La riforma del processo penale – analisi del disegno di legge

Enrico Sirotti Gaudenzi (avvocato)

Il disegno di legge sulla riforma del processo penale, A.C. 2435, recante la “delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari” è stato presentato dal Governo Conte II alla Camera dei Deputati il 13 marzo 2020; successivamente, col Governo Draghi, il Ministro della Giustizia Cartabia, nel marzo 2021, ha convocato una Commissione con lo scopo di elaborare delle proposte di riforma del processo penale e delle relative sanzioni, prendendo in esame anche la prescrizione del reato. La Commissione costituita ha presentato diversi emendamenti al testo originale concludendo l’esame il 30 luglio 2021.

Il citato disegno di legge prende in esame la riforma del processo penale che dovrebbe trovare attuazione nel termine di un anno, fatta eccezione per la riforma della disciplina della prescrizione del reato, che viene proposta come forma di disposizione immediatamente prescrittiva unitamente ad altre disposizioni. Il testo del disegno di legge è composto da due articoli: il primo che riguarda le deleghe al Governo che quest’ultimo dovrà esercitare entro un anno dall’entrata in vigore della legge; il secondo che contiene le riforme al codice penale e al codice di procedura penale.

Esaminiamo, di seguito, alcune delle modifiche più significative contenute nel disegno di legge.

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Le indagini preliminari e l’udienza preliminare. L’intenzione della riforma è quella di prevedere che il pubblico ministero, qualora non abbia elementi che consentano di formulare una ragionevole prognosi di condanna, debba necessariamente richiedere l’archiviazione.  Oltre a questo, la riforma vuole modificare i termini della durata delle indagini preliminari, facendo salva la possibilità di prorogarle nel caso in cui queste siano alquanto complesse, anche in funzione della gravità del reato.

I riti alternativi e il decreto penale. La riforma vuole rendere i riti alternativi più appetibili, utilizzandoli come strumento deflattivo del rito dibattimentale. Nel caso di patteggiamento, il Governo, con l’emanazione di legislativi, dovrà consentire che, qualora la pena detentiva superi i 2 anni, l’accordo tra imputato e pubblico ministero possa estendersi alle pene accessorie e alla confisca facoltativa riducendo, inoltre, gli effetti extra-penali della sentenza affinché questa non abbia efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare o in altre casistiche.

Il giudizio abbreviato, al contrario, dovrà essere modificato relativamente alle condizioni necessarie per l’accoglimento della richiesta. Questa dovrà essere subordinata a un’integrazione probatoria che potrà essere ammessa nel caso si renda necessaria per la decisione o nel caso in cui detto procedimento speciale consenta di economizzare i tempi del procedimento dibattimentale. Si dovrà prevedere, sempre all’interno del giudizio abbreviato, una riduzione di 1/6 della pena, nel caso in cui non venga proposta impugnazione da parte dell’imputato e un aumento del termine, a disposizione del Pubblico Ministero, da sei mesi a un anno, per chiedere l’emissione di detto decreto.

Il dibattimento. Il disegno di legge vuole introdurre alla fase del dibattimento alcune modifiche significative che hanno lo scopo di accelerare il procedimento: i giudici dovranno fissare e comunicare alle parti il calendario organizzativo delle udienze; le parti, a loro volta, dovranno illustrare le loro richieste di prova nei limiti strettamente necessari alla verifica dell’ammissibilità delle stesse.

Il giudizio monocratico. La proposta di riforma contiene modifiche che interessano il giudizio monocratico con l’introduzione di un’udienza predibattimentale in camera di consiglio da celebrarsi davanti a un giudice diverso da quello che sarà interessato al dibattimento. Il giudice, quindi, dovrà pronunciare la sentenza di non luogo a procedere quando gli elementi acquisiti non permettano di prevedere una condanna; al contrario, nel caso in cui venga superata questa fase e il procedimento proceda nel modo ordinario, il giudice dovrà fissare l’udienza dibattimentale che verrà tenuta da un giudice diverso.

Le impugnazioni. Le impugnazioni sono interessate da proposte finalizzate a snellire il carico giudiziario. Relativamente al giudizio di appello vengono estese le attuali ipotesi di inappellabilità delle sentenze e viene previsto che l’appello debba essere trattato con rito camerale non partecipato, salva diversa richiesta dell’imputato o del suo difensore. Relativamente al giudizio in Cassazione, al contrario, la trattazione dei ricorsi deve avvenire con contraddittorio scritto, senza l’intervento dei difensori, salva la possibilità di richiesta delle parti di discussione orale. Viene poi introdotta una procedura non formale per dichiarare l’inammissibilità del ricorso o la sua manifesta infondatezza, permettendo l’opposizione a tale tipo di decisione, senza che ciò comporti la sospensione dell’esecuzione.

La condizione di procedibilità. La riforma vuole ampliare l’ambito di applicazione della procedibilità a querela, disponendo la procedibilità a querela per ulteriori reati contro la persona o contro il patrimonio che prevedano una pena non superiore, nel minimo, a due anni.

Al contempo la riforma vuole potenziare gli istituti della non punibilità per tenuità del fatto e della messa alla prova, per ridurre i casi nei quali il procedimento penale giunga al dibattimento. Viene prevista l’estensione della non punibilità per particolare tenuità del fatto, relativamente a quei reati con pena edittale non superiore nel minimo i due anni, con la previsione di eccezioni per determinati reati e la preclusione per i reati di violenza sulle donne e di violenza domestica.

La messa alla prova. La riforma vuole estendere l’applicabilità della sospensione del procedimento penale con messa alla prova per specifiche ipotesi delittuose che prevedano una pena edittale detentiva non superiore nel massimo a sei anni, a condizione che vengano prestati percorsi risocializzanti o riparatori da parte degli autori di tali reati.

Il sistema sanzionatorio. Il sistema sanzionatorio prevede modifiche in funzione della finalità deflattiva, rivedendo la disciplina delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, da individuare nella semilibertà, nella detenzione domiciliare, nel lavoro di pubblica utilità e nella pena pecuniaria, ampliandone l’ambito di applicazione. Le nuove pene sostitutive (irrogabili entro il limite di 4 anni di pena inflitta) verranno direttamente disposte dal giudice di cognizione, al fine di alleggerire il carico dei giudici dell’esecuzione.

La digitalizzazione. La riforma prevede l’impegno di nuove tecnologie nel processo penale, digitalizzandolo, in considerazione dell’esperienza offerta nel corso della pandemia di questi anni. Con la riforma si conferma, pur in modo graduale, il principio generale della obbligatorietà dell’utilizzo di modalità digitali sia per il deposito di atti e documenti che per le comunicazioni e notificazioni, prevedendo che le modalità non telematiche vengano utilizzate solo in via eccezionale.

Le registrazioni audiovisive dell’interrogatorio e dell’assunzione di informazioni. Il Governo viene delegato a prevedere la possibilità della registrazione audiovisiva o l’audio-registrazione al fine di documentare un interrogatorio, l’assunzione di informazioni o la testimonianza, individuando i casi in cui, col consenso delle parti, dette attività possano avvenire a distanza o da remoto.

Le garanzie difensive. Il disegno di legge indica i principi e criteri per la modifica della disciplina delle notificazioni all’imputato, disponendo che solo la prima notificazione, nella quale egli prende conoscenza del procedimento a suo carico e quelle relative alla citazione a giudizio in primo grado e in sede di impugnazione, dovranno essere effettuate personalmente all’imputato. Viene ribadito, inoltre, che si possa procedere in assenza dell’imputato qualora vi sia la certezza della sua volontà a non partecipare al processo; in caso contrario il giudice è tenuto a pronunciare sentenza inappellabile di non doversi procedere al fine di procedere con ricerche dell’imputato.

l diritto all’oblio. Viene previsto che il decreto di archiviazione e la sentenza di non luogo a procedere o di assoluzione siano titolo per l’emissione di un provvedimento di deindicizzazione, in linea con la normativa europea in ambito di dati personali, al fine di garantire il diritto all’oblio dei soggetti indagati o imputati.

La tutela della vittima. La riforma del processo penale prevede delle disposizioni per rafforzare la tutela alla vittima del reato e per introdurre una disciplina completa sulla giustizia riparativa.

La prescrizione e l’improcedibilità. Il disegno di legge interviene con disposizioni immediatamente applicabili sulla disciplina della prescrizione dei reati contenuta nel codice penale con lo scopo di: confermare le disposizioni previste dalla legge n. 3/2019, che prevede l’arresto del decorso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, qualunque sia l’esito;  escludere che il decreto penale di condanna, trattandosi di provvedimento emesso fuori dal contraddittorio delle parti, produca il medesimo effetto, reinserendolo tra gli atti interruttivi della prescrizione; prevedere che nel caso annullamento della sentenza, con conseguente regressione del procedimento ad un grado inferiore o ad una fase anteriore, la prescrizione riprenda il suo corso dalla pronuncia definitiva di annullamento, con la conseguenza che la disciplina contenuta nell’art. 159, comma, 2 c.p. venga riformulata e trasferita nel nuovo art. 161 bis c.p., rubricato “Cessazione del corso della prescrizione”.

Allo stesso modo viene disposta, con previsione immediatamente prescrittiva, l’improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione, al fine di assicurare tempi certi e ragionevoli ai giudizi di impugnazione che, ad ogni modo, non si potranno applicare nei procedimenti previsti per delitti puniti con l’ergastolo e nei casi in cui l’imputato vi rinunci espressamente. Il nuovo art. 344 bis prevede, infatti, termini di durata massima dei giudizi di impugnazione: 2 anni per l’appello e un anno per il giudizio di cassazione.

La mancata definizione del giudizio entro termini sopra indicati comporterà la declaratoria di improcedibilità dell’azione penale in quanto il giudice che accerterà il superamento di detti termini dovrà dichiarare di non doversi procedere.

I medesimi termini, però, possono essere prorogati dal giudice come segue: per i reati commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale, di associazione mafiosa e di scambio elettorale politico-mafioso, di violenza sessuale aggravata e di traffico di stupefacenti, il termine dei 2 anni in appello e di un anno in Cassazione può essere prorogato, per motivi legati alla complessità del giudizio, con successive proroghe, senza limiti di tempo; per i delitti aggravati dal metodo mafioso e dall’agevolazione mafiosa ai sensi dell’articolo 416 bis, comma1, possono essere concesse proroghe fino ad un massimo di 3 anni per l’appello e un anno e 6 mesi per il giudizio di legittimità (la durata massima del giudizio, per questi casi, sarà di 5 anni per l’ appello e di 2 anni e 6 mesi per il giudizio in Cassazione); per tutti gli altri reati è possibile, nel caso siano presenti motivi giustificativi, solo una proroga di un anno per il giudizio di appello e di 6 mesi per il giudizio in Cassazione (la durata massima, in tal caso, sarà di 3 anni per l’appello e di 1 anno e 6 mesi per la Cassazione).

La disciplina transitoria. Le modifiche che potranno interessare l’art. 578 c.p.p. prevedono una disciplina transitoria: le nuove norme in materia di improcedibilità troveranno applicazione solo nei procedimenti di impugnazione che hanno ad oggetto reati commessi a far data dal 1° gennaio 2020; per i procedimenti nei quali l’impugnazione è proposta entro la data del 31 dicembre 2024, i termini previsti sono, rispettivamente, di tre anni per il giudizio di appello e di un anno e sei mesi per il giudizio di cassazione.

LA CENTRALE RISCHI E LA NUOVA DEFINIZIONE DI DEFAULT DOPO IL REGOLAMENTO DELEGATO (UE)

di Enrico Sirotti Gaudenzi

Il default alla luce del Regolamento Delegato (UE) n. 171/2018 e delle linee guida EBA. Secondo l’art. 178 del Regolamento (UE) n. 575/2013 un debitore è considerato in default quando ricorre almeno una delle seguenti condizioni: «a. condizione soggettiva (“unlikeliness to pay”) – l’ente giudica improbabile che, senza il ricorso ad azioni quale l’escussione delle garanzie, il debitore adempia integralmente alle sue obbligazioni creditizie verso l’ente stesso, la sua impresa madre o una delle sue filiazioni; b. (“past-due criterion”) – il debitore è in arretrato da oltre 90 giorni su una obbligazione creditizia rilevante verso l’ente, la sua impresa madre o una delle sue filiazioni. Le autorità competenti possono sostituire il periodo di 90 giorni con uno di 180 giorni per le esposizioni garantite da immobili residenziali o da immobili non residenziali di PMI nella classe delle esposizioni al dettaglio, nonché per le esposizioni verso organismi del settore pubblico».

IL TEMA VERRÀ APPROFONDITO NEL VOLUME IN MATERIA DI CENTRALE RISCHI GIÁ IN LAVORAZIONE CON L’AVV. ENRICO SIROTTI GAUDENZI

Gli intermediari applicano questi parametri tenendo in considerazione l’insieme di tutte le esposizioni del debitore e, relativamente a quelle che vengono classificate nel portafoglio regolamentare “al dettaglio”, possono anche prendere in considerazione la singola transazione dalla quale si è originata l’esposizione. Il Regolamento Delegato, integrando il Regolamento (UE) n. 575/2013, ha individuato i casi secondo i quali un’esposizione creditizia scaduta diventi rilevante con conseguente configurazione di uno stato di default rientrante nella condizione oggettiva, indicandone i termini assoluti e relativi per l’applicazione della soglia a fini prudenziali. Gli Orientamenti EBA (European Banking Authority) sull’applicazione della definizione di default, ai sensi dell’articolo 178 del Regolamento (UE) n. 575/2013, in conformità al mandato conferito dall’ABE (Autorità Bancaria Europea), forniscono i criteri di calcolo dei giorni di scaduto per la individuazione del default, i trattamenti specifici in caso di verso le amministrazioni centrali, le autorità locali e gli organismi del settore pubblico, i criteri di uscita dallo stato di default e tutti gli indicatori (sia qualitativi che quantitativi) da tenere in considerare ai fini della corretta individuazione di probabile e definitivo inadempimento.

I parametri individuati dalla completa disciplina sopra richiamata riguardano: le soglie di rilevanza per la classificazione dell’esposizione creditizia scaduta in stato di default; i criteri di calcolo dei giorni di scaduto per la classificazione a default; i criteri di uscita dallo stato di default e gli indicatori di probabile inadempimento.

Le soglie di rilevanza ai fini della classificazione di un’esposizione in default. Le soglie di rilevanza per la classificazione di un’esposizione in default (artt. 1 e 2, R.D. 171/2018 della Commissione Europea del 19 ottobre 2017) sono: «in termini assoluti 100,00 euro per le esposizioni al dettaglio e 500,00 euro per le altre esposizioni; in termini relativi l’1% dell’importo complessivo di tutte le esposizioni verso il debitore facenti capo agli intermediari creditizi e finanziari appartenenti a un medesimo perimetro di consolidamento prudenziale (non rilevano le esposizioni in strumenti di capitale). Le autorità competenti possono individuare una soglia diversa, compresa nell’intervallo da 0 a 2,5%, nel caso ritengano che la soglia di rilevanza dell’1% non corrisponda a un livello ragionevole di rischio».

Qualora venga fissata una componente relativa alla soglia di rilevanza che preveda una percentuale superiore o inferiore all’1%, l’autorità competente deve fornire all’ABE i motivi di tale scelta.

Relativamente alla soglia espressa in termini relativi, la Banca d’Italia ha individuato per le banche meno significative e per le SIM, un valore pari all’1%. Affinchè un’esposizione scaduta sia considerata rilevante devono essere superate entrambe le soglie precedentemente indicate.

I criteri di calcolo dei giorni di scaduto. In relazione ai criteri di calcolo dei giorni di scaduto il Regolamento Delegato ha sancito che tali soglie devono essere superate per 90 giorni consecutivi. Il medesimo decreto impone che non vi sia la possibilità di compensazione fra gli importi scaduti con le linee di credito aperte e non utilizzate (margini disponibili); relativamente al conteggio dei giorni consecutivi di scaduto, ne viene fatto coincidere l’inizio col superamento delle soglie di rilevanza. Particolari trattamenti, con diverse condizioni, sono riservati, poi, per i crediti commerciali nei confronti dell’amministrazione centrale, delle autorità locali e degli organismi del settore pubblico.

I parametri per uscire dallo stato di default. Un’esposizione già classificata in stato di default può essere riclassificata ad uno stato di non default qualora siano decorsi almeno tre mesi dal momento in cui venga a cessare la precedente condizione che ha visto classificare la posizione in stato di default.

Gli Orientamenti EBA (European Banking Authority), in relazione alle condizioni minime per la riclassificazione a uno stato di non default impongono agli enti di «(a) considerare che l’attivazione del default non continua ad applicarsi a una esposizione precedentemente classificata come in stato di default, laddove siano trascorsi almeno tre mesi dal momento in cui non siano più rispettate le condizioni di cui all’art. 178, paragrafo 1, lettera b), e all’art. 178, paragrafo 3, del regolamento (UE) n. 575/2013; (b) tener conto del comportamento del debitore durante il periodo di cui alla lettera a); (c) tener conto della situazione finanziaria del debitore durante il periodo di cui alla lettera a); (d) successivamente al periodo di cui alla lettera a), effettuare una valutazione e, laddove l’ente constati ancora l’improbabile adempimento integrale delle proprie obbligazioni senza l’escussione di garanzie, le esposizioni dovrebbero continuare a essere classificate come in default fino a che l’ente è soddisfatto che il miglioramento della qualità creditizia sia effettivo e permanente; (e) le condizioni di cui alle lettere da a) a d) dovrebbero verificarsi anche con riferimento alle nuove esposizioni verso il debitore, in particolare qualora le precedenti esposizioni in stato di default verso il suddetto debitore siano state vendute o annullate. Gli enti possono applicare il periodo di cui alla lettera a) a tutte le esposizioni, o applicare periodi diversi per i diversi tipi di esposizioni».

Gli indicatori che fanno presumere un probabile inadempimento. Gli intermediari devono attenersi a tutti gli indicatori qualitativi e quantitativi indicati dagli orientamenti forniti dall’EBA sull’applicazione della definizione del default al fine di procedere a una corretta valutazione che possa far presumere un probabile inadempimento.

L’attuale disciplina nazionale. Relativamente alla disciplina nazionale ricordiamo come le Circolari n. 148 del 2 luglio 1991 “Manuale delle Segnalazioni Statistiche e di Vigilanza per gli Intermediari del Mercato Mobiliare”, n. 217 del 5 agosto 1996 “Manuale per la compilazione delle Segnalazioni di Vigilanza per gli Intermediari Finanziari, per gli Istituti di pagamento e per gli IMEL” e n. 189 del 21 ottobre 1993 “Manuale delle Segnalazioni Statistiche e di Vigilanza per gli Organismi di Investimento Collettivo del Risparmio” ci offrano la definizione delle esposizioni creditizie deteriorate, in linea con la definizione europea e una classificazione di tutte le esposizione in relazione alla loro anomalia e gravità (dalla più lieve allo stato più grave delle sofferenze). Al fine di determinare le esposizioni creditizie deteriorate si applicano le seguenti modalità: l’esposizione è rilevata come scaduta quando, in caso di approccio per singolo debitore, venga superata la soglia di rilevanza pari al 5% dell’esposizione complessiva con la possibilità di compensare le esposizioni scadute con i margini disponibili presenti in altre linee di credito dello stesso debitore. Il conteggio dei giorni di scaduto avviene con inizio dal giorno successivo alla scadenza prevista per il pagamento, senza considerare il momento in cui viene superata la soglia di rilevanza.

L’attuale disciplina nazionale differisce dalla nuova disciplina imposta dal Regolamento Delegato in quanto, in caso di approccio per debitore, è prevista una soglia diversa (5% in luogo del nuovo 1%) e la possibilità di compensare le esposizioni scadute coi margini disponibili; al contrario, in caso di approccio per transazione non è prevista nessuna soglia. Come già anticipato il conteggio dei giorni di scaduto inizia il giorno successivo alla data di inadempienza, anche se essa abbia un importo non rilevante.

Il Regolamento Delegato, al contrario, stabilisce che: il conteggio inizi solo quando l’ammontare scaduto ecceda le soglie di rilevanza; non prevede dei criteri per l’uscita dalle esposizioni creditizie deteriorate; disciplina trattamenti diversi per esposizioni correlate a operazioni di factoring ed esposizioni verso amministrazioni pubbliche.

Sintesi sui principali cambiamenti

  • Disciplina attuale:
  • a) L’istituto di credito classifica il cliente a default quando risulta un arretrato di pagamento che costituisca almeno il 5% del totale delle esposizioni del cliente.
  • b) L’istituto di credito classifica il cliente a default nel caso in cui l’arretrato di pagamento si protragga per più di 90 giorni consecutivi.
  • c) Lo stato di default decade dal momento in cui il cliente regolarizza nei confronti dell’istituto di credito l’arretrato di pagamento.
  • d) Per evitare di essere classificato a default, la normativa permette la compensazione degli importi scaduti con la disponibilità presente su altre linee di credito non utilizzate.
  • Nuova disciplina:
  • a) L’istituto di credito classifica il cliente a default quando risulta un arretrato di pagamento di: oltre 100,00 euro per le persone fisiche e di oltre 500,00 euro per le imprese. L’arretrato indicato deve rappresentare più dell’1% del totale delle esposizioni del cliente verso l’istituto di credito. La soglia dei 500,00 euro viene ridotta a 100,00 euro per le imprese che, individuate come tali sulla base del Settore di Attività Economica (SAE), presentano un indicatore dimensionale inferiore ai 2,5 milioni di euro ed esposizioni verso la banca per un ammontare complessivo inferiore a 1 milione di euro.
  • b) L’istituto di credito classifica il cliente a default se l’arretrato di pagamento si protrae per più di 90 giorni consecutivi.
  • c) Lo stato di default permarrà per almeno 90 giorni dal giorno in cui il cliente ha regolarizzato nei confronti dell’istituto l’arretrato di pagamento.
  • d) La normativa non permette più la compensazione degli importi scaduti con la disponibilità presente su altre linee di credito non utilizzate. L’ istituto di credito sarà quindi obbligato a classificare il cliente a default anche nel caso in cui sia presente della disponibilità su altre linee di credito non utilizzate.

L’avv. Enrico Sirotti Gaudenzi è anche coautore dei seguenti ebook.

LA CASSAZIONE INTERVIENE NUOVAMENTE SULLE FIDEIUSSIONI OMNIBUS: IN UN PROVVEDIMENTO CHE NON “RIBALTA” L’INDIRIZZO ORAMAI CONSOLIDATO, SI INDICA LA NECESSITÀ DI CONTESTARE PUNTUALMENTE LE CLAUSOLE DEL CONTRATTO “A VALLE” Cass. civ., sez. III, ord., 10 novembre 2020, n. 25273

a cura di Andrea Sirotti Gaudenzi

Avvocato cassazionista, docente universitario e direttore di trattati giuridici. Ha patrocinato dinanzi alla Corte di giustizia dell’Unione europea e alla Corte europea dei diritti dell’uomo. è responsabile scientifico di vari enti in Italia e all’estero, tra cui l’Istituto nazionale per la formazione continua.


Brevi note sull’ordinanza n. 25273/2020

La recente ordinanza emessa dalla Suprema Corte sta provocando un ampio dibattito tra gli operatori del settore bancario, dato che non sono mancate le voci di chi ha espresso perplessità di fronte a un apparente mutamento di orientamento in tema di fideiussioni omnibus. Tuttavia, spesso l’apparenza inganna, così come ingannano le massime e le sintesi fatte circolare da chi ha letto superficialmente il provvedimento dei giudici di legittimità. Infatti, la Cassazione non ha affatto sconfessato il proprio precedente indirizzo che tende a censurare i contratti relativi a fideiussioni omnibus contenenti le clausole presenti nel ben noto schema ABI risalente al 2002 e sottoposto ad ampia e articolata analisi da parte della Banca d’Italia nel provvedimento n. 55/2005.

Nell’ordinanza qui sinteticamente oggetto di analisi, in realtà, si è ribadito expressis verbis che – in tema di accertamento dell’esistenza di intese anticoncorrenziali vietate dall’art. 2 della legge n. 287/1990 – la censura dei negozi stipulati «a valle» in applicazione delle intese illecite concluse «a monte» comporta sicuramente la possibilità di prendere in considerazione anche i contratti stipulati anteriormente all’accertamento dell’intesa da parte dell’Autorità indipendente preposta alla regolazione o al controllo di quel mercato, a condizione che l’intesa «a monte» sia stata posta in essere materialmente prima del negozio denunciato come nullo, come peraltro già chiarito in un provvedimento del 2017 (Cass. civ., sez. I, 12 dicembre 2017, n. 29810).

Si ricorda che nel 2017, la Cassazione aveva evidenziato l’erroneità del ragionamento espresso dai giudici di merito che avevano optato per il mancato accoglimento della richiesta giudiziale del fideiussore volta ad accertare la nullità dell’accordo contrattuale anteriore all’esito dell’istruttoria condotta da parte della Banca d’Italia. Nell’occasione, la Suprema Corte aveva chiarito che tale conclusione fosse errata in quanto tesa a istituire «una sorta di potere di prescrizione, necessario e pregiudiziale rispetto ad ogni accertamento del giudice, da parte dell’Autorità garante rispetto ai comportamenti svolti in facto dai soggetti da essa vigilati che non trova riscontro in nessuna previsione di legge nè nei principi regolatori della materia».

Ebbene, la Corte, con l’ordinanza depositata il 10 novembre 2020, non ha messo in discussione questo ragionamento. Le considerazioni svolte, infatti, sono legate più all’esame circa le modalità di affrontare la questione tecnica in sede di giudizio che non all’analisi delle questioni sostanziali.

