregua dello standard normativo (in particolare ai primi due capoversi di pg. 6 della sentenza).

5.4. Oggetto di censura è piuttosto la contestazione della valutazione probatoria e dell’accertamento di fatto della Corte territoriale, insindacabili in sede di legittimità, qualora sorretti da adeguata argomentazione (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 18 marzo 2011, n. 6288; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694), come appunto nel caso di specie (per le ragioni esposte dal penultimo capoverso di pg. 6 al terz’ultimo di pg. 8 della sentenza), tanto meno alla luce del più rigoroso ambito devolutivo del novellato testo dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 20 novembre 2015, n. 23828; Cass. 12 ottobre 2017, n. 23940), applicabile ratione temporis.

Per giunta, con riferimento ad una sentenza di primo grado resa in altro giudizio (del Tribunale di Torre Annunziata, citata a pgg. 17 e 24 del ricorso), di cui è stata completamente omessa la trascrizione, neppure per estratto delle parti rilevanti, in violazione della prescrizione di specificità prescritto dall’art. 366, primo comma n. 4 e n. 6 c.p.c., sotto il profilo di inosservanza del principio di autosufficienza (Cass. 30 luglio 2010, n. 17915; Cass. 31 luglio 2012, n. 13677; Cass. 3 gennaio 2014, n. 48; Cass. 7 giugno 2017, n. 14107): e comunque con censure evidentemente inammissibili in quanto specificamente indirizzate alla sentenza di primo grado (Cass. 15 marzo 2006, n. 5637; Cass. 21 marzo 2014, n. 6733), confermata dalla sentenza della Corte territoriale impugnata (a pgg. 27 SS. del ricorso).

6. Dalle superiori argomentazioni discende coerente il rigetto del ricorso e la regolazione delle spese del giudizio di legittimità secondo il regime di soccombenza.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il lavoratore alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in € 200,00 per esborsi e € 5.500,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali 15% accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.