Infatti, secondo la Corte di legittimità, se – come nel caso in esame – nel lamentare la pretesa nullità di fideiussione omnibus risalente al 1997, la parte si limita ad affermare che l’invalidità deriverebbe dall’adozione dello schema predisposto dall’ABI nell’ottobre 2002, si dovrebbe giungere alla conclusione secondo cui l’intesa non possa essere stata posta in essere materialmente prima del negozio «a monte» denunciato come nullo. In estrema sintesi, la Corte di Cassazione non sembra essersi discostata dal proprio precedente orientamento, limitandosi a far presente la necessità di fornire chiarimenti e allegazioni in ordine alla necessaria valutazione di una condotta anticoncorrenziale che, peraltro, era già riconosciuta come conclamata prima del 2002.

Difatti, la Banca d’Italia si è espressa sulla inadeguatezza e sulla illegittimità delle clausole standard riconducibili al modello adottato dalla maggior parte degli istituti di credito italiani principalmente in due occasioni, ovvero con il provvedimento n. 12 del 3 dicembre 1994 e con il (più noto) provvedimento n. 55 del 2 maggio 2005. Giova ricordare che – già con il primo provvedimento – la Banca d’Italia ritenne che le c.d. «Norme Bancarie Uniformi» (note con l’acronimo «NBU») fossero in grado di alterare il gioco della concorrenza e potessero costituire un pregiudizio concreto. In particolare, nella circostanza le clausole ricorrenti in tema di prestazione delle garanzie bancarie furono ritenute «lesive della concorrenza».

In estrema sintesi, il provvedimento reso dalla Suprema Corte tende a censurare gli argomenti difensivi della parte che aveva invocato la nullità dell’accordo «a valle». Difatti, secondo la Terza Sezione, il ricorrente, pur avendo impugnato in modo idoneo la parte della ratio decidendi della sentenza di merito relativa alla clausola c.d. «a semplice richiesta», non avrebbe espresso censure adeguate in relazione alla deroga all’art. 1939 c.c., formulando una critica priva di specificità ed esposta in maniera apodittica, dal momento che il ricorrente si sarebbe limitato a denunciare che il richiamo alla clausola in deroga non avrebbe potuto provare il carattere autonomo della garanzia. Sicuramente, la Corte è stata molto severa nell’applicazione dei princìpi in tema di giudizio di legittimità, stante il tenore del provvedimento, ma non si può omettere la constatazione che il controllo operato dalla Cassazione debba essere strettamente legato al rispetto delle disposizioni che lo regolano. Forse, si sarebbe potuto dichiarare la nullità della fideiussione in ragione del riconoscimento del carattere di «prova privilegiata» attribuita in altre sedi ai provvedimenti assunti dalle Autorità indipendenti (Cass. civ., sez. I, 22 maggio 2019, n. 13846) e, quindi, estendendo anche al provvedimento del 1994 tale natura, ma sembra che – nei vari gradi di giudizio – questo aspetto non fosse stato sollevato dalla difesa del garante.

Quindi, la Cassazione non ha rivisto il proprio orientamento sulla nullità (parziale o totale) degli schemi di fideiussione omnibus adottati secondo il modello redatto dall’ABI e già censurato dalla Banca d’Italia, in funzione di Autorità di controllo di quel segmento di mercato sino al 2006, ma ha valutato, nello specifico, le condotte denunciate dal fideiussore e le difese svolte da quest’ultimo a sostegno delle proprie tesi.


IL PROTESTO ILLEGITTIMO E LA TUTELA CAUTELARE

di Enrico Sirotti Gaudenzi

In ambito di illegittimo protesto e sulla conseguente necessità di riequilibrare il conflitto di interesse tra debitore protestato e interesse pubblico, elemento quest’ultimo che nello specifico è ravvisabile nella facoltà di consentire a tutti di conoscere i nominativi dei soggetti protestati, la giurisprudenza si è espressa numerose volte in merito alla possibilità di ottenere una tutela cautelare.

La giurisprudenza ha individuato la possibilità, in alcuni casi, di ricorrere al procedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c. (si veda, a tal proposito: Trib. Bologna, ord., 2 novembre 2016, in Pluris, 2016); in altri casi, al contrario, ha ritenuto inutilizzabile detto procedimento in quanto ha ritenuto competente per materia il presidente della camera di commercio (si veda: Trib. Udine, ord., 13 febbraio 2002, in Giur. mer., 2002).

Nello specifico la tutela cautelare è ritenuta utilizzabile per richiedere e ottenere la sospensione della pubblicazione del protesto ma non la cancellazione del medesimo; quest’ultima, infatti, è ritenuta di competenza del giudice di merito in quanto la cancellazione assume un “carattere definitivo” del tutto estraneo al procedimento previsto dall’art. 700 c.p.c. (si veda: Cass. civ., sez. I, 16 gennaio 1986, n. 251, in Mass. Foro it., 1986; Trib. Napoli, 28 maggio 2010, in Platinum, 2010).

A fare ulteriore chiarezza sulla problematica in esame è intervenuta la Corte costituzionale che sottolineato come il compito di ordinare la cancellazione dei protesti sia da attribuire unicamente al giudice di merito del successivo ed eventuale provvedimento cautelare di sospensione della pubblicazione e che lo strumento cautelare è destinato unicamente a tutelare la reputazione commerciale del soggetto protestato, nel caso in cui quest’ultimo non sia responsabile del mancato pagamento del titolo.

Nella pronuncia del 21 aprile 1994 la Corte costituzionale, inoltre, ha affermato che «il sistema dei protesti cambiari, come risulta anche dall’evoluzione giurisprudenziale, prevede una serie di ipotesi di non pubblicazione di protesti cambiari e consente, anche per quelli pubblicati, la contestuale comunicazione dei motivi del rifiuto di pagamento e le successive rettifiche, realizzando così un trattamento differenziato fra i debitori colpevoli e quelli incolpevoli; pertanto, è infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, della legge. 12 febbraio 1955, n. 77, sollevata con riferimento all’art. 3 Cost., sotto il profilo che esso, non prevedendo l’esclusione della pubblicazione di protesti nell’ipotesi che il mancato pagamento sia dovuto a causa non imputabile al debitore, lederebbe il buon nome commerciale e l’onorabilità della persona e porrebbe in essere una ingiustificata parità di trattamento fra il debitore al quale non è imputabile il mancato pagamento ed il debitore che, senza giustificato motivo, sia stato insolvente».

Si ricorda, ad ogni modo, che in caso di proteso illegittimo di cambiali il soggetto protestato ha sempre la possibilità di richiedere la cancellazione all’autorità giudiziaria ordinaria (si veda: Tribunale di Foggia, sent. 11 febbraio 2003, in Pluris, 2003); tale possibilità è utilizzabile in tutti quei casi in cui le anomalie dell’atto pubblico non siano direttamente ravvisabili dal titolo di credito e venga ritenuta esclusa la competenza del presidente della Camera di commercio a prendere in esame la cancellazione del titolo protestato.

In relazione agli aspetti puramente processuali si fa presente che dovrà sempre essere rispettato il principio del contraddittorio tramite la partecipazione del pubblico ufficiale che ha elevato il protesto (In tal senso, si veda: Cass. civ., sez. I, 10 giugno 2010, n. 14005, in Ced Cass., 2010), mentre la partecipazione al procedimento della Camera di commercio, pur potendo essere convenuta in giudizio, non è ritenuta necessaria.

Il fumus boni iuris, sarà ravvisabile nell’interesse a vedere dichiarato nullo un protesto per carenza dei requisiti formali (assegno privo di data, illegittimo riempimento, ecc.); il periculum in mora, al contrario,sarò individuabile nel danno causato alla sfera economico-giuridica del soggetto protestato.

I danni patrimoniali causati da una illegittima segnalazione possono essere, infatti, molto ingenti se consideriamo come la possibilità di accedere al credito possa essere limitata con conseguente impossibilità a proseguire una attività commerciale o imprenditoriale; proprio per questo il  periculum in mora, viene spesso e volentieri rapportato all’avviamento di un’attività commerciale perchè la reputazione di un imprenditore è considerata uno dei fattori fondamentali dell’avviamento di un’attività e il discredito commerciale può contribuire a interrompere numerose relazioni commerciali con conseguente perdita di nuove possibilità e opportunità di lavoro.

MODIFICHE DA APPORTARE AL SUPERBONUS 110%

di Maurizio Villani

Segnalo le modifiche che, secondo me, dovrebbero essere apportate per rendere più appetibile ed operativo il Superbonus 110%, correggendo, peraltro, alcune restrittive interpretazioni fatte dall’Agenzia delle Entrate, con la Circolare n. 24/E dell’08/08/2020:


far rientrare tra le spese detraibili il compenso degli amministratori di condominio, così come riconosciuto dalla Direzione Regionale del Lazio con l’interpello n. 913-471/2020;

• consentire subito l’utilizzo del credito e la relativa compensazione, senza dover aspettare l’anno successivo a quello di sostenimento delle spese, contrariamente a quanto scritto nel Provvedimento dell’Agenzia delle Entrate (Prot. n. 283847/2020 dell’08/08/2020 – pag. 8 – punto n. 5.1);

• escludere l’obbligo dello stesso lasso di tempo dei trainanti per i lavori trainati, quando l’art. 119, comma 2, D.L. n. 34/2020 richiede soltanto la condizione che i trainati siano “eseguiti congiuntamente”, senza alcun riferimento temporale;

• riconoscere il Superbonus anche alle comunioni ed alle comproprietà di un unico edificio, così come in tema di Ecobonus è stato previsto con precedenti risposte dell’Agenzia delle Entrate (Risposte n. 137 del 22/05/2020; n. 139 del 22/05/2020; n. 293 del 22/07/2019);

• accordare gli interventi trainanti anche su singole unità immobiliari e relative pertinenze all’interno di edifici in condominio;

• chiarire che per il concetto esatto di edificio si deve fare riferimento soltanto al D.Lgs. n. 192/2005 e non al D.P.C.M. del 20/10/2016 (voce 32- allegato A, che non deve mai essere citato nei decreti ministeriali);

• concedere l’installazione e non soltanto la sostituzione degli impianti di climatizzazione invernale esistenti;

• escludere il riferimento alla “destinazione residenziale” degli edifici, perché l’art. 119 cit. non fa alcuna distinzione, in quanto il termine residenziale è contenuto solo per gli IACP (oggi ARCA);

• rendere più snella la procedura delle assemblee condominiali, anche per quanto riguarda il quorum costitutivo; consentire anche le riunioni assembleari online;

• estromettere il riferimento agli otto anni di tempo per rettificare gli indebiti utilizzi in compensazione dei crediti d’imposta;

• ridurre sensibilmente e semplificare la valanga di carte per il superbonus 110%;

• mettere in chiaro bene come devono comportarsi le multiproprietà, per evitare futuri contenziosi tributari;

• prorogare il Superbonus al 31 dicembre 2024

spiegare che:

tutti i termini per le comunicazioni sono ordinatori e non perentori;

• la mancanza anche di un solo dei documenti richiesti o una qualsiasi formale irregolarità non fa mai decadere il diritto alla detrazione con l’avvio di un’azione di recupero da parte dell’Agenzia delle Entrate;

• si deve fare riferimento soltanto all’APE convenzionale nazionale (D.Lgs. n. 192/2005), senza tenere conto delle varie APE regionali determinate in modo autonomo;

• per le varie liti tributarie sono competenti soltanto le Commissioni Tributarie (Decreto Legislativo n. 546/92);

In conclusione:

l’agevolazione del 110% è forse la norma più efficace per creare nuove opportunità di lavoro, tenuto conto del notevole indotto che crea l’edilizia.
L’auspicio è che l’Agenzia delle Entrate non penalizzi queste opportunità e riveda le sue restrittive interpretazioni.

IL DIRITTO AL CONTRADDITTORIO

di Maurizio Villani

Lunedì 27 luglio 2020 si festeggiano i 20 anni dello Statuto dei Diritti del Contribuente approvato con legge n. 212 del 27 luglio 2000.

Si tratta di una legge ordinaria, più volte derogata (basta leggere i tre decreti-legge emanati durante il periodo COVID-19), tanto è vero che da più parti si auspica, giustamente, una costituzionalizzazione dello Statuto, soprattutto in vista della prossima generale riforma fiscale.

In ogni caso, un principio importante previsto dallo Statuto è il diritto del contribuente al contraddittorio, disciplinato dall’art. 12, comma 7, della legge n. 212 cit..

Dopo vari orientamenti giurisprudenziali, finalmente, la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con la sentenza n. 18184 del 29/07/2013, ha stabilito il seguente importante principio:

«In tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l’art. 12, comma 7, della legge 27 luglio 2000, n. 212 deve essere interpretato nel senso che l’inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento, termine decorrente dal rilascio al contribuente, nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni, determina di per sé, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, l’illegittimità dell’atto impositivo emesso “ante tempus”, poiché detto termine è posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, il quale costituisce primaria espressione dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente ed è diretto al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva.

Il vizio invalidante non consiste nella mera omessa enunciazione nell’atto dei motivi di urgenza che ne hanno determinato l’emissione anticipata, bensì nell’effettiva assenza di detto requisito (esonerativo dall’osservanza del termine), la cui ricorrenza, nella concreta fattispecie e all’epoca di tale emissione, deve essere provata dall’ufficio.».

Peraltro, la Corte di Cassazione ha avuto altresì occasione di chiarire (Cass., 30/10/2018, n. 27623) che la sanzione della illegittimità dell’avviso per il mancato rispetto del termine dilatorio dei sessanta giorni stabilito a presidio del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, espressione dei principi di collaborazione e di buona fede, non presuppone che il contribuente dimostri che il minor termine gli ha precluso di predisporre una adeguata e specifica linea difensiva, senza che tale interpretazione contrasti con il diritto comunitario, in quanto il maggior grado di tutela previsto a livello interno per i tributi non armonizzati dall’art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000, per come interpretato dal diritto vivente della Corte di Cassazione, si muove in armonia piena con il principio di massimizzazione delle tutele, che consente ad un singolo ordinamento di apprestare livelli di protezione di un diritto fondamentale, quale è sicuramente quello al contraddittorio, più ampi rispetto a quelli garantiti dal sistema eurounitario per i tributi non armonizzati.

Tanto premesso, sugli effetti della violazione del termine dilatorio di cui all’ art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000, è opportuno precisare, per quanto qui interessa, che esso è ritenuto dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione applicabile, oltre che all’ipotesi di verifica, anche a quella di accesso, concludendosi anche tale accertamento con la sottoscrizione e consegna del processo verbale delle operazioni svolte (Cass. 05/02/2014, n. 2593) ed a qualsiasi atto di accertamento o controllo con accesso o ispezione nei locali dell’impresa, ivi compresi gli atti di accesso istantanei finalizzati all’acquisizione di documentazione, sia perché la citata disposizione non prevede alcuna distinzione in ordine alla durata dell’accesso, in esito al quale comunque deve essere redatto un verbale di chiusura delle operazioni, sia perché, anche in caso di accesso breve, si verifica l’intromissione autoritativa dell’amministrazione nei luoghi di pertinenza del contribuente, che deve essere controbilanciata dalle garanzie di cui al citato articolo 12 (Cass. 21/11/2018, n. 30026; Cass. 09/07/2014, n. 15624).

Il vizio invalidante non consiste nella mera omessa enunciazione nell’atto dei motivi di urgenza che ne hanno determinato l’emissione anticipata, bensì nell’effettiva assenza di detto requisito (esonerativo dall’osservanza del termine), la cui ricorrenza, nella concreta fattispecie e all’epoca di tale emissione, deve essere provata dall’ufficio.

Va anche considerato che, in materia di garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, la scadenza del termine di decadenza dell’azione accertativa non rappresenta una ragione di urgenza tutelabile ai fini dell’inosservanza del termine dilatorio di cui all’art. 12, comma 7, della L. n. 212 del 2000 (Cass. Civ., 10 aprile 2018, n. 8749), ben potendo, invece, l’amministrazione offrire come giustificazione dell’urgenza la prova che l’esercizio nell’imminenza della scadenza del termine sia dipeso da fattori ad essa non imputabili che hanno inciso sull’attività accertativa fino al punto da rendere comunque necessaria l’attivazione dell’accertamento, a pena di vedere dissolta la finalità di recupero delle imposte ritenute non versate dal contribuente.

Non è, quindi, l’imminenza della scadenza del termine ad integrare l’urgenza, ma, semmai, l’insorgenza di fatti concreti e precisi che possono rendere giustificata l’attivazione dell’ufficio quando non può più essere rispettato il termine dilatorio a pena di vedere decaduta l’amministrazione (per esempio in caso di reiterate violazioni delle leggi tributarie aventi rilevanza penale oppure per la partecipazione del contribuente ad una frode fiscale come da Cass. Civ., Sez. 6-5, 2 luglio 2018, n. 17211).

Né la sanzione della illegittimità dell’avviso per il mancato rispetto del termine dilatorio dei sessanta giorni può essere irrogata solo qualora il contribuente dimostri che il minor termine gli ha precluso di predisporre una adeguata e specifica linea difensiva.

Tale termine deve essere, infatti, rispettato a prescindere dalla allegazione da parte del contribuente di avere subìto uno specifico nocumento alla propria difesa, non avendo potuto produrre nel ristretto lasso temporale concesso, osservazioni, memorie e documenti.

Il termine è, infatti, stabilito a presidio del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, espressione dei principi di collaborazione e di buona fede (Cassazione, Sez. Tributaria, ordinanze n. 27623/2018 e 16971/2019).

L’art. 12, comma 7, della legge 212/2000, dunque, non prevede, per le verifiche svolte nei locali del contribuente, la c.d. prova di resistenza al fine di rendere operante l’invalidità dell’atto emesso senza il rispetto del termine dilatorio di sessanta giorni.

AVV. MAURIZIO VILLANI

Avvocato Tributarista in Lecce

Patrocinante in Cassazione

www.studiotributariovillani.it

APPROVATO IL DECRETO RILANCIO – LA LEGITTIMITÀ DEI DECRETI LEGGE SECONDO LA CORTE COSTITUZIONALE

di Maurizio Villani

In materia tributaria si ricorre spesso ai decreti-legge, come avvenuto durante il periodo di pandemia da COVID-19 con il:

  1. decreto legge n. 18 del 17/03/2020, convertito con modifiche dalla Legge n. 27 del 24 aprile 2020 (Decreto CURA ITALIA di 127 articoli);
  • decreto legge n. 23 dell’08/04/2020, convertito con modifiche dalla Legge n. 40 del 05 giugno 2020 (Decreto LIQUIDITA’ di 44 articoli);
  • decreto-legge n. 34 del 19/05/2020, convertito con modifiche dalla Legge di conversione approvata con la fiducia dal Senato giovedì 16/07/2020 (Decreto RILANCIO di 266 articoli e 971 pagine; servono 155 decreti attuativi).

A questo punto, è opportuno controllare se il decreto-legge ha scrupolosamente rispettato le condizioni previste dalla legge, soprattutto alla luce dei principi giuridici dettati dalla Corte Costituzionale.

L’art. 77, secondo comma, della Costituzione stabilisce che:

“Quando, in casi straordinari di necessità e d’urgenza, il Governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni”.

La Corte Costituzionale, con le sentenze che commenteremo, ha stabilito che il decreto-legge, per essere legittimo, deve rispettare le tassative condizioni della necessità ed urgenza e della omogeneità degli argomenti trattati.

Inoltre, la Corte Costituzionale, mutando un precedente orientamento, con le sentenze n. 116 del 2006, n. 171 del 2007, n. 128 del 2008 e n. 355 del 2010, ha precisato che la legge di conversione non ha efficacia sanante di eventuali vizi del decreto-legge e che le disposizioni della legge di conversione in quanto tali non possono essere valutate, sotto il profilo della legittimità costituzionale, autonomamente da quelle del decreto stesso.

Inoltre, seguendo il più recente orientamento della Corte Costituzionale, va ulteriormente precisato che la valutazione in termini di necessità e di urgenza deve essere indirettamente effettuata per quelle norme, aggiunte dalla legge di conversione del decreto-legge, che non siano del tutto estranee rispetto al contenuto della decretazione d’urgenza; mentre tale valutazione non è richiesta quando la norma aggiunta sia eterogenea rispetto a tale contenuto (sentenza n. 355/2010 della Corte Costituzionale).

Infine, l’art. 77, terzo comma, della Costituzione prevede che:

“I decreti perdono efficacia sin dall’inizio se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione. Le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti”.

Ciò, per esempio, si è verificato con l’art. 1, comma 2, della legge n. 27 del 24/04/2020, che ha stabilito che:

“I decreti-legge 2 marzo 2020, n. 9, 8 marzo 2020, n. 11, e 9 marzo 2020, n. 14, sono abrogati. Restano validi gli atti ed i provvedimenti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base dei  medesimi decreti-legge 2 marzo 2020, n. 9, 8 marzo 2020, n. 11, e 9 marzo 2020, n. 14”.

A) Presupposti di necessità ed urgenza.

La Corte Costituzionale, con giurisprudenza costante sin dal 1995 (sentenza n. 29 del 1995), ha affermato che l’esistenza dei requisiti della straordinarietà del caso di necessità e d’urgenza può essere oggetto di controllo di costituzionalità.

La straordinarietà del caso, tale da imporre la necessità di dettare con urgenza una disciplina in proposito, può essere dovuta ad una pluralità di situazioni (come, per esempio, eventi naturali, comportamenti umani ed anche atti e provvedimenti di pubblici poteri) in relazione alle quali non sono configurabili rigidi parametri, valevoli per ogni ipotesi (sentenza n. 171 del 2007 della Corte Costituzionale).

La Corte Costituzionale ha sempre ritenuto che il difetto dei presupposti di legittimità della decretazione d’urgenza, in sede di scrutinio di costituzionalità, deve risultare evidente, come per esempio in presenza dello specifico fenomeno della reiterazione dei decreti-legge non convertiti (sentenza n. 360 del 1996 della Corte Costituzionale).

Inoltre, come scritto in precedenza, la legge di conversione non può mai sanare i vizi del decreto-legge, altrimenti si attribuirebbe in concreto al legislatore ordinario il potere di alterare il riparto costituzionale delle competenze del Parlamento e del Governo quanto alla produzione delle fonti primarie (sentenza n. 171 del 2007, già citata e sentenza n. 128 del 2008).

Infatti, il carattere peculiare della legge di conversione comporta anche che il Governo, stabilendo il contenuto del decreto-legge, sia nelle condizioni di circoscrivere, sia pure indirettamente, i confini del potere emendativo parlamentare.

Pertanto, gli equilibri che la Costituzione instaura tra Governo e Parlamento impongono di ribadire che la possibilità, per il Governo, di ricorrere al decreto-legge deve essere realmente limitata ai soli casi straordinari di necessità ed urgenza di cui al citato art. 77, secondo comma, Cost. (sentenza n. 154 del 2015 della Corte Costituzionale).

B) Principio di omogeneità.

La Corte Costituzionale, tra gli indici alla stregua dei quali verificare se risulti evidente o meno la carenza del requisito della straordinarietà del caso di necessità ed urgenza di provvedere, ha individuato la “evidente estraneità” della norma censurata rispetto alla materia disciplinata da altre disposizioni del decreto-legge in cui è inserita (sentenze n. 171 del 2007 e n. 128 del 2008, già citate; sentenza n. 22 del 2012).

La giurisprudenza sopra richiamata collega il riconoscimento dell’esistenza dei presupposti fattuali, di cui all’art. 77, secondo comma, Cost., ad una intrinseca coerenza delle norme contenute in un decreto-legge, o dal punto di vista oggettivo e materiale, o dal punto di vista funzionale e finalistico.

La urgente necessità del provvedere può riguardare una pluralità di norme accomunate dalla natura unitaria delle fattispecie disciplinate, ovvero anche dall’intento di fronteggiare situazioni straordinarie complesse e variegate, che richiedono interventi oggettivamente eterogenei, afferenti quindi a materie diverse, ma indirizzati all’unico scopo di approntare rimedi urgenti a situazioni straordinarie venutesi a determinare.

Da quanto detto si trae la conclusione che la semplice immissione di una disposizione nel corpo di un decreto-legge oggettivamente o teleologicamente unitario non vale a trasmettere, per ciò solo, alla stessa il carattere di urgenza proprio delle altre disposizioni, legate tra loro dalla comunanza di oggetto o di finalità.

L’inserimento di norme eterogenee all’oggetto o alla finalità del decreto spezza il legame logico-giuridico tra la valutazione fatta dal Governo dell’urgenza del provvedere ed “i provvedimenti provvisori con forza di legge”, di cui alla norma costituzionale citata.

Il presupposto del “caso” straordinario di necessità e urgenza inerisce sempre e soltanto al provvedimento inteso come un tutto unitario, atto normativo fornito di intrinseca coerenza, anche se articolato e differenziato al suo interno.

L’art. 15, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri) – là dove prescrive che il contenuto del decreto-legge “deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo” – pur non avendo, in sé e per sé, rango costituzionale, e non potendo quindi assurgere a parametro di legittimità in un giudizio davanti alla Corte Costituzionale, costituisce esplicitazione della ratio implicita nel secondo comma dell’art. 77 Cost., il quale impone il collegamento dell’intero decreto-legge al caso straordinario di necessità e urgenza, che ha indotto il Governo ad avvalersi dell’eccezionale potere di esercitare la funzione legislativa senza previa delegazione da parte del Parlamento.

I cosiddetti decreti “milleproroghe“, che, con cadenza ormai annuale, soprattutto in  materia tributaria, vengono convertiti in legge dalle Camere, sebbene attengano ad ambiti materiali diversi ed eterogenei, devono obbedire alla ratio unitaria di intervenire con urgenza sulla scadenza di termini il cui decorso sarebbe dannoso per interessi ritenuti rilevanti dal Governo e dal Parlamento, o di incidere su situazioni esistenti – pur attinenti ad oggetti e materie diversi – che richiedono interventi regolatori di natura temporale.

Del tutto estranea a tali interventi è la disciplina “a regime” di materie o settori di materie, rispetto alle quali non può valere il medesimo presupposto della necessità temporale e che possono quindi essere oggetto del normale esercizio del potere di iniziativa legislativa, di cui all’art. 71 Cost.

Ove le discipline estranee alla ratio unitaria del decreto presentassero, secondo il giudizio politico del Governo, profili autonomi di necessità e urgenza, le stesse ben potrebbero essere contenute in atti normativi urgenti del potere esecutivo distinti e separati.

Risulta, invece, in contrasto con l’art. 77 Cost. la commistione e la sovrapposizione, nello stesso atto normativo, di oggetti e finalità eterogenei, in ragione di presupposti, a loro volta, eterogenei.

La necessaria omogeneità del decreto-legge, la cui interna coerenza va valutata in relazione all’apprezzamento politico, operato dal Governo e controllato dal Parlamento, del singolo caso straordinario di necessità e urgenza, deve essere osservata dalla legge di conversione.

Il principio della sostanziale omogeneità delle norme contenute nella legge di conversione di un decreto-legge è pienamente recepito dall’art. 96-bis, comma 7, del regolamento della Camera dei deputati, che dispone: “Il Presidente dichiara inammissibili gli emendamenti e gli articoli aggiuntivi che non siano strettamente attinenti alla materia del decreto-legge”.

Sulla medesima linea si colloca la lettera inviata il 7 marzo 2011 dal Presidente del Senato ai Presidenti delle Commissioni parlamentari, nonché, per conoscenza, al Ministro per i rapporti con il Parlamento, in cui si esprime l’indirizzo “di interpretare in modo particolarmente rigoroso, in sede di conversione di un decreto-legge, la norma dell’art. 97, comma 1, del regolamento, sulla improponibilità di emendamenti estranei all’oggetto della discussione”, ricordando in proposito il parere espresso dalla Giunta per il regolamento l’8 novembre 1984, richiamato, a sua volta, dalla circolare sull’istruttoria legislativa nelle Commissioni del 10 gennaio 1997.

Peraltro, il suddetto principio della sostanziale omogeneità delle norme contenute nella legge di conversione di un decreto-legge è stato richiamato nel messaggio del 29 marzo 2002, con il quale il Presidente della Repubblica, ai sensi dell’art. 74 Cost., ha rinviato alle Camere il disegno di legge di conversione del decreto-legge 25 gennaio 2002, n. 4 (Disposizioni urgenti finalizzate a superare lo stato di crisi per il settore zootecnico, per la pesca e per l’agricoltura), e ribadito nella lettera del 22 febbraio 2011, inviata dal Capo dello Stato ai Presidenti delle Camere ed al Presidente del Consiglio dei ministri nel corso del procedimento di conversione del decreto-legge.

Si deve ritenere che l’esclusione della possibilità di inserire nella legge di conversione di un decreto-legge emendamenti del tutto estranei all’oggetto e alle finalità del testo originario non risponda soltanto ad esigenze di buona tecnica normativa, ma sia imposta dallo stesso art. 77, secondo comma, Cost., che istituisce un nesso di interrelazione funzionale tra decreto-legge, formato dal Governo ed emanato dal Presidente della Repubblica, e legge di conversione, caratterizzata da un procedimento di approvazione peculiare rispetto a quello ordinario.

Innanzitutto, il disegno di legge di conversione del decreto-legge appartiene alla competenza riservata del Governo, che deve presentarlo alle Camere “il giorno stesso” della emanazione dell’atto normativo urgente (evitando la sibillina formula “salvo intese”).

Anche i tempi del procedimento sono particolarmente rapidi, giacché le Camere, anche se sciolte, sono convocate appositamente e si riuniscono entro cinque giorni.

Il Parlamento è chiamato a convertire, o non, in legge un atto, unitariamente considerato, contenente disposizioni giudicate urgenti dal Governo per la natura stessa delle fattispecie regolate o per la finalità che si intende perseguire.

In definitiva, l’oggetto del decreto-legge tende a coincidere con quello della legge di conversione.

Non si può tuttavia escludere che le Camere possano, nell’esercizio della propria ordinaria potestà legislativa, apportare emendamenti al testo del decreto-legge, che valgano a modificare la disciplina normativa in esso contenuta, a seguito di valutazioni parlamentari difformi nel merito della disciplina, rispetto agli stessi oggetti o in vista delle medesime finalità.

Il testo può anche essere emendato per esigenze meramente tecniche o formali.

Ciò che esorbita invece dalla sequenza tipica profilata dall’art. 77, secondo comma, Cost., è l’alterazione dell’omogeneità di fondo della normativa urgente, quale risulta dal testo originario, ove questo, a sua volta, possieda tale caratteristica.

In definitiva, l’innesto nell’iter di conversione dell’ordinaria funzione legislativa può certamente essere effettuato, per ragioni di economia procedimentale, a patto di non spezzare il legame essenziale tra decretazione d’urgenza e potere di conversione.

Se tale legame viene interrotto, la violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost., non deriva dalla mancanza dei presupposti di necessità e urgenza per le norme eterogenee aggiunte, che, proprio per essere estranee e inserite successivamente, non possono collegarsi a tali condizioni preliminari (sentenza n. 355 del 2010), ma per l’uso improprio, da parte del Parlamento, di un potere che la Costituzione gli attribuisce, con speciali modalità di procedura, allo scopo tipico di convertire, o non, in legge un decreto-legge.

La Costituzione italiana disciplina, nelle loro grandi linee, i diversi procedimenti legislativi e pone limiti e regole, da specificarsi nei regolamenti parlamentari.

Il rispetto delle norme costituzionali, che dettano tali limiti e regole, è condizione di legittimità costituzionale degli atti approvati, come la Corte Costituzionale ha già affermato a partire dalla sentenza n. 9 del 1959, nella quale ha stabilito la propria “competenza di controllare se il processo formativo di una legge si è compiuto in conformità alle norme con le quali la Costituzione direttamente regola tale procedimento”.

In sostanza, la valutazione è sempre rimessa alla discrezionalità delle Camere e può essere sindacata dinanzi la Corte Costituzionale soltanto se essa sia affetta da manifesta irragionevolezza o arbitrarietà ovvero per mancanza evidente dei suesposti presupposti (sentenza n. 116 del 2006 della Corte Costituzionale).

Sul principio di omogeneità, quale nesso funzionale tra le disposizioni del decreto-legge e quelle introdotte nella legge di conversione, si citano le seguenti ulteriori pronunce della Corte Costituzionale:

– sentenza n. 128 del 30/04/2008;

– ordinanza n. 34 del 06/03/2013;

– sentenza n. 32 del 25/02/2014;

– sentenza n. 251 del 07/11/2014;

– sentenza n. 154 del 15/07/2015;

– sentenza n. 181 del 16/07/2019;

– sentenza n. 226 del 29/10/2019;

– sentenza n. 247 del 04/12/2019;

– ordinanza n. 274 del 18/12/2019;

– ordinanza n. 275 del 18/12/2019.

Così, per esempio, la Corte Costituzionale, nei seguenti casi, ha dichiarato l’illegittimità dei decreti legge per non aver rispettato il requisito dell’omogeneità, con l’introduzione di norme totalmente “estranee” o addirittura “intruse”:

  1. decreto-legge n. 272/2005, perché in tema di Polizia di Stato si sono inserite norme sulla tossicodipendenza (sentenza n. 32 del 2014 cit.);
  • decreto-legge n. 248/2007, perché un conto è la proroga urgente dei termini e ben altro è la decisione circa l’ampiezza delle competenze di una categoria professionale (sentenza n. 154 del 2015 cit.);
  • decreto-legge n. 119/2018, perché in una materia tributaria non si possono inserire norme in materia sanitaria (sentenza n. 247/2019 cit.);
  • decreto-legge n. 225/2010, perché, sempre in materia tributaria, non si possono inserire norme relative al Servizio Nazionale della Protezione Civile (sentenza n. 22 del 2012 cit.);
  • decreto-legge n. 262/2006, perché, sempre in materia tributaria e finanziaria, nessun collegamento è ravvisabile tra tali premesse e la previsione dell’esproprio del Teatro Petruzzelli di Bari (sentenza n. 128 del 2008 cit.).

In definitiva, per rilevare o meno l’illegittimità costituzionale di un decreto-legge, soprattutto nella materia tributaria, bisogna controllare che le disposizioni siano coerenti con quelle originarie, essenzialmente per evitare che il relativo iter procedimentale semplificato dell’art. 77 citato, previsto dai regolamenti parlamentari, possa essere sfruttato per scopi estranei a quelli che giustificano il decreto-legge, a detrimento delle ordinarie dinamiche di confronto parlamentare (sentenze n. 32 del 2014 e n. 22 del 2012 più volte citate).

Infine, secondo me, è opportuno segnalare questo importate ed interessante passo della sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 25506 del 30 novembre 2006:

“Nel caso di specie, poi, non è facile distinguere l’amministrazione finanziaria, parte in causa, dal legislatore, posto che la norma interpretativa è stata approvata con decreto legge del governo, convertito in una legge, la cui approvazione è stata condizionata dal voto di fiducia al governo. Tanto che se fosse stato diverso l’orientamento del Collegio (rispetto alla scelta legislativa), non ci si sarebbe potuto esimere dal valutare la compatibilità della procedura di approvazione dell’art. 36, comma 2, d.l. 223/2006, con il parametro costituzionale di cui all’art. 111 della Costituzione, che presuppone una posizione di parità delle parti nel processo, posto che, nella specie, l’amministrazione finanziaria ha avuto il privilegio di rivestire il doppio ruolo di parte in causa e di legislatore e che, in questa seconda veste, nel corso del giudizio ha dettato al giudice quale dovesse essere, pro domo suo, la corretta interpretazione della norma sub iudice.

L’intervento è apparso inopportuno anche perché la pubblica amministrazione, anche quando è parte in causa, ha sempre l’obbligo di essere e di apparire imparziale, in forza dell’art. 97 Cost.”.

In ogni caso, le misure di emergenza non devono diventare la regola.

C) Eccezioni di incostituzionalità degli ultimi decreti legge.

Anche alla luce delle considerazioni giuridiche di cui sopra, oggi, analizzando gli ultimi decreti-legge, si possono sollevare eccezioni di incostituzionalità, ribadendo il principio, già in precedenza espresso, che è del tutto estranea agli interventi con decreti-legge la disciplina “a regime” di materie o settori di materie rispetto alle quali non può valere il medesimo presupposto della necessità temporale e che possono, quindi, essere oggetto del normale esercizio del potere di iniziativa legislativa ordinaria di cui all’art. 71 Cost. (sentenza n. 22 del 2012 della Corte Costituzionale, più volte citata).

Il suddetto articolo interviene in materia di processo tributario con una disposizione “a regime”, come tale incostituzionale, obbligando le parti processuali, che si sono costituite con modalità analogiche, a notificare e depositare gli atti successivi, nonché i provvedimenti giurisdizionali, esclusivamente con le modalità telematiche stabilite dal decreto del Ministro dell’economia e delle finanze del 23/12/2013, n. 163, e dai successivi decreti attuativi.

Anche il suddetto articolo interviene in materia di processo tributario,con una disposizione “a regime”, come tale incostituzionale, stabilendo che la sanzione in tema di contributo unificato, anche attraverso la comunicazione contenuta nell’invito al pagamento, è notificata a cura dell’ufficio e anche tramite PEC nel domicilio eletto o, nel caso di mancata elezione del domicilio, mediante deposito presso l’ufficio.

  • Art. 135, comma 2, decreto-legge n. 34 del 19/05/2020, già citato.

Il suddetto articolo interviene in materia di giustizia tributaria con una disposizione “a regime”, come tale incostituzionale, stabilendo il collegamento audiovisivo tra l’aula di udienza ed il luogo del collegamento da remoto delle parti processuali, peraltro rinviando ad uno o più provvedimenti del Direttore Generale delle Finanze, con ciò dimostrando che manca la necessità e l’urgenza.

  • Art. 157, comma 1, decreto-legge n. 34 del 19/05/2020, già citato.

Con il suddetto articolo, il Governo, derogando all’art. 3, ultimo comma, della legge n. 212 del 27/07/2000 (c.d. Statuto dei Diritti del Contribuente), per gli avvisi di accertamento, di contestazione, di irrogazione delle sanzioni, di recupero dei crediti d’imposta, di liquidazione e di rettifica e liquidazione, ha stabilito l’emissione degli stessi atti entro il 31/12/2020 e la notifica nel periodo compreso tra il 01 gennaio ed il 31 dicembre 2021.

In tal modo, il Governo prorogando di un anno i termini di decadenza per gli accertamenti relativi all’anno 2015 (anno 2014 per omesse dichiarazioni) ha dimostrato la mancanza della necessità ed urgenza.

Inoltre, mentre al contribuente sono stati concessi soltanto 64 giorni di sospensione per gli atti processuali (art. 83, comma 2, decreto legge n. 18 cit.), proprio per la necessità ed urgenza di intervenire, agli uffici fiscali, invece, la cui attività amministrativa è stata sospesa soltanto per 85 giorni (art. 67, comma 1, decreto-legge n. 18 cit.), è stato prorogato di un anno il termine di decadenza (creando una disparità di trattamento incostituzionale, ai sensi per gli effetti dell’art. 3 della Costituzione).

Oltretutto, l’art. 67, comma 4, cit. non ha ritenuto applicabile l’art. 12, comma 2, D.Lgs. n. 159 del 24/09/2015, ma soltanto il comma 1 del citato articolo che prevede una sospensione corrispondente allo stesso periodo di tempo concesso; pertanto, agli uffici fiscali doveva essere concesso soltanto una proroga della decadenza di 85 giorni e non di un anno per la notifica degli avvisi di accertamento, proprio in riferimento al succitato art. 12, comma 1.

Senza considerare, infine, che, ancora una volta, è stato derogato ed ignorato lo Statuto dei Diritti del Contribuente, soprattutto oggi in occasione dei 20 anni dalla sua approvazione (27 luglio 2000).

Bel modo di festeggiare il compleanno !!!!!

Lecce, 17 luglio 2020

AVV. MAURIZIO VILLANI

Avvocato Tributarista in Lecce

Patrocinante in Cassazione www.studiotributariovillani.it

EMERGENZA COVID-19 SOMME ALL’AGENZIA DELLE ENTRATE E ALL’ADER E NON AI CONTRIBUENTI

di Maurizio Villani

In questo particolare e difficile momento storico ed economico, in cui la pandemia, oltre ai problemi sanitari, sta producendo una grave crisi, con il rischio di chiusure commerciali ed imprenditoriali, nonché professionali, con inevitabili conseguenze sul piano occupazionale, il Governo, con l’ultimo Decreto-Legge Rilancio, ha pensato bene di integrare le sostanziose risorse economiche spettanti alle Agenzia delle Entrate ed alle Agenzie delle Entrate Riscossione (ADER) per favorire il rafforzamento delle attività di promozione dell’adempimento spontaneo degli obblighi fiscali da parte dei contribuenti nonché per l’equilibrio gestionale del servizio nazionale di riscossione (artt. 139 e 155 D.L. n. 34 del 19 maggio 2020).

Prima di chiarire quanto sopra, è opportuno, secondo me, precisare i rapporti giuridici ed economici che intercorrono tra il Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF), le Agenzie fiscali e l’ADER, sulla base della seguente normativa:

  1. il MEF e ciascuna Agenzia, sulla base del documento di indirizzo, stipulano una convenzione triennale, con adeguamento annuale per ciascun esercizio finanziario, con la quale vengono fissati soprattutto i servizi dovuti e gli obiettivi da raggiungere (art. 59, comma 2, D.Lgs. n. 300 del 30/07/1999);
  2. all’esito positivo delle verifiche effettuate dal MEF, finalizzate ad accertare il maggior gettito incassato ed i risparmi di spesa conseguiti al disconoscimento di rimborsi o di crediti d’imposta, peraltro già stanziati, sono previste integrazioni economiche alle Agenzie fiscali, con apposito provvedimento (art. 1, comma 7, D.Lgs. n. 157 del 24/09/2015);
  3. per il potenziamento dell’Amministrazione finanziaria e delle attività di contrasto dell’evasione fiscale, la misura dei compensi incentivanti è stabilita nel 2% (due per cento) e si applica  su tutte le somme riscosse in via definitiva a seguito dell’attività di accertamento tributario (art. 12, comma 1, D.L. n. 79 del 28/03/1997, convertito dalla Legge n. 140 del 28/05/1997, c.d. Premio straordinario, già previsto dall’art. 4, comma 2, D.L. n. 564/1994, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 656 del 30/11/1994);
  4. gli oneri di finanziamento del servizio nazionale della riscossione sono disciplinati e previsti dall’art. 17 D.Lgs. n. 112 del 13/04/1999, anche a seguito della soppressione di Equitalia ed istituzione dall’01 luglio 2017 dell’ADER ente pubblico economico strumentale (art. 1, commi 2 e 3, D.L. n. 193/2016, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 225 dell’01/12/2016).

Sulla base della succitata normativa, ultimamente il Governo, con gli artt. 139 e 155 D.L. n. 34/2020, ha stabilito e stanziato, a decorrere dal 2020 una integrazione economica, in deroga a quanto previsto sulle modalità di riscontro del gettito incassato, per i seguenti motivi:

– favorire il rafforzamento delle attività di promozione dell’adempimento spontaneo degli obblighi fiscali da parte dei contribuenti;

– ottimizzare i servizi di assistenza e consulenza offerti ai contribuenti, favorendone, ove possibile, la fruizione online;

– migliorare i tempi di erogazione dei rimborsi fiscali ai cittadini ed alle imprese (! ! !);

  • il premio straordinario del 2% (vedi n. 3) per l’attività di promozione dell’adempimento spontaneo degli obblighi fiscali;
  • una quota non superiore a 300 milioni di euro solo per l’anno 2020, come integrazione del contributo a favore dell’ADER (art. 155, comma 1, D.L. n. 34 cit.).

A questo punto, il comune cittadino-contribuente si pone la legittima domanda: il Governo, invece di destinare ingenti risorse finanziarie alle Agenzie fiscali, perché non provvede subito ad una seria, organica e strutturale riforma fiscale?

Non bisogna altresì dimenticare che, sino ad oggi, più della metà delle imprese che hanno inoltrato domanda di accesso ai prestiti bancari previsti dai decreti legge “Cura Italia” e “Liquidità” è ancora in attesa di finanziamento, perché i crediti garantiti dallo Stato vengono erogati col contagocce (studio della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro tra il 12 e il 17 giugno 2020), per cui le ingenti somme destinate alle Agenzie fiscali potrebbero invece risolvere molti problemi finanziari di oggi.

Infatti, la “promozione dell’adempimento spontaneo degli obblighi fiscali da parte dei contribuenti”, oggi, è difficile da realizzare quando:

– la pressione fiscale è oltre il 50% del reddito prodotto (e si arriva quasi al 70% con i vari contributi);

la normativa fiscale è oscura, complicata e contraddittoria; infatti, da una indagine condotta dalla Fondazione Nazionale dei Dottori Commercialisti, dal 2008 al 2017 le circolari dell’Agenzia sono state ben 490, le risoluzioni 1768, i provvedimenti del Direttore della stessa Agenzia delle Entrate ben 2023 (il tutto corrispondente a quasi 50.000 pagine), senza citare i numerosissimi decreti attuativi che, solo per la Legge di Bilancio, sono ogni anno circa 200 ! ! !;

– su 266 articoli del Decreto Rilancio ben 75 richiedono provvedimenti attuativi, con il rischio della decadenza; oltretutto, l’81% di tutte le norme anti COVID è fermo perché sino ad oggi mancano i provvedimenti attuativi;

– la giustizia tributaria è inadeguata perché gestita ed organizzata dal MEF, che è una delle parti in causa con giudici a tempo parziale, non professionali e pagati dal MEF zero euro per le sospensive e 15 euro nette a sentenza depositata, come più volte scritto nei miei articoli pubblicati sul mio sito (www.studiotributariovillani.it).

Invece, se si vuole realizzare seriamente e concretamente la c.d. “TAX COMPILANCE”, incrementando la fiducia dei cittadini-contribuenti verso le Istituzioni ed invogliandoli ad adempiere agli obblighi fiscali, senza eccessive complicazioni, bisogna mettere mano subito ad una seria e strutturale riforma fiscale, dopo l’ultima di cinquant’anni fa, prevedendo:

  1. una sensibile riduzione della pressione fiscale con la “FLAT TAX” o con altre modifiche legislative;
  2. la redazione di un codice tributario unico con norme semplici e ben coordinate;
  3. la riforma della giustizia tributaria, che non deve più dipendere dal MEF, ma dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, per rispettare il requisito della terzietà (art. 111, comma 2 della Costituzione), con giudici vincitori di concorso pubblico, professionali, a tempo pieno e dignitosamente retribuiti, come ho più volte sollecitato (oggi, molti disegni di legge in proposito pendono al Senato ed alla Camera, come previsto dal Piano Colao).

La grave crisi economica e sanitaria che stiamo attraversando rappresenta l’opportunità per realizzare finalmente quanto sopra esposto.

CORONAVIRUS E FORZA MAGGIORE

di Maurizio Villani e Lucia Morciano

1.Premessa – 2. La forza maggiore in ambito tributario- 3. Crisi di liquidità come causa di forza maggiore- 3.1. La definizione dei forza maggiore- 3.2. La giurisprudenza sulla crisi di liquidità e forza maggiore- 4. Osservazioni conclusive

1.Premessa

A seguito della dichiarazione di emergenza internazionale di salute pubblica   legata al Covid-19, dichiarata dall’Organizzazione Mondiale della sanità  il 30 gennaio 2020, il Governo italiano con delibera del Consiglio dei Ministri dello scorso 31 gennaio ha dichiarato lo stato di emergenza per un periodo di sei mesi. A  causa di tale situazione epidemiologica, il Governo nel D.L. n. 6/2020, rubricato  “Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19”( convertito in legge, con modifiche, dalla L. 05.03.2020, n. 13, con decorrenza dal 10.03.2020 e successivamente  abrogato dall’art. 5, D.L. 25.03.2020, n. 19 con decorrenza dal 26.03.2020, ad eccezione degli articoli 3, comma 6-bis, e 4),all’art. 3, comma 6-bis ha così statuito:” Il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 del codice civile, della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”. 

Più nel dettaglio, il comma 6-bis del D.L.n.6/2020 è stato inserito dall’art. 91, D.L. n.18 del 17.03.2020, così come modificato dall’allegato alla legge di conversione, L.n.27 del 24.04.2020, con decorrenza dal 30.04.2020.La norma impone al giudice che sia chiamato a decidere su un inadempimento di  poter escludere la responsabilità del debitore nel caso in cui l’inadempimento sia stato provocato dal rispetto delle misure di contenimento per causa COVID-19.

Tanto chiarito, occorre rilevare che, in riferimento alle entrate tributarie e non tributarie, il Governo ha previsto all’art. 68, comma 1 del D.L. n.18/2020, c.d. “Decreto Cura Italia”(convertito in legge, con modifiche, dalla L. 24.04.2020, n. 27, con decorrenza dal 30.04.2020), che:

“… sono sospesi i termini dei versamenti, scadenti nel periodo dall’8 marzo al 31 maggio 2020, derivanti da cartelle di pagamento emesse dagli agenti della riscossione, nonché dagli avvisi previsti dagli articoli 29 e 30 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122. I versamenti oggetto di sospensione devono essere effettuati in unica soluzione entro il mese successivo al termine del periodo di sospensione. Non si procede al rimborso di quanto già versato. Si applicano le disposizioni di cui all’articolo 12 del decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 159

 Inoltre, il comma 2 del citato art.68 dispone:

“Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano anche agli atti di cui all’articolo 9, commi da 3-bis a 3- sexies, del decreto-legge 2 marzo 2012, n. 16, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 aprile 2012, n. 44, e alle ingiunzioni di cui al regio decreto 14 aprile 1910, n. 639, emesse dagli enti territoriali, nonché agli atti di cui all’articolo 1, comma 792, della legge 27 dicembre 2019, n. 160”.

Esemplificando, il Legislatore ha disposto la sospensione dei termini di versamento di tutte le entrate tributarie e non tributarie derivanti da cartelle di pagamento, da avvisi di accertamento e di addebito Inps, nonché dagli atti di accertamento esecutivo emessi dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli e dagli accertamenti esecutivi degli enti locali, in scadenza nel periodo compreso tra l’8 marzo e il 31 maggio 2020.

Dopo aver delineato i confini e i contorni di questa particolare circostanza che involge concetti di spessore tecnico giuridico quali l’imputabilità dell’inadempimento, la forza maggiore e l’impossibilità sopravvenuta totale o parziale della prestazione, è bene effettuare alcune puntualizzazioni.

 Ciò posto, occorre rilevare che l’art.3, comma 6-bis del D.L. n.6/2020, che prevede l’esclusione di responsabilità del debitore in caso di inadempimento per causa a lui non imputabile, non trova applicazione nel rapporto obbligatorio tra contribuente e Fisco.

Difatti, i contribuenti italiani che non hanno adempiuto ai versamenti dovuti subito dopo il periodo di sospensione previsto dal Legislatore, rischiano di ricevere delle richieste di pagamento dei tributi, aggravate dalle sanzioni previste dall’ordinamento nel caso di omesso versamento.

Per di più vi è un grosso numero di contribuenti che ad oggi non ha avuto alcuna proroga di versamenti ( trattasi delle imprese che hanno avuto al 31.12.2019 ricavi superiori a due milioni di euro).

In questa situazione emergenziale, il pericolo primario che si sta paventando è quello della crisi di liquidità dei contribuenti che in questo periodo non riescono a incassare quello che dovrebbero e, di conseguenza, ciò potrebbe comportare, in alcuni casi, l’oggettiva difficoltà da parte dei contribuenti, di effettuare il regolare versamento delle imposte.

A parere di chi scrive, per le ipotesi di mancato versamento delle imposte dovuto alla crisi di liquidità derivante dall’attuale emergenza epidemiologica si configura la causa di forza maggiore, che consente di essere esonerato dal pagamento delle sanzioni.

Sul punto, l’ordinamento tributario prevede due disposizioni  normative in tema di forza maggiore:

  • l’art. 9 comma 2 L. n.212/2000(Statuto del contribuente)  secondo cui: “Con proprio decreto il Ministro delle finanze, sentito il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, può sospendere o differire il termine per l’adempimento degli obblighi tributari a favore dei contribuenti interessati da eventi eccezionali ed imprevedibili”;
  • l’art. 6, comma 5, del d.lgs. n. 472/1997 secondo cui: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per forza maggiore”.

In riferimento all’art. 6 comma 5 appena citato, è stata emanata la circolare n. 180/E del 10 luglio 1998, Dip. acc. e progr., recante chiarimenti in tema di “Sanzioni – Disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie – D. Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 e successive modificazioni, che chiarisce cosa debba intendersi per forza maggiore.

 In particolare, secondo la citata circolare: Per forza maggiore si deve intendere ogni forza del mondo esterno che determina in modo necessario e inevitabile il comportamento del soggetto. Si può ipotizzare un’interruzione delle comunicazioni, in conseguenza di eventi naturali, tale da impedire di raggiungere il luogo ove il pagamento può essere eseguito anche se, in casi del genere, come nel caso di sciopero che impedisca l’esecuzione dell’adempimento dovuto, la causa di forza maggiore viene di solito accertata con apposito decreto”.

Peraltro, si evidenzia che in seguito all’odierna situazione di emergenza , si porrà il problema di cosa accadrà con gli adempimenti tributari(una volta cessata la sospensione disciplinata dalla legislazione d’emergenza), atteso che la crisi economica contingente  non cesserà con il venir meno dell’emergenza sanitaria e delle misure di contenimento.

Più nel dettaglio, è opportuno domandarsi cosa accadrà per i contribuenti che, fino ad oggi in regola  con gli adempimenti fiscali, abbiano cercato di affrontare l’emergenza economica, nell’alternativa secca tra  adempimento delle obbligazioni tributarie  e continuità aziendale, in quest’ultimo caso con l’intento di tutelare i ruoli occupazionali e le correlate esigenze retributive dei lavoratori.

A tal proposito, prima di affrontare la questione attuale di emergenza e i risvolti che la crisi di liquidità  determinerà sui contribuenti, appare opportuno dare definizione alla nozione di forza maggiore in ambito tributario e fiscale.

2. La forza maggiore in ambito tributario

La nozione di forza maggiore in materia tributaria è mutuata dal diritto penale, nella quale assumono una preminente rilevanza gli aspetti naturalistici, che pongono l’attenzione sulle caratteristiche principali dell’evento, ossia l’esogenità, l’imprevedibilità e l’irresistibilità, nonché sul nesso di causalità tra l’accadimento imprevisto e la condotta scaturita, verosimilmente difforme da quella voluta dall’agente in situazioni di assoluta normalità.  

Più nel dettaglio, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (sentenza del 17 ottobre 2002, C-208/01, Parras Medina) ha  chiarito che la nozione di forza maggiore non  si limita all’impossibilità assoluta ad adempiere all’obbligazione prevista dalla legge, ma deve essere intesa nel senso che si applica anche a circostanze, anormali ed imprevedibili, le cui conseguenze non  sarebbero potuto essere evitate malgrado la dovuta cura del contribuente.

La Corte di Cassazione si è espressa più volte sul perimetro applicativo dell’art. 6, comma 5 D.lgs n.472/1997, definendo con una prima pronuncia, la n. 22153/2017, la portata applicativa della forza maggiore, quale causa di non punibilità che esclude l’assoggettabilità del contribuente moroso alle sanzioni amministrative in materia tributaria.

I giudici di legittimità nel determinare i presupposti applicativi della forza maggiore,si  sono basati su quanto affermato dalla Corte di Giustizia CE C/314/06 che, al punto 24, ha specificato che “[…]la nozione di forza maggiore, in materia tributaria e fiscale, comporta la sussistenza di un elemento oggettivo, relativo alle circostanze anormali ed estranee all’operatore, e di un elemento soggettivo, costituito dall’obbligo dell’interessato di premunirsi contro le conseguenze dell’evento anormale, adottando misure appropriate senza incorrere in sacrifici eccessivi (cfr. anche Ord. 18.1.2005 Causa C-325/03 P, Zuazaga Meabe/UAMI punto 25); che è stato, altresì, evidenziato che la nozione di forza maggiore non si limita all’impossibilità assoluta, ma deve essere intesa nel senso di circostanze anormali e imprevedibili, le cui conseguenze non avrebbero potuto essere evitate malgrado l’adozione di tutte le precauzioni del caso (CGCE sent. 15.12.1994 causa C-195/91 P, Bayer/Commissione, punto 31, nonche’ sent. 17.10.2002 causa C-208/01, Parras Medina punto 19);che, pertanto, sotto il profilo naturalistico, la forza maggiore si atteggia come una causa esterna che obbliga la persona a comportarsi in modo difforme da quanto voluto, di talchè essa va configurata, relativamente alla sua natura giuridica, come una esimente poichè il soggetto passivo è costretto a commettere la violazione a causa di un evento imprevisto, imprevedibile ed irresistibile, non imputabile ad esso contribuente, nonostante tutte le cautele adottate…”[1].

E ancora, con sentenza della Suprema Corte di Cassazione n.3049/2018, è stato evidenziato, in primo luogo,  che non si deve valutare ex ante l’onere di prevenzione generico, poiché non fornisce al contribuente alcun elemento nella prassi per definire propriamente le misure più idonee ed eque volte a sventare il realizzarsi dell’evento anormale, o comunque, se del caso, escludere la rimproverabilità della successiva condotta antigiuridica; difatti, la valutazione del giudice nazionale dovrebbe avvenire sulla base di un giudizio controfattuale che ponga il confronto tra il caso di specie e la condotta  che avrebbe tenuto il “buon contribuente”, inteso come soggetto accorto e diligente che ha  adottato tutti quegli atti idonei a premunirsi da accadimenti anormali e straordinari.

In secondo luogo, sulla base del principio di proporzionalità, se da una parte le misure di precauzione adottate da un contribuente avveduto devono contemperarsi ai sacrifici economici che esse comportano, dall’altra parte tali misure dovranno ragionevolmente calibrarsi alla maggiore o minore prevedibilità del fatto storico che costringe alla condotta inadempiente del contribuente.

In sintesi, l’onere del contribuente di predisporre la dovuta cura e le cautele necessarie per garantire la corresponsione dei tributi, così come statuito dalla Corte di Giustizia e dalla Corte di Cassazione nelle citate sentenze, si traduce in una sorta di “giudizio sulla ragionevole lungimiranza” del contribuente, non privo di sensibilità al margine di prevedibilità dei fatti storici[2].

Inoltre, nell’art. 6, comma 5 D.lgs n. 472/1997 che prevede l’esimente della sanzione amministrativa tributaria, il costringimento coartato dell’evento anomalo e irresistibile, a differenza  che nel diritto penale, è più oggettivo che psicologico,  atteso che l’arco temporale per l’assolvimento tempestivo e sine poena del tributo, di regola, garantisce una maggiore riflessione delle azioni del contribuente, ben superiore a quella che può  avere chi è obbligato a  nell’immediatezza per  ovviare un male notevole[3].

Per quanto riguarda un altro aspetto della forza maggiore,sempre la Corte di Giustizia ha sottolineato che, in mancanza di armonizzazione della normativa sulle sanzioni per l’inosservanza delle norme impositive, gli Stati membri restano competenti a scegliere le sanzioni che sembrano loro appropriate, tuttavia, esercitando tale competenza nel rispetto del diritto dell’Unione e dei suoi principi generali e, di conseguenza, nel rispetto del principio di proporzionalità[4].

Difatti, sulla base di tale assunto, la causa di non punibilità prevista dall’art. 6, co. 5, del D.lgs. n. 472/1997, benché riferita alle imposte sui redditi e l’IVA, si estende a tutti i tributi armonizzati, come nel caso dell’ordinanza della Suprema Corte, la n. 3049/2018, in virtù del fatto che tale estensione  trova fondamento sovranazionale proprio nell’esercizio  di predetta competenza volta a garantire che la punizione non vada oltre quanto necessario per il raggiungimento degli interessi pubblici sottesi alla norma impositiva tributaria.

Inizialmente la giurisprudenza di legittimità più risalente, ha riconosciuto una forma di tutela al contribuente che versa in situazioni di disagio per aver subito una diminuzione patrimoniale ingiusta.

In via esemplificativa , la  Suprema Corte (Cass.Sez. V, ord., 15/01/2009, n. 884) ha ricondotto all’alveo dell’art. 6, comma 5, del D.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, il caso del contribuente che, per tempo, avesse informato l’autorità giudiziaria del fatto che in buona fede ha affidato il denaro necessario ad assolvere al suo debito tributario ad un consulente il quale,  violando i doveri del proprio incarico, abbia poi omesso di effettuare il versamento.

In tale ipotesi, seppur la condotta inadempiente è dipesa dal fatto del terzo (inadempimento dei doveri da parte del  consulente),  il contribuente non si trovava nell’ipotesi dell’irresistibilità della forza maggiore, atteso che egli non ha sofferto un impedimento oggettivo- quale una mancanza di liquidità per assolvere all’obbligazione tributaria-  poiché l’imprenditore, anche a seguito della truffa subita, avrebbe ben potuto assolvere al debito fiscale, senza incorrere nella sanzione.

Invece, la giurisprudenza di legittimità recente ha dato un’interpretazione più stringente dei casi in cui si configura l’esimente della forza maggiore, ritenendo che   non sia  sufficiente fare riferimento a una generica “crisi aziendale”, con conseguente scarsa liquidità; difatti, oltre a tale condizione, devono essere“ […] espressamente considerate le condizioni di imprevedibilità ed inevitabilità, non fronteggiabili con le normali misure quali accantonamenti etc. per fare fronte ad eventuali inadempimenti”[5].

In senso conforme, altresì, si è orientata la giurisprudenza penale di legittimità recente che ha assunto una posizione rigida in merito al riconoscimento della crisi di liquidità come forza maggiore, esimente della responsabilità penale, in caso di omessi versamenti IVA e ritenute oltre soglia.

Tanto chiarito, si auspica un intervento ermeneutico da parte della Suprema Corte, anche alla luce della contingente crisi di liquidità che dovranno affrontare le imprese, volto ad allargare le maglie dei casi di tale crisi, così da ampliare il concetto di forza maggiore e giustificare eventuali omissioni di versamenti tributari dovuti all’emergenza covid-19.  

Ciò posto, di seguito si esamineranno i recenti arresti della giurisprudenza di legittimità e di merito in riferimento alla crisi di  liquidità come causa di forza maggiore e si confronteranno tali assunti con l’attuale emergenza economica  conseguente a quella epidemiologica.

 3.Crisi di liquidità come causa di forza maggiore

Lo scenario palese che si prospetta dopo il periodo forzato di lockdown è che la sospensione prolungata di numerose attività produttive cagionerà un’importante crisi di liquidità per le imprese,  tanto da non riuscire a far fronte alle proprie obbligazioni tributarie, oltre che a quelle nei confronti di dipendenti e fornitori.

Difatti, i riflessi economici destabilizzanti sull’economia, a seguito della crisi epidemiologica in atto, si verificheranno nonostante misure adottate dal Governo per prorogare le scadenze dei versamenti e agevolare prestiti e finanziamenti alle imprese; tali  misure  sono state disposte dai D.L.n.18/2020(Decreto Cura Italia)e D.L.n. 23/2020 (Decreto Liquidità) e dai successivi provvedimenti[6].

In tema di crisi di liquidità si è espressa principalmente la giurisprudenza di legittimità penale; pertanto al fine di comprendere appieno i principi espressi dalla suddetta giurisprudenza, si procederà ad un breve inquadramento normativo dei reati oggetto di esame delle sentenze.

Com’è noto, le fattispecie incriminatrici di “Omesso versamento di ritenute”(art. 10-bis D.lgs n. 74/2000)e di “Omesso versamento di IVA”(art.10-ter D.lgs n.74/2000) puniscono rispettivamente chi omette di versare rispettivamente : 1)le ritenute dovute per un ammontare superiore a 150.000 euro per periodo d’imposta; 2) l’Iva dovuta in base alla dichiarazione annuale per un ammontare superiore a 250.00 euro.

L’omissione diventa penalmente rilevante al verificarsi della scadenza di un determinato termine; per le ritenute tale termine  coincide con quello di presentazione del modello 770 e, invece,   per l’IVA con quello per il versamento dell’acconto per il periodo d’imposta successivo (27 dicembre).

Le fattispecie incriminatrici in questione sono reati propri (difatti l’agente può essere solo il soggetto obbligato) di natura omissiva, istantanei e puniti a titolo di dolo generico, non essendo rilevante il fine perseguito dall’agente nel porre in essere il comportamento illecito.

Precisamente, ne discende che, per la consumazione del reato, è sufficiente che il soggetto obbligato ometta volontariamente il versamento dell’imposta dovuta nella consapevolezza della sussistenza dell’obbligo e della inutile scadenza del termine previsto per il pagamento.

Per quanto attiene all’elemento psicologico, la giurisprudenza di legittimità appare uniforme nel ritenere sufficiente il dolo  generico, inteso come mera consapevolezza di omettere il versamento di quanto ricevuto dal sostituito o dal cliente, superando anche la soglia di punibilità. L’onere probatorio del dolo secondo il Supremo Consesso è in re ipsa nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto dovuto a titolo d’imposta(Cass. sez. un., 12 settembre 2013, n. 37424) o si evince dal rilascio della certificazione e dalla presentazione della dichiarazione annuale del sostituto (Cass.Sez. III, sent. 15 maggio 2014, n. 20266)[7].

In riferimento al bene giuridico da tutelare, la Suprema Corte, a Sezioni Unite, con la sentenza n. 37424/2013[8] ha rilevato che l’obbligo di versare le ritenute e l’IVA è collegato sia ad attività svolte dal contribuente nel corso dell’anno, che all’erogazione degli emolumenti ai collaboratori; mentre l’obbligo di versare l’IVA è collegato al compimento delle operazioni imponibili[9].

Precisamente, i giudici di legittimità,  in riferimento all’illecito penale di cui all’art. 10- ter D.lgs n.74/2000, hanno sottolineato che “[…]il presupposto è costituito sia dal compimento di operazioni imponibili comportanti l’obbligo di effettuare il versamento periodico dell’I.v.a., sia dalla presentazione della dichiarazione annuale I.v.a. relativa all’anno precedente: che tale presentazione sia un necessario presupposto del reato è stato puntualizzato, sulla base dell’inequivoco tenore testuale delle norma incriminatrice, dalla giurisprudenza (Sez. 3, n. 6293 del 14/10/2010, Ioele); la condotta omissiva si concretizza nel mancato versamento, per un ammontare superiore a cinquantamila euro [ora, € 250.000], dell’I.v.a. dovuta in base alla dichiarazione annuale; il termine per l’adempimento è individuato in quello previsto per il versamento dell’acconto I.v.a. relativo al periodo d’imposta successivo”.

3.1. La definizione di forza maggiore in ambito penale

L’art. 45 c.p. così definisce l’istituto della  forza maggiore: “Non è punibile chi ha commesso il caso fortuito o per forza maggiore”.

La forza maggiore(allo stesso modo del caso fortuito) è considerata un istituto “senza patria”per la sua controversa collocazione sistematica. Secondo la dottrina e la giurisprudenza tradizionale, la forza maggiore presuppone il nesso causale  tra la condotta e l’evento  e viene, pertanto, studiata nell’ambito della colpevolezza o, anche della stesa condotta, quali cause di esclusione della colpevolezza o della suitas[10].

Nello specifico, la forza maggiore si  realizza in un evento derivante dalla natura o dal fatto dell’uomo che, pur se preveduto, non può essere impedito, sottraendo all’agente la coscienza e la volontarietà della condotta (vis maior cui resisti non potest a causa della quale l’uomo non agit sed agitur).

3.2. La giurisprudenza sulla crisi di liquidità e forza maggiore in ambito penale

Ad oggi la giurisprudenza di legittimità ha avuto un’interpretazione rigorosa, oramai pacifica, nel valutare le esimenti e, più in generale, nell’escludere la colpevolezza nelle ipotesi di omesso versamento IVA e ritenute, partendo dall’assunto che tali condotte omissive sono punite a titolo di dolo generico.

In linea di principio, nella prevalenza dei casi esaminati dalla giurisprudenza di legittimità, la crisi di liquidità , non è considerata una circostanza atta a escludere il reato o la punibilità del soggetto che ha posto in essere la condotta.

E invero, affinchè si consumi l’illecito, è sufficiente la mera coscienza e volontà da parte del soggetto obbligato di omettere il versamento entro il termine previsto, superando la soglia di punibilità prevista dal legislatore.

La Corte di Cassazione, nel reato di omesso versamento di ritenute certificate (art. 10-bis D.Lgs. n. 74/ 2000), ha affermato che l’imputato può invocare l’assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta- quale causa di esclusione della responsabilità penale- qualora assolva all’onere probatorio di allegazione, concernente sia il profilo della non imputabilità a lui medesimo della crisi economica che ha investito l’azienda, sia l’aspetto della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità tramite il ricorso a misure idonee da valutarsi in concreto.

Pertanto, a parere del Supremo Consesso, è irrilevante addurre come causa di forza maggiore la mancata riscossione dei crediti osservando che l’inadempimento dei clienti rientra nel normale rischio di impresa[11].

Inoltre, la Suprema Corte, in una recente pronuncia[12], in tema di omesso versamento IVA, ha ribadito che la crisi di liquidità nella quale versava l’impresa inadempiente- che vantava crediti non riscossi per importi di gran lunga superiori al debito fiscale- non vale come scriminante ove manchi la prova che non sia stato altrimenti possibile per lo stesso contribuente reperire le risorse economiche e finanziarie necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza appunto di un’improvvisa crisi di liquidita’, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili.

Ciò posto, ne discende che è irrilevante la cosiddetta “crisi di liquidità” del debitore alla scadenza del termine per operare il versamento dell’Iva, poiché il debitore ha l’obbligo non solo di accantonare le risorse necessarie per l’adempimento dell’obbligazione tributaria, ma anche di adottare tutte le iniziative per provvedere alla corresponsione del tributo.

Tanto rilevato, si osserva, tuttavia, che la giurisprudenza di merito ha puntualmente disatteso  l’obiter dictum  della Suprema Corte, ma  al contempo il Supremo Consesso ha disatteso il più delle volte quanto statuito dai giudici di merito. In particolare, nelle decisioni dei giudici di merito era consolidato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui per configurare il reato tributario deve sussistere  non solo l’elemento oggettivo del ritardato o omesso versamento dei tributi e delle imposte, ma  anche l’elemento psicologico della volontà di evadere.

A riguardo, si rammenta una sentenza del Tribunale penale di Brindisi del  12 gennaio 2017, nella quale è stato sancito  che in caso di omesso pagamento di IVA  sopra le soglie di punibilità previste, deve sussistere non solo l’omesso o il ritardato versamento ma anche l’elemento soggettivo del reato ( c.d. dolo di evasione) che non può considerarsi sussistente quando il contribuente si trovi nell’impossibilità oggettiva di adempire il proprio debito tributario.

Più nel dettaglio, nel caso esaminato, le condizioni economico- finanziarie in cui  versava la società nonché i concreti tentativi dell’amministratore tesi a proseguire l’attività sociale, al concreto fine di procedere al pagamento dei debiti maturati, hanno fatto ritenere insussistente il necessario dolo di evasione richiesto per procedere alla condanna prevista per il reato tributario[13].

Ad ogni modo, in linea con la giurisprudenza di merito, la Suprema Corte ha previsto alcune ipotesi in cui si applica il principio di “forza maggiore”  disciplinato dall’art. 45 c.p.; tra queste rileva la crisi economica  quale scriminante  quando sia cagionata in via esclusiva da circostanze contingenti, imprevedibili e non imputabili all’imprenditore,  che si sia trovato nell’impossibilità di porre tempestivamente rimedio alla situazione per cause indipendenti dalla propria volontà.

In una recente decisione, la Corte di Cassazione, Sez. Pen, con sentenza n. 9960 del 13 marzo 2020  ha evidenziato che “la “forza maggiore” si configura come un evento, naturalistico o umano, che fuoriesca dalla sfera di dominio dell’agente e che sia tale da determinarlo incoercibilmente (vis maior cui resisti non potest) verso la realizzazione di una determinata condotta, attiva od omissiva, la quale, conseguentemente, non puo’ essergli giuridicamente attribuita (in questa direzione Sez. 5, n. 23026 del 3/04/2017, Mastrolia, Rv. 270145). Secondo questa ricostruzione, dunque, la forza maggiore si colloca su un piano distinto e logicamente antecedente rispetto alla configurabilita’ dell’elemento soggettivo, ovvero nell’ambito delle situazioni in grado di escludere finanche la cd. suitas della condotta”.

Infatti, secondo l’orientamento pacifico della giurisprudenza di legittimità, la forza maggiore rileva come causa esclusiva dell’evento, mai quale causa concorrente di esso[14]; pertanto, la forza maggiore sussiste solo e in tutti quei casi in cui la realizzazione dell’evento stesso o la consumazione della condotta antigiuridica è dovuta all’assoluta e incolpevole impossibilità  dell’agente di uniformarsi al comando, e non può quindi ricollegarsi in alcun modo ad un’azione od omissione cosciente e volontaria dell’agente.

In sostanza, ai fini della configurazione della causa di forza maggiore, ciò che rileva nei reati omissivi è l’assoluta impossibilità e non la semplice difficoltà di porre in essere il comportamento omesso.

Per completezza si segnala che già nel 2014 tale assunto era stato rilevato dalla Corte di Cassazione[15] che ha riconosciuto la sussistenza dei presupposti dell’esimente avendo il soggetto agente posto in essere tutte le possibili azioni dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di una improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà.

Precisamente, nel caso esaminato dal Supremo Consesso, vi era una circostanza che lo aveva portato ad escludere la responsabilità penale del soggetto agente, ossia il fatto che quest’ultimo  non aveva ricevuto dal cliente i corrispettivi e l’IVA da accantonare e versare e non aveva, dunque, posto in essere alcuna condotta “distrattiva”.

Alla luce della  consolidata giurisprudenza di legittimità, si può invocare l’esimente in questione solo laddove derivi da fatti contingenti e imprevedibili non imputabili all’imprenditore che non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico[16].

Ebbene, alla luce del quadro giurisprudenziale sopra delineato, è di tutta evidenza che la crisi economica derivante da “emergenza sanitaria conseguente a coronavirus” possa rientrare nel novero dei casi di “forza maggiore”, trattandosi di un evento straordinario che determina la non punibilità dell’agente.

4.Osservazioni conclusive

 Dall’esame della giurisprudenza di legittimità sulla nozione di forza maggiore e sulle perplessità connesse alla possibilità di ritenere la crisi di liquidità un’esimente configurabile nei casi in esame,

 è auspicabile che la Corte di Cassazione riveda la sua interpretazione rigoristica,  non lasciandola avulsa dal particolare momento storico  causato della pandemia in atto e adattando il suo orientamento a quanto già affermato da buona parte della giurisprudenza di merito.

Certamente, l’applicazione della scriminante della forza maggiore non potrà essere applicata in maniera indiscriminata, ma dovrà essere valutata in relazione alle fattispecie concrete, dopo aver verificato l’effettivo impatto della epidemia sulla possibilità di assolvere al versamento di imposta.

A causa dell’emergenza  epidemiologica potrebbero configurarsi due situazioni:

 la prima, attiene ai contribuenti non in regola con i versamenti dovuti prima della pandemia ma che avevano predisposto le risorse per adempiere ai propri debiti entro i termini previsti dal legislatore penal-tributario. (In tale ipotesi l’imprenditore, per poter invocare la scriminante della forza maggiore, dovrà provare, da una parte, che al momento dell’emergenza sanitaria, aveva tutte le risorse per pagare l’ IVA e le  ritenute entro la scadenza penale; dall’altra, di aver messo in atto tutte le misure disponibili per reperire la liquidità necessaria per il pagamento delle imposte, tra le quali anche quelle specificamente approntate dal Governo  con la legislazione emergenziale(finanziamenti garantiti, cassa integrazione ecc.);

  • la seconda, riguarda i contribuenti in regola con i versamenti fino all’arrivo della pandemia da COVID-19, che a causa di quest’ultima non riusciranno più ad accantonare le risorse per  poter effettuare i versamenti  IVA  e le ritenute entro le scadenze penalmente rilevanti. (Ebbene, anche in questo caso, per poter invocare l’esimente nel momento (successivo) in cui l’omesso versamento di IVA o ritenute dovesse divenire penalmente rilevante, si dovrà provare di essersi avvalsi di tutte le misure di sostegno per rinvenire la liquidità necessaria per adempiere al pagamento delle imposte)[17].

Alla luce di tanto, potrà in definitiva ritenersi che, nelle predette ipotesi potrà operare l’esimente della forza maggiore, atteso che l’impossibilità  di adempiere  ai versamenti delle imposte deriva dal fatto di non poter affrontare in un modo diverso le conseguenze dell’imprevedibile pandemia; difatti, in questi casi, l’emergenza sanitaria rileva quale causa esclusiva del mancato versamento, non essendovi cause concorrenti o preesistenti  che abbiano portato il soggetto obbligato all’inadempimento tributario.

A tale novero di ipotesi, potrebbe aggiungersi  quella in cui l’impresa abbia adottato iniziative idonee a tentare di fronteggiare la crisi finanziaria( facendo ricorso, qualora possibile, anche al patrimonio personale), dando rilievo alla crisi di liquidità come causa di esclusione del dolo, con il conseguente esonero della responsabilità penale.

In conclusione, a parere degli scriventi, stante la gravità del momento storico e degli effetti  che potrebbero protrarsi nel breve e lungo periodo, si ritiene che i contribuenti, laddove risulti del tutto necessario, potranno posticipare il versamento di eventuali imposte, rispetto all’adempimento di esigenze più urgenti per la ripresa aziendale(pagamenti di dipendenti, fornitori, banche), provando – poiché lo stesso Governo ha sospeso alcuni versamenti tributari in ragione  dell’emergenza epidemiologica- di aver messo in campo tutti i mezzi a disposizione per arginare la crisi di liquidità, utilizzando anche tutte le misure di sostegno  messe a disposizione dal Governo.


[1] Vedi in tal senso anche Cassazione, Sez.Trib., ordinanza n. 1972 del 24 gennaio 2019;  Cass.Sez.Trib., n. 3049 dell’8 febbraio 2018.

[2] STRAZZERI M. “L’esimente della forza maggiore in materia tributaria: commento a Cass. n. 3049/2018”, in http://www.europeanrights.eu/index.php?funzione=S&op=5&id=1469.

[3] ibidem

[4] ex multis: sentenze CGUE 16 dicembre 1992, Commissione/Grecia, C-210/91e 7 dicembre 2000, de Andrade, C-213/99.

[5] Cass.Sez.Trib. Ordinanza 24 gennaio 2019, n. 1972

[6] COLAIANNI F. “Crisi di liquidità, quando la forza maggiore «giustifica» l’omesso versamento”in Norme&Tributi Plus Fisco del 6 maggio 2020.

[7] CANNIZZARO S., “Omitted tax payment and liquidity crisis: recent trends of the case law”, in Rivista Trimestrale di Dirtto Tributario, Giappichelli, 14/05/2020, p.2.

[8] Vedi in tal senso anche  Cass.Pen.S.U.12 settembre 2013, n. 37425

[9]CANNIZZARO S., “Omitted tax payment and liquidity crisis: recent trends of the case law”, in Rivista Trimestrale di Dirtto Tributario, Giappichelli, 14/05/2020, p.1.

[10] MANTOVANI F., “Diritto penale- Parte generale”,CEDAM WOLTERS KLUWER,ed.2017, pagg.150-151.

[11]  Cass. Pen.Sez.III, del 15 maggio 2014, n. 20266.

[12]  Cass.Pen.Sez.III, del  13 marzo 2018,  n. 11035

[13] VALLEFUOCO V.,  Norme&Tributi Plus Fisco, 15 febbraio 2017.

[14] Cass.Pen.Sez.IV n. 1492 del 23 novembre 1982; Cass.Pen.Sez. IV,  n. 1966 del 06 dicembre 1966.

[15] Cass., Pen., del 3 aprile 2014, n. 15176. In tal senso si è espresso anche il Tribunale di Firenze con la sentenza n.4/2018,  affermando che, in caso di omesso versamento Iva, non è punibile l’imprenditore che dimostra di aver fronteggiato la crisi economica che ha investito la sua azienda, a lui non imputabile, ponendo in essere tutte le azioni possibili, anche sfavorevoli per il suo patrimonio

[16] LAURENZI C. Omesso versamento iva: l’esimente della causa di forza maggiore da covid – 19, in Diritto.it.

[17] MAGRONE N., “La crisi di liquidità da COVID-19 può essere causa di “forza maggiore” esimente della responsabilità penale in caso di omesso versamento di IVA e ritenute?”, in  Tax Review.

IDEA PER UN SOSTEGNO AL SISTEMA ECONOMICO DEI PAESI EUROPEI PRIMA CHE SFOCINO IN UNA PROBABILE DEPRESSIONE ECONOMICA

Francesco Olivieri

L’idea è quella di garantire il mercato dei capitali, beni e servizi e, dunque, il posto di lavoro ai tanti lavoratori che corrono il rischio di perderlo, per effetto del coronavirus.

Obiettivo: limitare il peso dell’economia finanziaria e speculativa a vantaggio dell’economia reale in un mercato caratterizzato dalla domanda e dalla offerta di capitali, di beni e servizi.

L’ obiettivo potrebbe essere raggiunto se ogni paese fosse in grado di fare un confronto tra il rischio di una forte depressione del proprio sistema economico e la possibilità di mantenerlo in vita, adeguandolo alle nuove prospettive di sviluppo che potrebbero essere generate dalla tempesta del covid 19.

Si tratta di cedere qualcosa di certo, ma di piccole dimensioni, per ottenere qualcosa di probabile, ma prezioso, che potrebbe essere messo a rischio dal coronavirus: la stabilità del sistema economico dei paesi interessati, in un quadro prospettico di cambiamento universale, e la possibilità di ridurre la distanza che esiste tra i pochi che detengono la maggior parte della ricchezza del mondo e il resto dell’umanità.

L’idea poggia sulla possibilità di un accordo sul debito pubblico dei singoli paesi europei nei confronti del resto dell’Europa (estensibile al resto del mondo se dovesse ritenersi interessato).

Il debito pubblico, molto elevato per alcuni paesi, come l’Italia, rappresenta un peso insopportabile per una ripresa economica certa e veloce, adeguata alle aspettative dei singoli cittadini. Sul debito pubblico dei paesi si aggira, poi, il fantasma della speculazione finanziaria che, approfittando dei momenti di debolezza che un paese potrebbe attraversare, sia di natura politica che di natura economica, impedisce al sistema economico del paese in oggetto di crescere e svilupparsi generando nuova occupazione.

Si pensi ai sacrifici imposti nel recente passato al popolo greco dalla famosa TROIKA (Commissione europea, Banca Centrale europea e Fondo monetario Internazionale, tutti rappresentanti il gruppo dei creditori nei confronti dei paesi indebitati) i cui segni sono ancora evidenti nella vita dei singoli cittadini greci.  

In sostanza, bisognerebbe che i paesi interessati firmassero un accordo in cui, senza condizioni, dichiarassero di rinunciare per il futuro agli interessi sul debito pubblico di ciascun paese, ritenendosi creditori soltanto in linea capitali.

Gli effetti sarebbero quelli di alleggerire i singoli paesi dal peso degli interessi passivi sul debito pubblico (in questo periodo, e ancora per molto tempo, i tassi di interesse sono molto bassi, vicino allo zero) ma, soprattutto, i paesi indebitati uscirebbero dalla sfera di influenza degli speculatori finanziari che tanta importanza hanno sull’andamento del famigerato SPREAD.

Sarebbero più avvantaggiati i paesi con un elevato debito pubblico rispetto ai paesi più ricchi. Per chi non è d’accordo il sottoscritto invita a riflettere sullo spirito del piano Marshall che, nato come piano di aiuti ai paesi usciti devastati dalla guerra, aveva nel proprio animus l’obiettivo non dichiarato di salvaguardare un mercato europeo per la esportazione di prodotti in surplus del sistema economico americano.

Per esempio, per quanto riguarda la fetta di debito pubblico italiano detenuto dalla Germania, si tratterebbe di rinunciare agli interessi attivi per la Germania ma passivi per l’Italia allo scopo di mantenere attiva quella fetta del mercato italiano che importa automobili tedeschi e prodotti ad alta tecnologia, dato che la Germania è il primo paese manifatturiero europeo. In pratica, si tratterebbe di uscire dalla sfera egoistica che impedisce alla Germania di vedere il ritorno economico in termini di esportazione di beni e servizi verso l’Italia rispetto alla rinuncia di oggi in termini di interessi attivi sul debito pubblico italiano. A tale proposito valga la idea del Premier svedese Olof Joachim Palme (ucciso la sera del 28 febbraio 1986) secondo cui l’agnello non deve essere ucciso ma tosato per potersi coprire ogni anno.

Francesco Olivieri CELL. 338.8706997 E-MAIL: olivierifrancesco@alice.it

Roma 31 marzo 2020                                                                             

SEGNALAZIONE ALLA CENTRALE RISCHI E RISARCIMENTO DEL DANNO(Tribunale di Crotone 4 marzo 2020)

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO di CROTONE

PRIMA CIVILE

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Antonio Albenzio, all’esito della camera di consiglio, ha pronunciato ex art. 281 sexies c.p.c. la seguente

SENTENZA

nella causa civile iscritta al n. r.g. 636/2016 promossa da:

IL. (C.F. (oscurato)) rappresentato e difeso dall’avv. L. M. A. elettivamente domiciliato in (oscurato) presso lo studio dell’avv. L. M. A.

ATTORE/I

contro

EU. FA. (C.F. (oscurato)) quale mandataria con rappresentanza di BA. DI NA. (C.F. ) rappresentato e difeso dall’avv. C. G. elettivamente domiciliato in (oscurato) presso lo studio dell’avv. C. G.

CONVENUTO/I

Nonché

OT. LO. (CF. (oscurato)), LU. LO. (C.F.: (oscurato)) e SA. LE. (C.F.: (oscurato)) rappresentato e difeso dall’avv. L. M. A. elettivamente domiciliato in (oscurato) presso lo studio dell’avv. L. M.A.

TERZI CHIAMATI

CONCLUSIONI

Le parti hanno concluso come da verbale d’udienza del 12.02.2020.

Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione
Con atto di citazione ritualmente notificato, IL. ha convenuto in giudizio BA. DI NA. al fine di sentirla condannare alla restituzione di quanto indebitamente percepito.

Ha dedotto, in fatto, di avere concordato con l’istituto di credito convenuto un’apertura di credito regolata su contratto di conto corrente sottoscritto nel 1998.

Ha dedotto che, nel corso del rapporto contrattuale, sarebbero stati applicati tassi in misura superiore al tasso di legge pur in assenza di una pattuizione sufficientemente determinata, interessi anatocistici e commissioni di massimo scoperto in difetto di apposita e determinata pattuizione.

Ha pertanto ritenuto in diritto sussistenti i presupposti legittimanti l’azione di accertamento e di condanna alla ripetizione di quanto indebitamente versato.

Ha altresì dedotto di aver subito, in conseguenza della condotta illecita dell’istituto di credito convenuto, plurimi pregiudizi (sia patrimoniali che non), ivi compreso quello derivante dall’illegittima segnalazione nella Centrale Rischi, con conseguente fondatezza della domanda proposta.

Si è costituito in giudizio l’istituto di credito convenuto contestando quanto ex adverso dedotto.

Ha eccepito, in via preliminare, la prescrizione del credito azionato e, con specifico riferimento alle censure di parte attrice, la legittimità e la correttezza dell’operato della Banca.

Ha altresì formulato, in via riconvenzionale, domando di esatto adempimento alla luce del saldo debitorio esistente sul contratto di conto corrente in atti, con conseguente estensione della sua domanda, previa autorizzazione alla chiamata in causa dei terzi, nei confronti dei garanti.

Si sono costituiti in giudizio LU. LO., OT. LO. e SA. LE., in qualità di fideiussori di parte attrice, reiterando le deduzioni già sollevate da IL. con conseguente inesigibilità, nei suoi confronti, di ulteriori importi.

La causa è stata trattenuta in decisione in data odierna, a seguito di discussione orale ex art. 281 sexies c.p.c.

  1. Oggetto del giudizio è l’accertamento del diritto alla ripetizione delle somme indebitamente corrisposte dalla società attrice sulla base degli affidamenti concessi dall’istituto di credito convenuto, confluiti e unitariamente regolati, per come evidenziato dallo stesso CTU, su contratto di conto corrente n. (oscurato).

In tema di onere della prova nell’azione di restituzione dell’indebito, la giurisprudenza di legittimità ha stabilito che “nella ripetizione di indebito opera il normale principio dell’onere della prova a carico dell’attore il quale, quindi, è tenuto a dimostrare sia l’avvenuto pagamento sia la mancanza di una causa che lo giustifichi” (Cass. n. 30713 del 2018).

  1. Ciò chiarito, può procedersi a vagliare la fondatezza della domanda attorea, muovendo dalle eccezioni preliminari sollevate dalla convenuta.

2.1. Quanto all’eccezione di prescrizione, la decisione circa la fondatezza o meno della stessa non può prescindere dalla valutazione circa la natura “ripristinatoria” ovvero “solutoria” delle rimesse in conto. Sul punto, infatti, la giurisprudenza della Cassazione, a Sezioni Unite, ha ritenuto che “l’azione di ripetizione di indebito, proposta dal cliente di una banca, il quale lamenti la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici maturati con riguardo ad un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, è soggetta all’ordinaria prescrizione decennale, la quale decorre, nell’ipotesi in cui i versamenti abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista, non dalla data di annotazione in conto di ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati, ma dalla data di estinzione del saldo di chiusura del conto, in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati. Infatti, nell’anzidetta ipotesi ciascun versamento non configura un pagamento dal quale far decorrere, ove ritenuto indebito, il termine prescrizionale del diritto alla ripetizione, giacché il pagamento che può dar vita ad una pretesa restitutoria è esclusivamente quello che si sia tradotto nell’esecuzione di una prestazione da parte del “solvens” con conseguente spostamento patrimoniale in favore dell'”accipiens” (Cass. Sez. Un. n. 24418 del 2010).

Ad ulteriore specificazione di tali principi, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che “i versamenti eseguiti su conto corrente in corso di rapporto hanno normalmente funzione ripristinatoria della provvista e non determinano uno spostamento patrimoniale dal solvens all’accipiens. Tale funzione corrisponde allo schema causale tipico del contratto. Una diversa finalizzazione dei singoli versamenti (o di alcuni di essi) deve essere in concreto provata da parte di chi intende far decorrere la prescrizione dalle singole annotazioni delle poste relative agli interessi passivi anatocistici” (Cass. n. 4518 del 2014).

Recentemente la Corte di Cassazione (sent. 27704 del 2018) ha fornito l’esatta interpretazione da attribuire al principio espresso nella pronuncia n. 4518 del 2014, affermando che “grava sull’attore in ripetizione dimostrare la natura indebita dei versamenti e, a fronte dell’eccezione di prescrizione dell’azione proposta dalla banca, dimostrare l’esistenza di un contratto di apertura di credito idoneo a qualificare il pagamento come ripristinatorio ed a spostare l’inizio del decorso della prescrizione al momento della chiusura del conto”. Solamente una volta che si sia data prova del contratto di apertura di credito (ovvero la stipulazione di tale negozio tra le parti non sia in contestazione) opera la presunzione in merito alla natura ripristinatoria delle rimesse (Cass., sent. 20933 del 2017).

Nel caso di specie l’istruttoria ha consentito di apprezzare come il conto corrente oggetto di causa fosse affidato e che, ciò nonostante, la Banca non ha allegato né provato in che termini tale affidamento sia stato superato; ne consegue, pertanto, che l’eccezione di prescrizione va disattesa.

2.2 Meritevole di accoglimento è inoltre la doglianza di parte attrice relativa alla prospettata applicazione di interessi anatocistici sulle somme versate in base ai contratti oggetto del presente giudizio.

Le risultanze peritali in atti, infatti, hanno accertato l’illegittima capitalizzazione degli interessi attivi e passivi applicata dall’istituto di credito convenuto per il periodo antecedente la delibera C.I.C.R. del 2000 e, di contro, l’adeguamento alla stessa per la fase successiva.

Ne consegue che appare condivisibile l’operato dell’ausiliario tecnico laddove, per il periodo che va dalla stipula del contratto di conto corrente ((oscurato)) al 01.07.2000, ha accertato che “è pacifico il divieto delle clausole di capitalizzazione periodica degli interessi e pertanto tutte le competenze relative vanno depurate”; di contro, per il periodo successivo, è stato accertato che “la Banca si è adeguata alla delibera del C.I.C.R. (…) capitalizzando con la medesima periodicità gli interessi debitori e creditori”.

2.3. Risultano altresì illegittimamente addebitate dalla banca somme a titolo di commissione di massimo scoperto, per come evidenziato dallo stesso ausiliario tecnico nominato.

Ora, è noto che la prassi bancaria ha modellato due figure di commissione di massimo scoperto, di cui l’una finalizzata a compensare la banca per l’impegno assunto di porre a disposizione del cliente una determinata somma di danaro e calcolata sulla disponibilità accordatagli e l’altra che si pone quale remunerazione non della predetta disponibilità concessa, bensì della disponibilità effettivamente utilizzata.

Nella specie, viene in rilievo la seconda figura di c.m.s., avendo le parti previsto una remunerazione per la banca in ragione di un mero dato numerico sul picco più alto della somma prelevata, per come emerso dalle risultanze peritali.

La conseguenza è che la clausola in questione risulta, per un verso, priva di causa, atteso che la stessa finisce per attribuire alla banca un ulteriore e non pattuito addebito d’interessi corrispettivi rispetto a quelli già convenuti per l’utilizzazione dell’apertura di credito (cfr. Trib. Bari 24/6/2016) e, per altro verso, indeterminata nell’oggetto, attesa la mancanza di qualsiasi riferimento all’arco temporale minimo del prelevamento del picco più elevato da parte della correntista, ai fini dell’operatività della c.m.s. Ne deriva che, ai fini della rideterminazione del saldo del conto corrente, occorre espungere tutti gli importi addebitati dalla banca a titolo di c.m.c., avendo il consulente d’ufficio riscontrato l’avvenuta applicazione della commissione non sulla somma complessivamente affidata, bensì sul picco dell’utilizzato.

Ne consegue pertanto che, in tali ipotesi di mancata determinatezza, l’addebito della CMS si traduce di fatto in un’imposizione unilaterale della Banca che non trova giuridico fondamento in una valida pattuizione consensuale.

Per tali ragioni la clausola del contratto in questione, con cui è stata prevista l’esistenza della CMS, è nulla per assoluta indeterminatezza e indeterminabilità in combinato disposto con quanto prescritto dagli artt. 1346 e 1418 c.c.

Ne consegue che alcun addebito di CMS può ritenersi legittimo di talché appare corretto l’elaborato peritale del CTU che ha effettuato il ricalcolo delle poste debitorie, ritenendo non dovuta la somma addebitata a tale titolo avuto riguardo al contratto di conto corrente prodotto agli atti.

Con riferimento, di contro, al periodo post 2009, giova sinteticamente rammentare che l’art. 2-bis del D.L. n. 185 del 2008 – introdotto dalla Legge di conversione n. 2/2009 – disciplinando la materia delle commissioni di massimo scoperto, pure omettendo ogni definizione più puntuale delle stesse, ha effettuato una ricognizione dell’esistente con l’effetto sostanziale di sancire definitivamente la legittimità di siffatto onere e, per tale via, di sottrarla alle censure di legittimità sotto il profilo della mancanza di causa (in tal senso si è espressa anche Cass. 22/06/2016 n. 12965).

In questo contesto normativo, deve ritenersi legittima, contrariamente a quanto sostenuto da parte attrice, l’adeguamento alla nuova clausola di commissione massimo scoperto effettuata in forza di una modifica unilaterale del contratto, essendo minoritaria in giurisprudenza, e non condivisibile neanche dallo scrivente giudice, l’orientamento che, ai fini dell’adeguamento suddetto prescriveva la necessità di un accordo scritto ex art. 117 TUB.

Si rammenta, infatti, secondo l’orientamento consolidato in seno alle pronunce dell’ABF, che ” come questo Collegio ha già avuto occasione di affermare (…) deve in linea di massima ritenersi legittimo il ricorso alle modalità previste dall’art. 118 TUB in tema di ius variandi per adattare il contratto in essere tra le parti alla modifica legislativa in questione, posto che ciò è espressamente previsto dal 3° comma della norma sopra illustrata” (edx multis Decisioni ABF, Collegio di Milano, n. 172/10; n. 393/10; 849/10; n. 1016/10).

Ed invero, sempre secondo l’orientamento maggioritario, la modalità di adeguamento tramite modifica unilaterale del contratto “risulta conforme con il disposto del comma 3 dell’art. 2 bis, ove esplicitamente si prevede, al fine dell’adeguamento della nuova normativa, il ricorso all’istituto dello ius variandi di cui all’art. 118 TUB”.

Tanto premesso, nel caso di specie, essendo circostanza incontestata (in quanto pacificamente riconosciuta dalla stessa parte attrice) che l’adeguamento nel caso di specie sia avvenuto in forma di una modifica unilaterale del contratto nel terzo trimestre del 2009, quando ancora il terzo comma dell’art. 2-bis del D.L. n. 185 del 2008 era ancora in vigore, appare condivisibile l’operato del consulente tecnico che ha ritenuto di non epurare gli importi calcolati a titolo di commissioni disponibilità fondi “poiché calcolate in misura fissa sul fido concesso”.

2.4. Con riferimento all’asserita usurarietà degli interessi praticati, non meritevole di accoglimento, per come accertato dal CTU, appare la predetta censura sollevata da parte attrice.

Premesso che, contrariamente a quanto sostenuto da quest’ultima, risulta, per come accertato dall’ausiliario tecnico, la pattuizione dei tassi applicati “dai contratti di apertura di credito e concessione fido succedutisi nel corso del rapporto”, occorre brevemente soffermarsi sulla corretta formula da applicare per la determinazione del tasso soglia.

Si rammenta infatti che, con la L. n. 108 del 1996 si è modificato l’art. 644 c.p. in materia di usura prevedendo che il limite usurario del tasso di interesse si determina raffrontando il tasso fissato dai contraenti al c.d. tasso soglia, la cui rilevazione è rimessa con cadenza trimestrale al Ministro del Tesoro, di concerto con la B.D. e l’Ufficio italiano dei cambi (art. 2, L. n. 108 del 1996).

Ed invero, per come avallato dall’orientamento giurisprudenziale consolidato, “Le Istruzioni della B.D. in materia di rilevazione del Tasso Effettivo Globale, oltre a rispondere alla elementare esigenza logica e metodologica di avere a disposizione dati omogenei al fine di poterli raffrontare, hanno anche natura di norme tecniche autorizzate” (Tribunale di Milano, 03.06.2014 n. 7234).

Anche in sede penale si è affermato che “in tema di reato di usura, il giudice è tenuto ad accertare motivatamente la natura usuraria degli interessi mediante specifico riferimento ai valori determinati dal decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze vigente all’epoca della pattuizione onde raggiungere il tasso soglia, ai sensi dell’art. 2 L. n. 108 del 1996″(Cass. pen. n. 8353/2013).

Ne consegue, pertanto, a supporto di quanto testé dedotto, che “l’individuazione del fatto tipico ricadente nella previsione incriminatrice dell’art. 644 c.p. deve essere operata esclusivamente in base alla determinazione dei tassi trimestralmente pubblicati sulla G.U. con decreto del Ministro del Tesoro. Ogni operazione ermeneutica “additiva” di elementi estranei a quelli presi in considerazione dal c.d. legislatore amministrativo si risolverebbe nella creazione – da parte dell’interprete o del tecnico – di una diversa fattispecie incriminatrice, in aperta violazione del dettato di cui agli artt. 25, co. 2, Cost. e 1″ (T LE., 6.3.2008).

Orbene, tanto premesso, con riferimento ai contratti conclusi prima del 1.1.2010, la CMS non era originariamente calcolata nelle rilevazioni del tasso effettivo globale medio per espressa previsione contenuta nelle Istruzioni impartite dalla B.D. per l’attuazione dell’art. 2 L. n. 108 del 1996.

Ed invero, solo nell’agosto 2009 la B.D., recependo le indicazioni normative provenienti dall’art. 2 bis, co. 2, D.L. 29 novembre 2008, n. 185, conv. nella L. 28 gennaio 2009, n. 2, ha emanato le nuove “Istruzioni per la rilevazione dei tassi effettivi globali medi ai sensi della legge sull’usura”, il cui paragrafo “C4. Trattamento degli oneri e delle spese nel calcolo del TEG” stabilisce ora espressamente che il calcolo del tasso include, fra l’altro, la commissione di massimo scoperto laddove applicabile secondo le disposizioni di legge vigenti.

Dunque, ai fini della determinazione del tasso effettivo globale per l’accertamento del carattere usurario del tasso di interesse applicato, deve tenersi conto della commissione di massimo scoperto ai sensi dell’art. 2 bis, 2 comma, L. 28 gennaio 2009, n. 2 e delle successive Istruzioni della B.D. dell’agosto 2009 soltanto a far data dall’entrata in vigore di quest’ultima normativa (ossia a partire dall’anno 2010), restando viceversa la c.m.s. esclusa dal calcolo nel periodo antecedente e in quello transitorio, come risulta dall’art. 2 bis, co. 2 e 3 L. n. 2 del 2009.

Tale orientamento ha trovato definitiva consacrazione anche in quanto statuito dalla Suprema Corte che, con riferimento alla commissione di massimo scoperto e al rilievo di usura, si è così pronunciata: “ribadito che l’art. 1815, co. 2, cod. civ., come novellato dalla L. n. 108 del 1996, è norma applicabile a tutti i contratti bancari, compresa l’apertura di credito in conto corrente e che è nulla, per contrarietà a norme imperative, la clausola ivi contenuta che preveda l’applicazione di un tasso sugli interessi con fluttuazione tendenzialmente aperta, da correggere con mera automatica riduzione in caso di superamento della soglia usuraria, cioè solo mediante l’astratta affermazione del diritto alla restituzione del supero in capo al correntista, a sua volta la commissione di massimo scoperto, applicata fino all’entrata in vigore dell’art. 2-bis D.L. n. 185 del 2008, deve ritenersi in thesi legittima, almeno fino al termine del periodo transitorio fissato al 31 dicembre 2009, posto che i decreti ministeriali che hanno rilevato il TEGM – dal 1997 al dicembre del 2009 – sulla base delle istruzioni diramate dalla B.D., non ne hanno tenuto conto al fine di determinare il tasso soglia usurario, dato atto che ciò è avvenuto solo dal 1 gennaio 2010, nelle rilevazioni trimestrali del TEGM; ne consegue che l’art. 2-bis del D.L. n. 185 del 2008, introdotto con la legge di conversione n. 2 del 2009, non è norma di interpretazione autentica dell’art. 644, co. 3, cod. pen., bensì disposizione con portata innovativa dell’ordinamento, intervenuta a modificare -per il futuro- la complessa disciplina anche regolamentare (richiamata dall’art. 644, co.4, cod. pen.) tesa a stabilire il limite oltre il quale gli interessi sono presuntivamente sempre usurari, derivandone… che per i rapporti bancari esauritisi prima del 1 gennaio 2010, allo scopo di valutare il superamento del tasso soglia nel periodo rilevante, non debba tenersi conto delle CMS applicate dalla banca ed invece essendo tenuto il giudice a procedere ad un apprezzamento nel medesimo contesto di elementi omogenei della remunerazione bancaria, al fine di pervenire alla ricostruzione del tasso-soglia usurario…” (Cass. 12965/2016).

Ne consegue, pertanto, che non è possibile considerare la c.m.s. nel TEG prima dell’entrata in vigore della L. n. 2 del 2009, non avendone i decreti ministeriali emanati fino al dicembre 2009 tenuto conto nel determinare il tasso-soglia per l’accertamento dell’usura

Dunque, conformemente al quesito formulato dal Giudice, il c.t.u. ha proceduto, con metodologia condivisibile e ragionamento esente da vizi, a ricalcolare il saldo finale del conto, mediante esclusione, per il periodo anteriore alla delibera CICR del 2000, degli importi addebitati a titolo di Commissione di Massimo scoperto, utilizzando altresì, per il ricalcolo in oggetto, i tassi convenzionali vigenti tempo per tempo, “in stretta aderenza alle istruzioni per la rilevazione dei tassi effettivi globali medi ai sensi della legge sull’usura fornite dalla Banca d’Italia”.

2.5. Sotto il profilo del quantum, alla luce di tutto quanto testé dedotto e tenuto conto dell’irrilevanza dell’eccezione di prescrizione, appaiono condivisibili le conclusioni dell’ausiliario tecnico secondo cui “il totale a favore di parte attrice è pari ad euro 74.773,06. Pertanto, essendo il conto corrente in esame, chiuso con un saldo negativo a favore della banca pari ad euro – 81.237,63, si rileva una differenza dovuta da parte attrice a parte convenuta pari ad euro 6.500,57”.

Ne consegue che la domanda riconvenzionale di esatto adempimento, formulata dall’odierno convenuto, è meritevole di accoglimento nei limiti testé indicati.

  1. Le considerazioni sopra riportate, in punto di accertata esistenza di un saldo debitorio comunque esistente a carico della società attrice, non consentono di ritenere fondate le domande risarcitorie formulate.

Ad abundantiam, in ogni caso, si rileva come, nel caso di specie, quanto preteso sia a titolo di danno patrimoniale che a titolo di danno non patrimoniale (per asserita illegittima segnalazione alla Centrale Rischi) sia destituito del benché minimo fondamento giuridico.

Ai fini della risarcibilità del danno ex art. 1223 c.c., in relazione all’art. 1218 c.c. o agli artt. 2043 e 2056 c.c., il creditore o il preteso danneggiato deve infatti allegare, in relazione a specifici fatti concreti di cui deve essere fornita la prova, non solo l’altrui inadempimento ovvero allegare e provare l’altrui fatto illecito, ma in entrambi i casi deve pur sempre allegare e provare l’esistenza di una lesione, cioè della riduzione del bene della vita (patrimonio, salute, immagine, ecc.) di cui chiede il ristoro, e la riconducibilità della lesione al fatto del debitore o del danneggiante: in ciò appunto consiste il danno risarcibile, che è un quid pluris rispetto alla condotta asseritamente inadempiente o illecita; in difetto di tale allegazione e prova la domanda risarcitoria mancherebbe di oggetto (cfr. Cass. 5960/2005).

In adesione al principio ermeneutico basato sul concetto di danno-conseguenza in contrapposizione a quello di danno-evento ed escludendo l’ipotizzabilità di un risarcimento automatico e di un danno in re ipsa, così da coincidere con l’evento, appare quindi evidente che la domanda risarcitoria deve essere provata, sia pure ricorrendo a presunzioni, sulla base di conferente allegazione: non si può invero provare ciò che non è stato oggetto di rituale ed adeguata allegazione (cfr. Cass. SU 26972/2008).

Nel caso di specie, a prescindere da ogni altra considerazione, manca la prova del danno patrimoniale e non patrimoniale in ipotesi sofferto dalla società attrice, oltre che del nesso causale fra la condotta della banca, altrettanto in ipotesi inadempiente o illecita, ed il danno, altrettanto in ipotesi sofferto dalla società attrice, non essendo infatti sufficienti mere formule di stile.

Le superiori considerazioni valgono appunto tanto nell’ipotesi di pretesi danni di natura patrimoniale, quanto nell’ipotesi di quelli di natura non patrimoniale.

3.1. Con riferimento al danno patrimoniale, nel caso di specie, lo si ripete, non è stato in alcun modo provato il nesso di derivazione causale dell’asserita contrazione dei redditi e del volume di affari dell’odierna attrice con l’asserita illegittima chiusura dei conti non essendo in alcun modo provato che gli asseriti importi illegittimamente sottratti sarebbero stati impiegati nel ciclo produttivo della società e, soprattutto, in che modo sarebbero stati impiegati.

3.2. Parimenti risulta del tutto sfornita di allegazione e prova l’effettiva esistenza e la sua derivazione causale dalla condotta asseritamente illecita della banca, dell’altrettanto generica allegazione dei lamentati danni non patrimoniali, sotto i plurimi (e spesso sovrapponibili) profili indicati da parte attrice.

Si rammenta, infatti, che la lesione di un diritto inviolabile, anche laddove integri gli estremi di un reato, non comporta la sussistenza di un danno non patrimoniale in re ipsa, essendo comunque necessaria l’allegazione e la prova del pregiudizio concretamente ed effettivamente patito e della sua entità materiale; tali elementi, per come sopra detto, risultano del tutto carenti nel caso di specie.

Rispetto a quest’ultima ipotesi, inoltre, deve ritenersi superato, alla luce dei principi sopra esposti, l’orientamento giurisprudenziale invocato da parte attrice anche in punto di danni da asserita illegittima segnalazione alla Centrale Rischi, per come da ultimo ribadito dalla Suprema Corte laddove ha statuito che “in tema di responsabilità civile, il danno all’immagine ed alla reputazione (nella specie, “per illegittima segnalazione alla Centrale Rischi”), in quanto costituente “danno conseguenza”, non può ritenersi sussistente “in re ipsa”, dovendo essere allegato e provato da chi ne domanda il risarcimento” (Cass. 7594/2018)

Ne consegue l’infondatezza della domanda risarcitoria proposta.

  1. La reciproca soccombenza delle parti in giudizio, giustifica la compensazione delle spese di lite.

P.Q.M.
il Tribunale di Crotone, sezione civile, definitivamente pronunciando, così provvede:

  • in parziale accoglimento delle reciproche pretese, condanna IL., in solido con LU. LO., OT. LO. e SA. LE., al pagamento, in favore di BA. DI NA., della somma di euro 6.500,57, oltre interessi al tasso contrattualmente pattuito dal 24.06.2016 fino al soddisfo.
  • rigetta ogni residua domanda o eccezione.
  • spese compensate.
  • pone le spese di CTU definitivamente a carico delle parti, ciascuno nella misura del 50% dell’importo complessivamente liquidato.

Sentenza resa ex articolo 281 sexies c.p.c., pubblicata mediante lettura in udienza ed allegazione al verbale.

Crotone, 4 marzo 2020

Il Giudice

dott. Antonio Albenzio

CORONAVIRUS: URGENTI MODIFICHE AL D.L. n. 11/2020 PER LA GIUSTIZIA TRIBUTARIA

di Maurizio Villani

Il Decreto Legge n. 11 dell’08 marzo 2020 (in G.U. n. 60 dello stesso giorno) all’art. 1 ha disposto il differimento urgente delle udienze e sospensione dei termini nei procedimenti civili, penali, tributari e militari, tanto è vero che gli artt. 1, ultimo comma, e 2, ultimo comma, prevedono che le disposizioni, in quanto compatibili, si applicano ai procedimenti relativi alle Commissioni Tributarie.

In particolare, gli artt. 1 e 2 del citato Decreto stabiliscono che:

  1. a decorrere da lunedì 09 marzo c.a. e sino a domenica 22 marzo c.a sono rinviate d’ufficio a data successiva al 22 marzo tutte le udienze tributarie, anche di sospensiva, dei procedimenti pendenti presso tutte le Commissioni Tributarie (art. 1, comma 1, cit.);
  • al fine di evitare assembramenti all’interno dell’ufficio giudiziario e contatti ravvicinati con le persone, i Capi delle Commissioni Tributarie Provinciali e Regionali possono (non devono) adottare le misure tassativamente indicate dall’art. 2, comma 2, D.L. n. 11 cit. ed in particolare possono prevedere il rinvio delle udienze tributarie a data successiva al 31 maggio 2020 (art. 2, comma 2, lettera g, D.L. n. 11 cit.);
  • a decorrere da lunedì 09 marzo c.a. e sino a domenica22 marzo c.a. sono sospesi i termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti indicati al comma 1 (art. 1, comma 2, D.L. n. 11 cit.);
  • in ogni caso, restano ferme le disposizioni di cui all’art. 10 del Decreto Legge 02 marzo 2020 n. 9 per le misure urgenti in materia di sospensione dei termini e rinvio delle udienze processuali per i giudizi pendenti presso gli uffici giudiziari dei circondari dei Tribunali cui appartengono i comuni di cui all’allegato 1 al Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 01 marzo 2020 (art. 1, comma 3, D.L. n. 11 cit);
  • infine, per quanto riguarda il diritto all’equa riparazione di cui all’art. 2 della Legge n. 89 del 24 marzo 2001, ai fini del computo, non si tiene conto del periodo decorrente dalla data del provvedimento di rinvio dell’udienza alla data della nuova udienza, sino al limite massimo di tre mesi successivi al 31 maggio 2020 (art. 2, comma 5, D.L. n. 11 cit.).

Secondo me, il legislatore ha genericamente previsto l’applicazione delle suddette disposizioni ai procedimenti relativi alle Commissioni Tributarie, usando però il termine generico “in quanto compatibili”, lasciando troppo spazio alle interpretazioni da parte dei giudici tributari.

Pertanto, in sede di conversione del suddetto Decreto Legge, secondo me, è opportuno apportare le seguenti necessarie ed urgenti modifiche:

  1. innanzitutto disciplinare con un distinto articolo le disposizioni relative alla giustizia tributaria, per evitare generiche e contraddittorie interpretazioni, così come è stato fatto con l’art. 3 per la giustizia amministrativa e con l’art. 4 per la giustizia contabile; questa è un’ulteriore conferma della necessità di dare autonomia e dignità alla giustizia tributaria, come prevedono i vari disegni di legge in discussione presso le Commissioni Riunite in sede redigente Seconda e Sesta del Senato;
  • poiché sono rinviate d’ufficio tutte le udienze, anche quelle cautelari, c’è il rischio che i contribuenti siano costretti a pagare le iscrizioni provvisorie, in attesa delle nuove udienze; pertanto, è necessario non bloccare le udienze di sospensiva e farle fissare nel più breve tempo possibile;
  • in attesa di quanto scritto alla precedente lettera b), è opportuno e necessario che il legislatore disponga con effetto immediato la sospensione del pagamento di tutte le iscrizioni provvisorie, almeno fino alla data della nuova udienza di sospensione di cui agli artt. 47 e 52, commi 2, 3, 4, 5 e 6 del Decreto Legislativo n. 546 del 31 dicembre 1992;
  • correggere il secondo comma dell’art. 1, comma 2, cit. e precisare che la sospensione dei termini processuali dal 09 marzo c.a. al 22 marzo c.a. riguarda tutti i giudizi pendenti e non soltanto quelli le cui udienze sono rinviate d’ufficio a data successiva al 22 marzo 2020; questo per evitare una illegittima disparità di trattamento processuale tra le parti, in quanto l’emergenza epidemiologica da Covid-19 riguarda tutti i Professionisti impegnati nei procedimenti fiscali oggi pendenti;
  • infine, per evitare comportamenti contrastanti a livello nazionale, secondo me, è opportuno modificare l’art. 2, comma 2, D.L. n.11 cit. nel senso che i Capi delle Commissioni Tributarie Provinciali e Regionali devono, non possono, adottare le misure tassativamente previste dal citato comma e, soprattutto, disporre d’ufficio il rinvio delle udienze di merito a data successiva al 31 maggio 2020, a meno che una delle parti processuali non presenti apposita e documentata istanza di sollecita fissazione di udienza di merito prima della suddetta data del 31 maggio 2020.

In definitiva, secondo me, le suddette correzioni normative sono necessarie sia per disciplinare meglio ed in modo organico la giustizia tributaria sia per non creare assurdi e contrastanti comportamenti processuali a livello nazionale che, soprattutto in questo particolare e difficile momento storico, potrebbero aggravare ulteriormente le condizioni economiche dei contribuenti, soprattutto per quanto riguarda il pagamento delle iscrizioni provvisorie.

AVV. MAURIZIO VILLANI
Avvocato Tributarista in Lecce

Patrocinante in Cassazione www.studiotributariovillani.it – e-mail avvocato@studiotributariovillani.it

FONDO PATRIMONIALE E FISCO

di Maurizio Villani

L’iscrizione ipotecaria è atto avente natura esecutiva in quanto attività prodromica all’esecuzione di cui condivide la natura e la disciplina, come si argomenta sulla base di alcuni precedenti della Corte di Cassazione (Sez. 3, n. 1652 del 29/01/2016; Sez. 5, n. 3600 del 24/02/2016; Sez. 6-5, Ord. n. 23876 del 23/11/2015), che ha affermato l’applicabilità dell’art. 170 cod. civ. anche all’iscrizione ipotecaria, ex art. 77 D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, e lo ha fatto richiamando il precedente di Sez. 3, n. 5385 del 05/03/2013, il quale a sua volta richiama Sez. 5, n. 7880 del 18/05/2012.

Entrambi i precedenti da ultimo citati, però, argomentano sulla base della premessa che l’ipoteca ex art. 77 D.P.R. cit. abbia natura di atto funzionale all’esecuzione forzata (premessa essenziale al ragionamento, posto che l’art. 170 cod. civ. si riferisce, espressamente, quale attività il cui compimento vieta sui beni del fondo e sui frutti di essi, alla «esecuzione»).

In particolare, evocano al riguardo il tradizionale criterio secondo cui nel concetto di atti di esecuzione rientrano non soltanto gli atti del processo di esecuzione stricto sensu, ma tutti i possibili effetti dell’esecutività del titolo e, dunque, anche l’ipoteca iscritta sulla base dell’esecutività del titolo medesimo, con ciò, dunque, chiaramente postulando, sia pure alla stregua di tale lato criterio definitorio, la possibilità dì definire l’iscrizione de qua quale «atto di esecuzione».

Tale premessa non può più, però, essere tenuta ferma alla luce della ricostruzione dell’istituto operata, come noto, dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 19667 del 18/09/2014.

Come noto, infatti, tale pronuncia – richiamata e confermata in motivazione anche da Sez. U, ord. n. 15354 del 22/07/2015 – ha escluso che “l’iscrizione ipotecaria prevista dall’art. 77 D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, possa essere considerata un atto dell’espropriazione forzata, dovendosi piuttosto essa essere considerata «un atto riferito ad una procedura alternativa all’esecuzione forzata vera e propria”.

Tale affermazione di principio, dalla quale non si vede ragione per discostarsi, non può non riverberarsi nella materia qui trattata, nella quale, venuta meno la premessa ricostruttiva fondata come detto sulla qualificazione dell’iscrizione ipotecaria ex art. 77 D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 come «atto dell’esecuzione», viene meno anche l’applicabilità dell’art. 170 cod. civ., non sembrando superabile il dato testuale sopra già evidenziato, tanto più ove si consideri che, ponendo la norma una eccezione alla regola della responsabilità patrimoniale ex art. 2740 cod. civ., la stessa è da ritenersi soggetta a interpretazione tassativa (V. anche Cass.n.23875/2015; n. 10794/2016, in motiv.; Cass. n. 5577/2019).

Alla luce della natura dell’iscrizione ipotecaria, si è dunque affermato che “l’iscrizione ipotecaria di cui all’art. 77 del D.P.R. n. 602 del 1973 è ammissibile anche sui beni facenti parte di un fondo patrimoniale alle condizioni indicate dall’art. 170 c. c., sicché è legittima solo se l’obbligazione sia strumentale ai bisogni della famiglia o se il titolare del credito non ne conosceva l’estraneità a tali bisogni, gravando in capo al debitore opponente l’onere della prova non solo della regolare costituzione del fondo patrimoniale, e della sua opponibilità al creditore procedente, ma anche della circostanza che il debito sia stato contratto per scopi estranei alle necessità familiari, avuto riguardo al fatto generatore dell’obbligazione e a prescindere dalla natura della stessa. (Cass. n. 20998/2018; Cass. n. 1652 del 2016; Cass. n. 22761 del 09/11/2016; Cass. n. 3738/2015; Cass. 23876/2015; Cass., ordinanza n. 5017 depositata il 25 febbraio 2020).

In particolare, si è affermato che il creditore può iscrivere ipoteca su beni appartenenti al debitore, e conferiti nel fondo, se il debito sia stato contratto per uno scopo non estraneo ai bisogni familiari, ovvero – nell’ipotesi contraria – purché il titolare del credito, per il quale procede alla riscossione, non fosse a conoscenza di tale estraneità, dovendosi ritenere, diversamente, illegittima l’eventuale iscrizione comunque effettuata (v. Cass. n. 23876/2015; Cass. n. 1652/2016; Cass. n. 2998/2018).

Ne consegue che i beni costituenti fondo patrimoniale non possono essere sottratti all’azione esecutiva dei creditori quando lo scopo perseguito nell’obbligazione sia quello di soddisfare i bisogni della famiglia, da intendersi non in senso oggettivo, ma come comprensivi anche dei bisogni ritenuti tali dai coniugi in ragione dell’indirizzo della vita familiare e del tenore prescelto, in conseguenza delle possibilità economiche familiari.

La Corte di Cassazione ha, altresì, più volte ribadito che il criterio identificativo dei crediti che possono essere realizzati esecutivamente sui beni conferiti nel fondo va ricercato non già nella natura delle obbligazioni, ma nella relazione esistente tra il fatto generatore di esse e i bisogni della famiglia sicché non assume rilievo la natura latamente pubblicistica del credito di cui alle cartelle di pagamento (Cass. n.3738/2015, n.15886/2014; Cass. n. 31590/2018).

Spetta, pertanto, al giudice di merito di accertare – in fatto – se il debito in questione si possa dire contratto per soddisfare i bisogni della famiglia, (Cass. n.12998/2006) a prescindere dalla natura della stessa: sicchè anche un debito di natura tributaria sorto per l’esercizio dell’attività imprenditoriale può ritenersi contratto per soddisfare tale finalità, fermo restando che essa non può dirsi sussistente per il solo fatto che il debito derivi dall’attività professionale o d’impresa, dovendosi accertare che l’obbligazione sia sorta per il soddisfacimento dei bisogni familiari, nel cui ambito vanno incluse le esigenze volte al pieno mantenimento ed all’univoco sviluppo della famiglia, ovvero per il potenziamento della capacità lavorativa, e non per esigenze di natura voluttuaria o caratterizzate da interessi meramente speculativi (cfr. Cass. n. 26126/2019; Cass. n. 9188/2016; Cass. n. 3738/2015; Cass. n. 23876/2015, peraltro in riferimento alla riscossione dell’esattore).

Errata è dunque quella impostazione che ritiene l’inerenza diretta del debito fiscale con i bisogni della famiglia solo limitatamente alle imposte relative ai redditi prodotti dalle attività conferiti nel fondo (Cass. n. 23876/2015).

La circostanza, per esempio, che il contribuente percepisse altri redditi da lavoro che addizionati a quelli del coniuge erano “sufficienti” a soddisfare le esigenze della famiglia appare affermazione tautologica e disancorata dal preciso onere probatorio gravante su chi contesta la pignorabilità dei cespiti.

In primo luogo, l’adeguatezza di detti redditi non può essere valutata in astratto rispetto alle “comuni” esigenze di una famiglia, atteso che la qualità e quantità dei bisogni di una famiglia vanno valutate in relazione al tenore prescelto in concreto dai coniugi e all’indirizzo impresso alla vita familiare che potrebbero necessitare di redditi cospicui.

E’ onere del contribuente quanto meno allegare (e poi provare) che il maggior reddito conseguito all’evasione era stato destinato a scopi voluttuari estranei ai bisogni della famiglia: quali investimenti azionari ovvero acquisti di immobili non costituiti nel fondo patrimoniale (Cass. n.4593/2017).

Del resto, la difficoltà di provare la conoscenza dell’Erario della non inerenza dei crediti alle esigenze della famiglia non integra sul piano giuridico un elemento idoneo a invertire la regola di distribuzione dell’onere probatorio.

L’onere di provare l’estraneità dei crediti ai bisogni familiari spetta soltanto al contribuente (v. Cass. n. 20998/2018; Cass. n. 222761/2016; Cass. nn. 641 e 5385 del 2015; Cass. nn. 23876 3738 del 2015; Cass. n. 4011 del 2013).

La Corte di Cassazione ha pure precisato che tali oneri di allegazione e di prova si configurano anche quando si proponga contro l’esattore domanda di declaratoria della illegittimità di una ipoteca iscritta ai sensi del citato art. 77 del D.P.R. n. 602/73.

Una diversa soluzione legittimerebbe, in modo improprio, l’utilizzo del fondo patrimoniale (istituto che ha la finalità di apprestare misure di protezione per i bisogni economici della famiglia) a scopo elusivo: al riguardo, soccorrono i principi concernenti la solidarietà economica e la ratio degli artt. 23 e 53 della Costituzione, i quali, consentendo un corretto bilanciamento delle diverse esigenze, legittima l’iscrizione ipotecaria sul fondo patrimoniale anche per le somme dovute a titolo di sanzioni (Cass. n.20998/2018).

L’iscrizione ipotecaria non consente alcun vaglio giurisdizionale, fondandosi non su un credito da accertare, ma su un titolo esecutivo portante un credito ormai liquido ed esigibile, il che esclude una valutazione sulla legittimità della iscrizione anche per sanzioni accessorie al debito tributario.

I giudici di merito, in corretta applicazione dei suddetti principi di diritto, devono ritenere sempre decisiva la circostanza che il ricorrente non avesse né allegato né, tanto meno, provato, che i redditi aziendali fossero destinati ad esigenze speculative o voluttuarie (e che la creditrice fosse di ciò consapevole).

Vige il principio di diritto, costantemente affermato dalla Corte di Cassazione, secondo il quale l’art. 170 c.c., nel disciplinare le condizioni di ammissibilità dell’esecuzione sui beni costituiti nel fondo patrimoniale, detta una regola applicabile anche all’iscrizione di ipoteca non volontaria, ivi compresa quella di cui all’art. 77 del D.P.R. n. 602 del 1973, sicché l’agente della riscossione può iscrivere ipoteca su beni appartenenti al coniuge o al terzo, conferiti nel fondo, se il debito sia stato da loro contratto per uno scopo non estraneo ai bisogni familiari, ovvero – nell’ipotesi contraria – purché il titolare del credito, per il quale l’agente della riscossione procede alla riscossione, non fosse a conoscenza di tale estraneità, dovendosi ritenere, diversamente, illegittima l’eventuale iscrizione comunque effettuata (Cass. 1552/2016; Cass. 20998/2018).

La Corte di Cassazione ha più volte stabilito che grava in capo al debitore opponente l’onere della prova non solo della regolare costituzione del fondo patrimoniale, e della sua opponibilità al creditore procedente, ma anche della circostanza che il debito sia stato contratto per scopi estranei alle necessità familiari, avuto riguardo al fatto generatore dell’obbligazione e a prescindere dalla natura della stessa (Cass. 20998/2018).

Si tratta di un giudizio di fatto non censurabile dalla Corte di Cassazione, posto che il principio di cui all’art. 2697 c.c. deve essere correttamente applicato e spetta al giudice di merito in via esclusiva (e salvo che si tratti di prova a valutazione legale) il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza (Cass. 16497/2019; Cass., ordinanza n. 5369 depositata il 27 febbraio 2020).

In merito alla affermazione che i debiti fiscali rientrerebbero “a pieno titolo” tra le spese necessarie alla famiglia, essa è in contrasto con quanto affermato dalla Corte di Cassazione in ordine al criterio identificativo dei debiti per i quali può avere luogo l’esecuzione sui beni del fondo patrimoniale.

Il predetto criterio va ricercato non già nella natura dell’obbligazione ma nella relazione tra il fatto generatore di essa e i bisogni della famiglia, e la predetta finalità non può dirsi sussistente per il solo fatto che il debito derivi dall’attività professionale o d’impresa, dovendosi accertare che l’obbligazione sia sorta per il soddisfacimento dei bisogni familiari e non per esigenze di natura voluttuaria o caratterizzate da interessi meramente speculativi (Cass. 3738/2015).

AVV. MAURIZIO VILLANI

RIFORMA DELLA GIUSTIZIA TRIBUTARIA NO ALLA CORTE DEI CONTI

Il Governo nella presentazione della riforma fiscale generale vuole inserire anche la delega per la riforma strutturale della giustizia tributaria, come riportato nell’articolo de Il Sole 24 Ore di sabato 15 c.m. in allegato.

Secondo le intenzioni governative, la giustizia tributaria dovrebbe essere gestita dalla Corte dei Conti e, per una sintesi delle differenti posizioni delle sei proposte di legge oggi in discussione presso le Commissioni Riunite Seconda e Sesta del Senato, il Governo ha deciso di creare un “tavolo tecnico ristretto”.

Non sono assolutamente d’accordo, come peraltro fatto presente da tutti gli Organismi Nazionali del settore tributario.

È bene sapere che il Codice di Giustizia Contabile (Decreto Legislativo n. 174 del 26 agosto 2016, adottato ai sensi dell’art. 20 della Legge n. 124 del 07 agosto 2015) prevede che la Corte dei Conti:

– ha giurisdizione nei giudizi di conto, di responsabilità amministrativa per danno all’erario e negli altri giudizi in materia di contabilità pubblica (art. 1, primo comma);

– sono organi di giurisdizione contabile di primo grado le sezioni giurisdizionali regionali, con sede nel capoluogo di regione (art. 9, primo comma);

– sono organi di giurisdizione contabile di secondo grado le sezioni giurisdizionali centrali di appello, con sede in Roma (art. 10, primo comma).

Dalla suddetta breve normativa risulta evidente che:

– la Corte dei Conti tutela prevalentemente gli interessi erariali, per cui è fortemente limitato il diritto di difesa del cittadino – contribuente (art. 24 della Costituzione);

– gli eventuali processi tributari si svolgeranno soltanto in due fasi presso le sedi regionali e presso la sede centrale di Roma, ed anche questo comprometterebbe seriamente il diritto di difesa del cittadino – contribuente, soprattutto per quanto riguarda i costi da sopportare;

– infine, ci potranno essere sensibili riduzioni tra i difensori legittimati alla difesa.

Invece, la Riforma Strutturale della Giustizia Tributaria, per essere seria e garante dei principi costituzionali, deve essere gestita, con tre gradi di giudizio, dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, con giudici professionali, a tempo pieno, vincitori di concorso pubblico e ben retribuiti, non come oggi a 15 euro nette a sentenza depositata e zero euro per le sospensive !!!!!

Presso le Commissioni Seconda e Sesta del Senato sono in discussione sei Disegni di Legge, tra cui il Disegno di Legge n. 1243/2019 della Lega, che ha ripreso integralmente il mio Progetto di Legge e che spero possa essere approvato definitivamente entro quest’anno per consentire al cittadino – contribuente ed a tutti gli attuali difensori tributari (nessuno escluso) di potersi difendere davanti a giudici terzi ed imparziali (art. 111, secondo comma, della Costituzione) presso i futuri Tribunali Tributari, le Corti di Appello Tributarie e la Corte di Cassazione (tre gradi di giudizio e mai due).

Infine, è opportuno che presso il “tavolo tecnico ristretto” che il Governo intende creare siano presenti i Professionisti del settore, attraverso gli Ordini e le Associazioni, per contrastare l’assegnazione alla Corte dei Conti.

LE SOCIETÀ DI COMODO

di Maurizio Villani

In merito alla speciale normativa fiscale delle società di comodo, la Corte di Cassazione ha stabilito importanti principi con varie sentenze.

Infatti, è stato chiarito che, in materia di società di comodo, i parametri previsti dall’art. 30 della legge n. 724 del 1994, nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’art. 35 del d.l. n. 223 del 2006, convertito nella legge n. 248 del 2006, sono fondati sulla correlazione tra il valore di determinati beni patrimoniali ed un livello minimo di ricavi e proventi, il cui mancato raggiungimento costituisce elemento sintomatico della natura non operativa della società, spettando, poi, al contribuente fornire la prova contraria e dimostrare l’esistenza di situazioni oggettive e straordinarie, specifiche ed indipendenti dalla sua volontà, che abbiano impedito il raggiungimento della soglia di operatività e di reddito minimo presunto (Cass., 21/10/2015, n. 21358).

[restrict userlevel=”editor”] E’ stato poi ulteriormente precisato che i parametri previsti dall’art. 30 della L. n. 724 del 1994, nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’art. 35 del d.l. n. 223 del 2006, convertito nella L. n. 248 del 2006, sono fondati sulla correlazione tra il valore di determinati beni patrimoniali ed un livello minimo di ricavi e proventi, sicché la determinazione dell’imponibile è effettuata sulla base di precisi criteri di legge, che escludono qualsiasi discrezionalità deduttiva, imponendosi in sede sia di accertamento, sia di determinazione giudiziale, salva la prova contraria da parte del contribuente (Cass., 05/07/2016, n. 13699).

L’ art. 30 della L. n. 724 del 1994 è stato, quindi, qualificato come una presunzione legale relativa, in base alla quale una società si considera “non operativa” se la somma di ricavi, incrementi di rimanenze e altri proventi (esclusi quelli straordinari) imputati nel conto economico è inferiore a un ricavo presunto, calcolato applicando determinati coefficienti percentuali al valore degli asset patrimoniali intestati alla società (cd. “test di operatività dei ricavi”), senza che abbiano rilievo le intenzioni e il comportamento dei soci, ma poi, al successivo comma 4-bis, consente la presentazione dell’istanza di interpello (chiedendo la disapplicazione delle disposizioni antielusive), in presenza di situazioni oggettive (ossia non dipendenti da una scelta consapevole dell’imprenditore), che abbiano reso impossibile raggiungere il volume minimo di ricavi o di reddito di cui al precedente comma 1.

Così rispondendo all’esigenza di dare piena attuazione al principio di capacità contributiva, di cui la disciplina antielusiva è espressione, lasciando nel contempo spazio al diritto di difesa del contribuente, sufficientemente garantito dagli strumenti del contraddittorio e dalla necessità di una motivazione puntuale della condotta elusiva nell’avviso di accertamento (Cass., 20/04/2018, n. 9852; ultimamente, Corte di Cassazione – Quinta Sezione Civile – Ordinanza n. 31626, depositata in cancelleria il 04/12/2019).

Ed è stato, peraltro, escluso che il meccanismo di determinazione presuntiva del reddito di cui all’art. 30 della L. n. 724 del 1994, superabile mediante prova contraria, si ponga in contrasto con il principio di proporzionalità, rispetto al quale, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (sentenza 13 marzo 2007, causa C-524/04) ha affermato che una normativa nazionale che si fondi sull’esame di elementi oggettivi e verificabili per stabilire se un’operazione consista in una costruzione di puro artificio ai soli fini fiscali, e quindi elusiva, va considerata come non eccedente quanto necessario per prevenire pratiche abusive, ove il contribuente sia messo in grado, senza oneri eccessivi, di dimostrare le eventuali ragioni commerciali che giustificano detta operazione (Cass., 20/06/2018, n. 16204).

Pertanto, la presunzione de qua, in ordine alla qualificazione della contribuente come non operativa ed alla conseguente determinazione del reddito minimo imponibile, trova la sua fonte direttamente nella norma applicata, per cui il giudice del merito, verificata la ricorrenza dei presupposti oggettivi valorizzati dal legislatore, non è tenuto ad illustrare ulteriori e diverse massime di esperienza che la sorreggessero.

L’applicabilità della presunzione legale di cui all’art. 30 della L. n. 724 del 1994 deriva necessariamente (fatta salva la possibilità di prova contraria) dal mancato superamento del cd. “test di operatività dei ricavi” e non è esclusa, di per sé sola, dalla circostanza che il contribuente, per esempio, svolge, nel rispetto del proprio statuto, attività di carattere indubbiamente commerciale, di natura alberghiera, per la quale ha ottenuto licenza e redige bilancio annuale.

Invero, il disposto della norma non consente discrezionalità deduttiva, né prende in considerazione la specie di attività esercitata dalla società non in linea con la correlazione – tra il valore di determinati beni patrimoniali ed un livello minimo di ricavi e proventi – dettata dal legislatore (salva, si ribadisce, la possibilità di interpello e prova contraria di cui al comma 4-bis del predetto art. 30).

Inoltre, deve considerarsi che, secondo l’orientamento della Corte di Cassazione, in materia di società di comodo, “l’impossibilità”, per situazioni oggettive di carattere straordinario, di conseguire il reddito presunto secondo il meccanismo di determinazione di cui all’art. 30 della L. n. 724 del 1994, la cui prova è a carico del contribuente, non va intesa in termini assoluti bensì economici, aventi riguardo alle effettive condizioni del mercato (Cass., 20/06/2018, n. 16204; Cass., 12/02/2019, n. 4019).

Le condizioni del mercato, quindi, costituiscono, nella fattispecie legale astratta, un fatto la cui allegazione e prova è sempre onere della contribuente.

Infine, la Corte di Cassazione ha già avuto modo di precisare che, in tema di accertamento fondato su studi di settore, la causa di esclusione della presunzione di non operatività delle società di mero godimento (cd. società di comodo) prevista dall’art. 30, comma 1, n. 6-sexies della L. n. 724 del 1994, è una norma sostanziale, idonea ad incidere direttamente sulla decisione di merito, sicché è priva di efficacia retroattiva (Cass., 17/07/2018, n. 18912).

Infatti, la causa di esclusione della congruità e coerenza delle società ai fini degli studi di settore, prevista dall’art. 30, comma 1, num. 6-sexies, introdotta dall’art. 1, comma 128, lett. c), della legge 24 dicembre 2006, n. 244, con effetto dall’1 gennaio 2008, non ha natura neppure latu sensu processuale. [/restrict] [register_form]

NOTIFICA DELLA CARTELLA DI PAGAMENTO A MEZZO PEC

Maurizio Villani

L’art. 26, comma secondo, del DPR n. 602 del 1973, come aggiunto dall’art. 38, comma 4, lettera b), del D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, prevede che la notifica della cartella di pagamento «può essere eseguita, con le modalità di cui al decreto del Presidente della Repubblica 11 febbraio 2005, n. 68, a mezzo posta elettronica certificata, all’indirizzo risultante dagli elenchi a tal fine previsti dalla legge. Tali elenchi sono consultabili, anche in via telematica, dagli agenti della riscossione. Non si applica l’articolo 149-bis del codice di procedura civile».

A sua volta, l’art. 1, lett. f), del DPR n. 68 del 2005, definisce il messaggio di posta elettronica certificata, come «un documento informatico composto dal testo del messaggio, dai dati di certificazione e dagli eventuali documenti informatici allegati».

La lett. i-ter), dell’art. 1 del CAD – inserita dall’art. 1, comma 1, lett. c), del D.Lgs. 30 dicembre 2010, n. 235 -, poi, definisce «copia per immagine su supporto informatico di documento analogico» come «il documento informatico avente contenuto e forma identici a quelli del documento analogico», mentre la lett. i-quinquies), dell’art. 1 del medesimo CAD – inserita dall’art. 1, comma 1, lett. c), del D.Lgs. 30 dicembre 2010, n. 235 -, nel definire il «duplicato informatico» parla di «documento informatico ottenuto mediante la memorizzazione, sullo stesso dispositivo o su dispositivi diversi, della medesima sequenza di valori binari del documento originario».

Dunque, alla luce della disciplina surriferita, la notifica della cartella di pagamento può avvenire, indifferentemente, sia allegando al messaggio PEC un documento informatico, che sia duplicato informatico dell’atto originario (il c.d. “atto nativo digitale”), sia mediante una copia per immagini su supporto informatico di documento in originale cartaceo (la c.d. “copia informatica”), come è avvenuto pacificamente in vari casi, dove il concessionario della riscossione ha provveduto ad inserire nel messaggio di posta elettronica certificata un documento informatico in formato PDF (portable document format) – cioè il noto formato di file usato per creare e trasmettere documenti, attraverso un software comunemente diffuso tra gli utenti telematici -, realizzato in precedenza mediante la copia per immagini di una cartella di pagamento composta in origine su carta (in tal senso, ultimamente, ordinanza n. 30948 della Corte di Cassazione – Quinta Sezione Civile -, depositata in cancelleria il 27 novembre 2019).

Va esclusa, allora, la denunciata illegittimità della notifica della cartella di pagamento eseguita a mezzo posta elettronica certificata, per la decisiva ragione che era nella sicura facoltà del notificante allegare, al messaggio trasmesso via PEC, un documento informatico realizzato in forma di copia per immagini di un documento in origine analogico.

Inoltre, nessuna norma di legge impone che la copia su supporto informatico della cartella di pagamento in origine cartacea, notificata dall’agente della riscossione tramite PEC, sia poi sottoscritta con firma digitale.

Può soggiungersi, per completezza, che ai sensi dell’art. 22, comma 3, del CAD – come modificato dall’art. 66, comma 1, del D.Lgs. 13 dicembre 2017, n. 217 – «Le copie per immagine su supporto informatico di documenti originali formati in origine su supporto analogico nel rispetto delle linee guida hanno la stessa efficacia probatoria degli originali da cui sono tratte se la loro conformità all’originale non è espressamente disconosciuta».

Infine, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affermato che l’irritualità della notificazione di un atto a mezzo di posta elettronica certificata non ne comporta la nullità se la consegna in via telematica dell’atto ha comunque prodotto il risultato della sua conoscenza e determinato così il raggiungimento dello scopo legale (Cass. S.U. 28/09/2018, n. 23620; Cass. S.U. 18/04/2016, n. 7665).

E proprio con riferimento alla notifica di una cartella di pagamento, si è chiarito che la natura sostanziale e non processuale dell’atto non osta all’applicazione di istituti appartenenti al diritto processuale, soprattutto quando vi sia un espresso richiamo di questi nella disciplina tributaria; sicché il rinvio operato dall’art. 26, comma 5, del d.p.r. n. 602 del 1973, all’art. 60 del d.p.r. n. 600 del 1973, il quale, a sua volta, rinvia alle norme sulle notificazioni nel processo civile, comporta, in caso di irritualità della notificazione della cartella di pagamento, l’applicazione dell’istituto della sanatoria del vizio dell’atto per raggiungimento dello scopo ai sensi dell’art. 156 c.p.c. (Cass. 05/03/2019, n. 6417).

IL TERMINE PER IL DEPOSITO DEL CONDONO FISCALE E’ ORDINATORIO

avv. Maurizio Villani

Secondo la costante prassi della Corte di Cassazione, la mera circostanza della presentazione della documentazione di sanatoria oltre il termine del 10 giugno 2019, previsto dal comma 10 dell’art. 6 del D.L. n. 119 del 2018, non costituisce ragione sufficiente per il rifiuto della sospensione richiesta.

Da questo indirizzo si è discostata la recente ordinanza n. 28493 della Sezione 6-5 della Corte di Cassazione, depositata in data 6 novembre 2019, che decidendo su ricorso per Cassazione del contribuente avverso sentenza della Commissione Tributaria Regionale che aveva accolto l’appello dell’Amministrazione finanziaria, confermando l’avviso di accertamento volto al recupero di imposte dirette e di I.V.A. ha respinto l’istanza di sospensione pervenuta via posta presso la Cancelleria in data 11 giugno 2019, ritenendo che «per espressa previsione di legge, al fine di ottenere l’effetto sospensivo exart. 6 D.L. 119 del 2018 sino al 31 dicembre 2020, deve essere depositata avanti l’autorità giudiziaria avanti alla quale pende il processo la copia della domanda di definizione e del versamento, entro il termine perentorio del 10.6.2019».

Si impone, quindi, di verificare se il mancato rispetto del termine del 10 giugno 2019 previsto dal comma 10 dell’art. 6 del D.L. n. 119 del 2018 sia ostativo all’accoglimento delle istanze di sospensione.

La soluzione di tale questione richiede di valutare se il termine previsto per il deposito dell’istanza di sospensione presso l’organo giurisdizionale innanzi al quale pende la controversia abbia natura perentoria o, piuttosto, ordinatoria.

Costituisce principio generale, derivante da quello di legalità, che i termini stabiliti dalla legge sono di principio ordinatori, salvo che la legge stessa espressamente li dichiari perentori o colleghi esplicitamente al loro decorso un qualche effetto decadenziale o comunque restrittivo (Cons. Stato, sez. VI, 13/3/2013, n. 1511; Cons. Stato 7/7/2014, n. 3431).

Tale principio trova sicura applicazione nel diritto pubblico sia nell’ambito dei poteri dell’amministrazione (Cons. Stato sez. V, 23/4/1982, n. 304, sui poteri sostitutivi in materia urbanistica), sia nell’ambito di procedimenti diretti ad ottenere provvedimenti espansivi ed accrescitivi della posizione giuridica del soggetto privato (Cons. Stato, sez. III, 26/5/2016, n. 2230, in tema di rinnovo del permesso di soggiorno).

Anche nel diritto tributario, che dal diritto pubblico mutua taluni aspetti regolatori in assenza di specifiche disposizioni, valgono i medesimi principi, sia riguardo all’azione del fisco presidiata dai principi costituzionali di capacità contributiva e buona amministrazione (Cass. sez. V, 5/10/2012, n. 17002 e Cass. 6-5, ord. 27/4/2017, n. 10481, sul termine di permanenza degli operatori civili o militari dell’amministrazione finanziaria presso la sede del contribuente; Cass. sez. V, 3/4/2013, n. 8055 e Cass. Sez. U., 12/11/2004, n. 21498, sul termine annuale per rettifica cd. formale; Cass. sez. V, 30/6/2010, n. 15542 e Cass. sez. 6-5, ord. 19/3/2014, n. 6411, sulla trasmissione del certificato catastale attestante l’avvenuta iscrizione con attribuzione di rendita), sia riguardo alla posizione del contribuente.

Infatti, in materia tributaria, in mancanza di un’esplicita previsione, il termine normativamente stabilito per il compimento di un atto ha efficacia meramente ordinatoria ed esortativa o acceleratoria, cioè costituisce un invito a non indugiare, e l’atto può essere compiuto dall’interessato o dalla stessa Amministrazione fino a quando ciò non venga altrimenti precluso (Cass., sez. 5, 8/05/2013, n. 10761).

Ciò vale a maggior ragione riguardo alla posizione del contribuente in tema di condono fiscale, laddove è ancor più evidente il favordel legislatore per la definizione agevolata, il quale postula una valutazione non già letterale e formalistica, ma sostanziale della domanda, ossia l’individuazione degli effetti che il contribuente abbia inteso conseguire (Cass., sez. 5, 22/1/2007, n. 1289; Cass, sez. 5, 17/5/2006, n. 11570).

Alla luce delle considerazioni che precedono, appare manifesta la necessità di approfondire il significato da attribuire alle regole dettate dal comma 10 dell’art. 6 citato, il quale prevede, al primo periodo, che «le controversie definibili non sono sospese, salvo che il contribuente faccia apposita richiesta al giudice, dichiarando di volersi avvalere delle disposizioni del presente articolo. In tal caso il processo è sospeso fino al 10 giugno 2019» e, al secondo periodo, che «Se entro tale data il contribuente deposita presso l’organo giurisdizionale innanzi al quale pende la controversia copia della domanda di definizione e del versamento degli importi dovuti o della prima rata, il processo resta sospeso fino al 31 dicembre 2020».

Va in proposito osservato che il termine del 10 giugno 2019 ha natura processuale, in quanto volto a fissare il momento entro il quale si può presentare l’istanza all’organo giurisdizionale dinanzi al quale pende la controversia al fine di ottenere la sospensione del processo, sicché ad esso si applica il secondo comma dell’art. 152 cod. proc. civ., secondo il quale «i termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, tranne che la legge stessa li dichiari espressamente perentori».

In mancanza di una espressa disposizione che lo dichiari perentorio, il termine normativamente fissato per il compimento di un atto ha natura ordinatoria, quale invito a non indugiare, e il suo mancato rispetto non comporta alcuna decadenza e non impedisce che l’atto possa essere compiuto fino a quando ciò non venga precluso altrimenti.

Nella fattispecie sospensiva in esame, mancando una esplicita previsione, lo spirare del termine del 10 giugno 2019 non determina la decadenza del contribuente dalla facoltà di chiedere la sospensione del processo, in quanto ogni decadenza, anche in materia processuale, deve essere testuale ed essere espressamente sancita dalla legge (analogamente a quanto previsto da Cass. sez. L, 23/11/2012, n. 20777, sui termini di cui all’art. 327 cod. proc. civ.; da Cass. sez. III, 18/4/2011, n. 8857, sul termine di cui all’art. 588 cod. proc. civ.; da Cass. sez. III, 29/11/2005, n. 26039, sul termine di cui all’art. 415, comma 4, cod. proc. civ.).

In tal senso, ultimamente, si è pronunciata la Corte di Cassazione – Quinta Sezione Civile – con l’ordinanza interlocutoria n. 29790 depositata in cancelleria il 15/11/2019.

Peraltro, l’effetto sospensivo deriva dalla legge e non abbisogna di una scelta provvedimentale, dovendo il giudice limitarsi a prendere atto dell’istanza avanzata dal contribuente.

Ciò in quanto la funzione della sospensione è quella di raccordare la procedura amministrativa di definizione agevolata della lite con quella processuale pendente, posto che, da una parte, permette al contribuente di evitare di venirsi a trovare in una situazione pregiudizievole nel processo pendente e di ottenere il tempestivo disbrigo della relativa procedura dinanzi agli uffici giudiziari e, dall’altra, all’Amministrazione finanziaria di poter svolgere l’attività istruttoria necessaria ai fini delle successive determinazioni sulla domanda di definizione presentata dal contribuente (dovendo l’Agenzia delle Entrate entro il 31 luglio 2020 notificare al contribuente l’eventuale diniego della definizione agevolata nel caso in cui ritenga la controversia non definibile o comunque non valida la definizione per insufficiente versamento dell’importo dovuto).

La sospensione, in sostanza, svolge una funzione «protettiva» e non «preclusiva», dato che assolve all’esigenza di avere uno stato di temporanea quiescenza del processo in attesa della definizione della procedura amministrativa che presuppone la non prosecuzione medio temporedell’ordinario svolgimento dell’attività processuale.

Tale finalità trova giustificazione nel normale intento del legislatore di favorire l’estinzione del processo a seguito della sanatoria intervenuta nelle more del giudizio ed è strettamente connessa ai riflessi di ordine pubblico nascenti dalla legge di condono, che, derogando alla pretesa impositiva, stabilisce un sistema d’imposizione diversificato per quelle esigenze di salvaguardia di regolarità e speditezza del gettito ritenute meritevoli di tutela anche dalla Corte Costituzionale (Cass. Sez. U, 27/1/2016, n. 1518, sulla rilevabilità d’ufficio della sanatoria fiscale).

Il calcolo del valore della rendita vitalizia ai fini dell’imposta di registro è illogico e arbitrario: i dubbi di costituzionalità

Maurizio Villani Lucia Morciano

Sommario

  1. La norma di riferimento
  2. La rendita vitalizia
  3. L’usufrutto vitalizio
  4. Illegittimi e arbitrari i coefficienti per il calcolo del valore della rendita vitalizia del prospetto allegato al TUR.
    1. L’illegittimità costituzionale dell’art. 46, comma 2, lett. c) del D.P.R. n. 131/1986, in relazione agli articoli 3 e 53 della Costituzione.
    2. L’illegittimità costituzionale dell’art. 46, comma 2, lett. c) del D.P.R. n. 131/1986  in relazione all’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui fa riferimento e rinvia al prospetto allegato al TUR, in violazione del principio di uguaglianza e di ragionevolezza.

1. La norma di riferimento
Il dato normativo di riferimento per il calcolo del valore della base imponibile ai fini dell’imposta di registro è l’art. 46 D.P.R. n.131/1986(  TUIR).

Precisamente, al comma 1, l’art. 46 citato prevede che la base imponibile degli atti costitutivi di rendite è costituita dalla somma pagata o dal valore dei beni ceduti dal beneficiario ovvero, se maggiore, dal valore della rendita”.

Invece, il comma 2 statuisce come si determina il secondo termine del confronto richiesto dal comma precedente (ovvero il “valore della rendita”), prevedendo tre casi differenti:

1) quello della rendita perpetua;

2) quello della rendita a tempo determinato;

3) quello della rendita vitalizia.

Nel contributo de quo, appare opportuno soffermarsi sul caso d’irrazionalità più rilevante, ovvero quello relativo al calcolo del “valore della rendita” nel caso di rendita vitalizia, poiché il parametro utilizzato (lo stesso per l’usufrutto vitalizio) e la nebulosità del calcolo fanno emergere dei profili d’incostituzionalità.

Giova a questo punto, dapprima dare definizione agli istituti della rendita vitalizia e dell’usufrutto vitalizio.

2. La rendita vitalizia

La rendita vitalizia è disciplinata dall’art. 1872 c.c. che, individuandone i modi di costituzione, distingue la rendita costituita a titolo oneroso da quella a titolo gratuito, in modo simile alla rendita perpetua. Orbene, “la rendita vitalizia può essere costituita a titolo oneroso, mediante alienazione di un bene mobile o immobile, o mediante cessione di un capitale.
La rendita vitalizia può essere costituita anche per donazione o per testamento, e in questo caso si osservano le norme stabilite dalla legge per tali atti”
.

Pertanto, anche il succitato tipo di rendita è di due tipi: tipica e atipica. La prima, quando la fattispecie è tipizzata dal codice civile o da un’altra fonte legislativa; di converso, la rendita atipica non è contemplata in alcun modo dal codice o altra fonte normativa.

Per quanto riguarda la natura della rendita si afferma che è un contratto consensuale, a prestazioni corrispettive, di scambio e di durata e indubbio è anche il carattere personale del diritto del vitaliziato.

Quando il vitaliziante non riceve alcuna controprestazione abbiamo un contratto a titolo gratuito. In alcuni casi il vitaliziato riceve una rendita molto inferiore al reddito che si ricaverebbe dal cespite ceduto; in tal caso, avremo un negotium mixtum cum donatione, oneroso per quanto concerne lo scambio delle prestazioni e, invece, gratuito per quella parte di prestazione del vitaliziante che eccede il valore di quella del vitaliziato.

A differenza della rendita perpetua, quella vitalizia onerosa è considerata da parte della dottrina e dalla prevalente giurisprudenza un contratto aleatorio; difatti, poiché la prestazione è commisurata alla vita di una persona rende impossibile sapere a quanto ammonterà la somma finale versata dal debitore e, quindi, rende impossibile prevedere in anticipo quale contraente riceverà un vantaggio economico dall’operazione. Di converso, quando la rendita è a titolo gratuito il debitore sa già in anticipo che subirà un depauperamento, essendo incerto solo l’effettivo ammontare della somma che verserà; di conseguenza, tale contratto non ha natura aleatoria.

In riferimento all’oggetto della rendita appare opportuno fare un distinguo tra la prestazione del vitaliziato e quella del vitaliziante.

La prestazione del vitaliziante è un diritto di credito classificato come frutto civile (art. 820 comma 3).

L’oggetto di essa può consistere in denaro o altre cose fungibili. Si ammette che possa avere ad oggetto una quota dei frutti del fondo alienato, oppure di altro di fondo ben determinato.

La prestazione del vitaliziato può consistere nella cessione di un bene mobile immobile, o nella cessione di un capitale.

Si ritiene che, oltre al trasferimento della proprietà, sia idoneo anche il trasferimento di un diritto reale limitato o il trasferimento del diritto patrimoniale d’autore. Qualora il vitaliziato ceda un diritto personale di godimento si configura, invece, un contratto atipico.

In riferimento alla forma di tale contratto è richiesta la forma scritta a pena di nullità (art. 1350 n° 10 c.c.).

Ovviamente, al contrario, sarà necessaria una forma diversa se la fonte della rendita richiede particolari requisiti formali (come accade per la donazione o il testamento).

Si precisa, inoltre, che che la rendita vitalizia costituita a favore di un terzo, quantunque importi per questo una liberalità, non richiede le forme stabilite per la donazione (art. 1875 c.c.)

La durata della rendita può essere commisurata alla durata della vita del beneficiario o di altra persona (art. 1873 c.c.). Essa può costituirsi, anche, per la durata della vita di più persone” (articolo 1873) e, in tal caso, abbiamo la cosiddetta rendita congiuntiva. Nella rendita congiuntiva la durata è commisurata a quella delle persona che risulterà più longeva; una particolarità di tale tipo di rendita è che alla morte di uno dei beneficiari sussiste il diritto di accrescimento nei confronti degli altri (salvo patto contrario: art. 1874).

Se la rendita è commisurata alla durata della vita di una persona non nata,il contratto si considera sottoposto alla condizione sospensiva della nascita.

Se manca l’indicazione della persona a cui ci si deve riferire per la durata del contratto, taluno sostiene che la rendita sarebbe nulla per mancanza di un elemento essenziale; altra parte della dottrina, al contrario, osserva che, in tal caso, si applica il principio di conservazione del contratto e, quindi, si dovrà presumere che la durata della rendita sia riferita alla vita del beneficiario.

L’articolo 1876 c.c. stabilisce che: “Il contratto è nullo se la rendita è costituita per la durata della vita di una persona che, al tempo del contratto aveva già cessato di vivere”.

Nonostante qualche opinione contraria, non sembra debba ammettersi il vitalizio successivo, per il divieto della sostituzione fedecommissaria (art. 698); di conseguenza, alla morte del testatore la rendita avrà effetto solo a favore di coloro che sono i primi chiamati. La norma è applicabile solo alle disposizioni mortis causa, mentre sarebbe ammissibile il vitalizio successivo costituito per atto inter vivos.

La vita contemplata non può essere quella di una persona giuridica; ciò non esclude che una persona giuridica possa stipulare un contratto di rendita in qualità di vitaliziato o vitaliziante, purché, però, la vita contemplata cui commisurare la rendita sia quella di una persona fisica.

Il pagamento della rendita è dovuto al creditore in proporzione al numero dei giorni vissuti da colui sulla vita del quale è costituita.

Se, di converso, è stato convenuto di pagarla a rate anticipate, ciascuna rata si acquista dal giorno in cui è scaduta (art. 1880 c.c.).

Tale norma è considerata derogabile e, pertanto, le parti possono stabilire modalità diverse di pagamento.

3. L’usufrutto vitalizio

L’usufrutto è un diritto reale e, in particolare, un diritto reale limitato che convive assieme ad un distinto diritto di proprietà su un bene determinato.

Per usufrutto s’ intende il diritto di godere di un bene rispettandone la destinazione economica.

Il codice civile, all’articolo 981, cita: “L’usufruttuario ha diritto di godere della cosa, ma deve rispettarne la destinazione economica. Egli può trarre dalla cosa ogni utilità che questa può dare, fermi i limiti stabiliti in questo capo”.

Non c’è, quindi, una vera e propria definizione di usufrutto, piuttosto la relazione dei diritti dell’usufruttuario.

L’usufrutto vitalizio è, dunque, un istituto di legge che consente di godere della proprietà altrui o, in altre parole, il diritto di utilizzare un bene determinato come se fosse proprio, fino alla fine naturale della vita.

In sostanza l’usufruttuario può godere del bene, e trarne ogni tipo di utilità, secondo la lettera della legge.

L’usufruttuario può utilizzare la cosa, sia che si tratti di una casa (per esempio, sfruttandone il canone di locazione) sia che si tratti di un altro bene (per esempio un campo del quale egli coltiva e utilizza o vende i frutti); ossia, l’usufruttuario gode dei frutti civili e/o naturali del bene.

L’usufrutto può costituirsi per legge; per esempio, l’usufrutto legale sui beni dei figli da parte dei genitori (purché utilizzati per il mantenimento della famiglia).

Si ha, inoltre, l’usufrutto per usucapione, in questo caso si tratta di un acquisto a titolo originario, oppure l’usufrutto per volontà dell’uomo.

L’usufrutto per volontà umana è sicuramente quello più frequente, che si ha qualora un soggetto trasferisca l’usufrutto del bene tramite contratto o tramite testamento. L’usufrutto vitalizio può quindi costituirsi anche per successione.

Come abbiamo detto, il trasferimento dell’usufrutto a un soggetto lascia in capo al proprietario del bene la mera “nuda proprietà”.

Anche laddove costituito per testamento, l’usufrutto vitalizio ha necessariamente durata temporanea: non può, quindi, superare la durata della vita dell’usufruttuario altrimenti, in buona sostanza, il proprietario perderebbe ogni diritto in assoluto di trarre utilità dal bene.

Il de cuius potrà, quindi, aver fissato nel testamento un termine per l’usufrutto; se non l’ha fatto, e parliamo allora di usufrutto vitalizio, al termine della vita dell’usufruttuario tale diritto reale si estingue necessariamente.

Per successione, l’usufrutto può anche essere costituito a favore di più soggetti, cosa che spesso viene specificata nel testamento stesso.

Laddove con la morte di colui che abbia costituito testamento venga a crearsi un diritto di usufrutto in capo a un soggetto, giova sottolineare che il diritto di usufrutto è soggetto a tassazione indiretta.

4. Illegittimi e arbitrari i coefficienti per il calcolo del valore della rendita vitalizia del prospetto allegato al TUR.

Come anzidetto, l’art. 46, co. 2, lett. c) del TUR stabilisce che il valore della rendita si determina, in questo caso, “moltiplicando l’annualità» per il coefficiente indicato nel prospetto allegato al testo unico «applicabile in relazione all’età della persona alla cui morte la rendita deve cessare”.

Precisamente, il prospetto allegato al Testo Unico citato rappresenta un rinvio operato da parte dell’art. 46, co. 2, lett. c) ed è il complesso di questa disciplina (costituita dalla norma richiamante e dal prospetto richiamato) che appare censurabile per i motivi che verranno di seguito esposti.

Appare opportuno mettere in evidenza che nessuna norma stabilisce esplicitamente come il “prospetto” debba essere elaborato; a ogni buon conto, esistono due elementi rilevanti a tal proposito.

Il primo elemento, di carattere meramente logico, attiene al fatto che il valore della rendita non può essere altro che il risultato di due elementi: 1) la stima del numero di annualità che, in relazione all’aspettativa di vita di colui alla cui morte la rendita cessa, il beneficiario della rendita avrà verosimilmente diritto ad avere; 2) la differenza esistente fra la percezione immediata di una somma (quello che si definisce “valore presente”) e la sua percezione in futuro.

Per quanto riguarda il primo elemento, dovrebbe essere di lettura immediata il fatto che per stimare la differenza fra valore presente e valore futuro si deve utilizzare un metodo tale per cui si riconduce al momento presente (ossia quello in cui si effettua la valutazione) un certo numero di pagamenti futuri.

Tale     criterio trova   conferma nel secondo elemento cui si faceva cenno e ha, di converso, rilevanza normativa.

L’art. 46, co. 2, lett. b) pone come criterio di determinazione della rendita a tempo determinato “il valore attuale” dell’annualità. Tale norma fa, infatti, espresso riferimento alla formula matematica dell’attualizzazione la quale costituisce proprio il metodo matematico utilizzato per ricondurre al momento presente una serie di N pagamenti futuri effettuati a intervalli costanti.

Pertanto, se si tiene in considerazione l’elemento logico e quello normativo summenzionati, si dovrebbe concludere che il “prospetto” sulla cui base si deve determinare il valore presente della serie di annualità future dovrebbe riflettere puntualmente la formula matematica dell’attualizzazione.

Giova, a tal proposito, mettere in evidenza che il problema dell’intellegibilità degli algoritmi è stato affrontato di recente anche dal Presidente nazionale ANTI, Prof. Ragucci, che ha ribadito che l’esercizio effettivo del diritto di difesa è legato alla possibilità di vagliare gli algoritmi.

Questo problema non è oramai futuribile e, difatti, recentemente è stato soggetto al vaglio del Consiglio di Stato con una recente sentenza, la n. 2370/2019.

Nella suddetta pronuncia, i giudici di legittimità hanno precisato che il procedimento amministrativo deve essere caratterizzato dal principio della trasparenza e deve essere analizzabile in fase di giudizio, anche quando sia basato sull’uso di un algoritmo (nel caso esaminato dal Consiglio di Stato la quaestio iuris attiene a una selezione pubblica di docenti fatta attraverso software).

Quanto detto, si attaglia anche al caso in questione, in materia del calcolo attuariale per la determinazione del coefficiente indicato nel citato prospetto allegato per il calcolo dell’imposta di registro per la rendita vitalizia, che non è evincibile e che non permette di esercitare in maniera adeguata il diritto di difesa.

Alla luce di tali considerazioni, occorre analizzare le due questioni di legittimità costituzionale dell’art. dell’art. 46, comma 2, lett. c) del D.P.R. n. 131/1986.

4.1 L’illegittimità costituzionale dell’art. 46, comma 2, lett. c) del D.P.R. n. 131/1986, in relazione agli articoli 3 e 53 della Costituzione.

L’art. 46, comma 2, lett. c) del D.P.R. n. 131/1986 è una norma incostituzionale, in quanto viola gli articoli 3 e 53 della Costituzione, nella misura in cui subordina il calcolo della base imponibile a un coefficiente, applicabile in funzione della sola età e, quindi, alle aspettative di vita legate alla stessa.

Orbene, tanto:

  • crea un’ingiustificata disparità di trattamento fiscale tra contribuenti che versano in uno stato di salute “normale” e contribuenti per i quali, invece, è stata accertata una lesione dell’integrità psicofisica grave (a esempio del 90%) e che, indubbiamente, non possono avere le stesse aspettative di vita, in palese violazione del principio di uguaglianza costituzionalmente garantito dall’art. 3 della Costituzione;
  • prescinde dall’effettiva capacità contributiva, di cui all’art. 53, data la non corrispondenza tra i valori determinati dal suddetto coefficiente e quelli reali, ad esempio, per una persona affetta da una grave lesione all’integrità psicofisica, legati all’aspettativa di vita di 10-12 anni, accertata dal CTU in sede di giudizio civile.

4.2 L’illegittimità costituzionaledell’art. 46, comma 2, lett. c) del D.P.R. n. 131/1986 in relazione all’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui fa riferimento e rinvia al prospetto allegato al TUR, in violazione del principio di uguaglianza e di ragionevolezza.

A ciò si aggiunga, altresì, che l’art. 46, comma 2, lett. c) del TUR, nella parte in cui fa riferimento e rinvia al prospetto allegato al TUR, viola ulteriormente l’art. 3 della Costituzione, sotto il profilo sia del principio di eguaglianza, sia del principio di ragionevolezza.

Per quanto attiene al principio di eguaglianza, si rileva come del tutto irragionevolmente il prospetto allegato al TUR, a cui fa espresso rinvio l’art. 46 citato, che stabilisce i coefficienti da utilizzare per il calcolo del valore della rendita vitalizia, viene preso a riferimento anche dal successivo art. 48 in relazione al calcolo dell’usufrutto vitalizio, con la conseguenza che vengono considerate uguali e disciplinate allo stesso modo due situazioni completamente diverse tra loro.

Al riguardo, peraltro, non è dato comprendere come il legislatore abbia ritenuto di utilizzare un identico prospetto sia per il calcolo della rendita vitalizia sia per il calcolo dell’usufrutto vitalizio, tenuto conto che sono innegabilmente differenti i punti di partenza da cui si deve muovere per giungere a determinare il valore dell’imponibile da sottoporre a tassazione, ovvero:

  • nel caso dell’usufrutto vitalizio, al valore imponibile si giunge partendo dal valore del capitale (vale a dire dal valore del bene sul quale l’usufrutto è impresso);
  • nel caso della rendita vitalizia, al valore imponibile si giunge partendo dal valore della rendita periodicamente dovuta e operando la sua capitalizzazione mediante la sua attualizzazione.

Ebbene, se si parte dal valore del capitale (e cioè dal valore del bene che dall’usufrutto viene gravato), per ricavare il valore dell’usufrutto vitalizio su detto capitale, il “prospetto” allegato al T.U.R., attualmente vigente, che si prende ad esempio e che di seguito si riporta, funziona abbastanza bene.

Età Coefficiente
0-20 317,50
21-30 300
31-40 282,50
41-45 265
46-50 247,50
51-53 230
54-56 212,50
57-60 195
61-63 177,50
64-66 160
67-69 142,50
70-72 125
73-75 107,50
76-78 90
79-82 72,50
83-86 55
87-92 37,50
93-99 20

Ed infatti, dato un capitale di euro 500.000:

  • l’usufrutto vitalizio di un 50enne è pari a euro (500.000 x 0,30 x 247,50 =) 371.250 (contro un valore di nuda proprietà pari a euro 128.750);
  • l’usufrutto vitalizio di un 60enne è pari a euro (500.000 x 0,30 x 195=) 292.500 (contro un valore di nuda proprietà pari a euro 128.750);
  • l’usufrutto vitalizio di un 70enne è pari a euro (500.000 x 0,30 x 125 =) 187.500 (contro un valore di nuda proprietà pari a euro 312.500); mentre, se si ragiona “al contrario”, ovvero si parte dal valore della rendita che approssimativamente si può ricavare dividendo il valore dell’usufrutto per il numero di anni di presunta permanenza in vita dell’usufruttuario (371.250:50; 292.550:40; e 187.500:30), ipotizzandolo longevo fino a 100 anni, si ha che l’imponibile diventa assurdamente pari a :
  • euro 7.425 x 247,50 = 1.837.687,50 nel caso del vitaliziando 50enne;
  • euro 7.314 x 195 = 1.426.230 nel caso del vitaliziando 60enne;
  • euro 6.250 x 125 = 781.250 nel caso del vitaliziando 70enne.

Orbene, i coefficienti di moltiplicazione, così come previsti nel prospetto allegato al Testo Unico dell’imposta di registro, mentre appaiono accettabili nel momento in cui si tratta di calcolare il valore dell’usufrutto vitalizio, viceversa appaiono completamente illegittimi, per illogicità ed arbitrarietà, quando si tratta di calcolare il valore della rendita vitalizia.

Parimenti, l’irragionevolezza e l’irrazionalità dei coefficienti di calcolo, previsti dal suddetto prospetto, appare evidente se gli stessi vengono applicati per il calcolo della rendita a tempo determinato piuttosto che per il calcolo della rendita vitalizia.

Invero, applicando le regole di determinazione della base imponibile della rendita a tempo determinato (una rendita annua di euro 10.000 vale – ipotizzando la vigenza del tasso di interesse legale dello 0,30% [10.000 x 9,837=] euro 98.370se dura 10 anni; [10.000 x 19,384=] euro 193.384 se dura 20 anni e [10.000 x 28,649=] euro 286.490 se dura 30 anni) fuoriescono valori imponibili che, anche “a prima vista”, appaiono senz’altro plausibili, invece applicando le regole che la legge impone per il calcolo della rendita vitalizia fuoriescono risultati assolutamente inspiegabili.

Ed infatti, ipotizzando un’annualità di euro 10.0000, il valore imponibile della rendita vitalizia è pari: a (10.000 x 247,50 =) euro 2.475.000, se il vitaliziato sia 50enne, a (10.000 x 195=) euro 1.950.000, se il vitaliziato sia 60enne, a (10.000 x 125=) euro 1.250.000, se il vitaliziato sia 70enne.

Paradossalmente, una rendita annua di euro 10.000 costituita per 40 anni a favore di un 70enne vale invece (10.000 x 37,640=) euro 376.400.

Alla luce di tanto, è indiscutibile come non sia dato comprendere in che modo vengano stabiliti i coefficienti di moltiplicazione, soprattutto per quanto attiene al calcolo della rendita vitalizia.

Pertanto, sulla base di quanto sopra rilevato, tale calcolo è illogico e irrazionale e contrasta con l’articolo 3 della Costituzione.

“ROTTAMAZIONE-TER”: RIAPERTURA DEI TERMINI PER CHI E’ RIMASTO ESCLUSO

di Maurizio Villani e Federica Attanasi

La bozza di decreto legge fiscale (ancora in fase di definizione) approvata dal Governo, ha riaperto i termini per aderire alla “rottamazione-ter” delle cartelle e per pagare la prima (o unica) rata già scaduta lo scorso luglio.
Di fatto, la norma sposta dal 31 luglio al 30 novembre la data per il primo versamento (per chi ha scelto di pagare a rate) o per il saldo (per chi ha optato per il pagamento in un’unica soluzione). La rimessione in termini riguarda anche i soggetti che avevano presentato istanza di rottamazione-bis rimanendo poi inadempienti.

  1. Premessa

L’art. 36 della bozza di decreto legge fiscale, ha riaperto i termini della rottamazione 3.0. Il testo della norma in esame prevede, infatti, che il debitore rimasto escluso per non aver assolto al pagamento della prima rata prevista per lo scorso 31 luglio, possa ancora aderire alla terza edizione della rottamazione ottemperando al pagamento entro il prossimo 30 novembre. Sono ammessi anche tutti coloro i quali abbiano presentato istanza di rottamazione-bis, senza poi provvedere al pagamento nei termini.

In buona sostanza, la disposizione in commento parifica la totalità dei debitori che versano nelle situazioni anzidette, fissando per tutti il termine di pagamento della prima o unica rata al 30 novembre 2019.

Tuttavia, la disciplina di fondo resta quella originaria, pertanto dalla riapertura dei termini continuano a risultare esclusi i ruoli affidati all’agente della riscossione successivamente al 31 dicembre 2017.

  • “Rottamazione-ter”: disciplina generale.

Al fine di operare un’accurata analisi dell’argomento in esame, occorre inquadrare la disciplina di fondo della sanatoria e chiarire, in primis, che l’art. 3 del D.L. n. 119/2018 (convertito con modifiche in legge 17/12/2018, n. 136 – G.U. n. 293 del 18 dicembre 2018), ha riproposto in un’ottica generale di “pacificazione fiscale”, la terza edizione della c.d. “rottamazione” delle cartelle.

Il provvedimento, sulla falsa riga delle precedenti edizioni (disciplinate dall’art. 6, D.L. n. 193/2016 e dall’art. 1, D.L. n. 148/2017), ha previsto la possibilità di definire i carichi affidati all’agente della riscossione nel periodo compreso tra il 2000 e il 2017. Di fatto, è stata riproposta anche in questo caso la possibilità di provvedere all’estinzione di un proprio debito con il Fisco, senza dover versare al contempo gli importi relativi alle sanzioni e agli interessi di mora.

Una delle novità di maggior rilievo è da rinvenirsi nella tempistica dei versamenti delle somme dovute; il decreto legge n. 119/2018 ha, infatti, previsto un numero massimo di 18 rate (per un massimo di cinque annualità) da versare:

  • le prime due (pari ciascuna al 10%) entro il 31 luglio e il 30 novembre 2019;
  • le restanti 16, di pari importo, scadenti il 28 febbraio, il 31 maggio, il 31 luglio e il 30 novembre di ciascun anno a decorrere dal 2020.

Il tasso di interesse per fruire della dilazione è stato fissato nella misura del 2% annuo, calcolato a partire dal 1° agosto 2019.

Inoltre, nel caso di pagamento tardivo, è stata prevista al massimo una tolleranza di cinque giorni; si tratta della c.d. misura del “lieve inadempimento”, in base alla quale la sanatoria continuerà a ritenersi efficace, solo laddove il ritardo nel pagamento delle rate non superi i 5 giorni.

  • Bozza di decreto fiscale e la riapertura dei termini.

Come noto, il 30 aprile 2019 è scaduto il termine ultimo per aderire alla “rottamazione-ter” delle cartelle e il 31 luglio è scaduto il termine per provvedere al pagamento della prima o unica rata.

A ogni modo, per la terza versione della rottamazione, la procedura di adesione non è realmente spirata.

Come già rilevato in premessa, l’art. 36 della bozza del decreto fiscale (ancora in fase di definizione), ha riaperto i termini per accedere alla sanatoria de qua.

Più nel dettaglio, l’art. 36 cit. ha, di fatto, disposto la “Riapertura del termine di pagamento della prima rata della definizione agevolata di cui all’articolo 3 del decreto-legge n.119 del 2018” e, in particolare, ha previsto che:

<<1. La scadenza di pagamento del 31 luglio 2019 prevista dall’articolo 3, comma 2, lettere a) e b), 21, 22, 23 e 24, del decreto-legge 23 ottobre 2018, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2018, n. 136, è fissata al 30 novembre 2019. >>

La bozza di decreto legge fiscale rimette, quindi, in termini non solo tutti i debitori che hanno presentato istanza di rottamazione-ter entro la fine dello scorso mese di aprile, ma anche i soggetti che avevano presentato istanza di rottamazione-bis rimanendo poi inadempienti entro il 7 dicembre 2018. A tale riguardo, si ricorda che i debitori della rottamazione-bis che hanno versato entro quest’ultima data le rate in origine in scadenza a luglio, settembre e ottobre 2018, rientravano ope legis nella rottamazione-ter, con diritto a pagare le somme residue in 10 rate, con scadenza il 31 luglio e il 30 novembre di ciascun anno. I soggetti che, invece, non hanno rispettato la scadenza del 7 dicembre 2018 hanno comunque potuto presentare la domanda di rottamazione-ter, con pagamento della prima rata sempre alla fine dello scorso mese di luglio. Anche in questi casi, dunque, in caso di mancato pagamento della prima rata entro il termine originario, si ha la possibilità di rientrare nella procedura agevolata effettuando il versamento entro il prossimo mese di novembre. L’importo da pagare non cambia e si può, dunque, utilizzare il bollettino iniziale.

Di contro, però, il differimento del termine di pagamento al 30 novembre (originariamente fissato al 31 luglio), di certo comporterà un aggravio dal punto di vista finanziario, alla luce del fatto che sempre per il 30 novembre è previsto il saldo della seconda rata. Precisamente, la prima e la seconda rata scadranno contemporaneamente il prossimo 30 novembre (salvo che il legislatore non disponga altrimenti) e per far fronte alla doppia rata i contribuenti dovranno certamente reperire importanti disponibilità liquide di denaro (non potendo, peraltro, operare compensazioni se non che con crediti certificati verso la p.a. per appalti e forniture).

Ciò posto, occorre anche chiarire che si tratta di una riapertura dei termini su cui è stato fissato un vero e proprio perimetro. In primo luogo, non è stata prevista nessuna estensione ai carichi affidati alla riscossione nel 2018 – detto in altri termini, saranno rottamabili solo le cartelle consegnate dagli enti impositori tra il 2000 e il 2017 – e, inoltre, il numero delle rate per il pagamento della rottamazione ter non sarà più di 18 e spalmato su cinque anni (come per chi ha aderito entro il 30 aprile e ottemperato al pagamento entro il 31 luglio), bensì di 17 rate con un piano di ammortamento del debito ridotto a circa quattro anni.

  • Conclusioni

In definitiva, a seguito del grande successo ottenuto con le precedenti edizioni della rottamazione dei ruoli, si è ora chiamati ad assistere a una nuova e ulteriore riapertura dei termini (la rottamazione-ter aveva, infatti, già subito una riapertura dei termini ex art. 16-bis della Legge n. 58/2019, di conversione del D.L. n.34/2019 – c.d. “Decreto Crescita).

La norma, così come indicato nella relazione illustrativa della bozza del decreto fiscale, avrebbe come finalità quella di << … evitare disparità di trattamento tra i debitori che hanno tempestivamente presentato la propria dichiarazione di adesione alla c.d. “rottamazione-ter” entro il 30 aprile 2019 – ovvero che provengono dalla c.d. “rottamazione-bis” o siano stati colpiti dagli eventi sismici verificatisi nel 2016 nell’Italia Centrale – e quelli che hanno fruito della riapertura del termine di relativa presentazione alla data al 31 luglio 2019. Infatti, per i primi il pagamento delle somme dovute avrebbe dovuto essere effettuato in unica soluzione, entro il 31 luglio 2019, ovvero nel numero massimo di rate consecutive prescelte, la prima delle quali scadente alla stessa data. I secondi, viceversa, pur avendo aderito successivamente alla definizione agevolata, pagheranno la prima o unica rata entro il 30 novembre 2019 …>>.

In conclusione, c’è tempo sino al  30 novembre 2019 e si tratta, di certo, di un’occasione che dovrà essere attentamente valutata da ogni singolo contribuente coinvolto, che dovrà essere consapevole del fatto che lo “sconto” previsto dalla riapertura dei termini della rottamazione-ter sarà lo stesso delle precedenti edizioni e che, di contro, per chi rateizza, il tasso d’interesse sarà del 2 % e che il pagamento potrà essere dilazionato in circa 4 anni mediante un piano di ammortamento di 17 rate.

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