La Family Court inglese fa i conti con la Shari‘a. Il caso Juffali vs Juffali

di Valeria Cianciolo

I diritti, nel mondo islamico, sono fondati sulla (e conformati dalla) Shari’a, che ne determina tipi e contenuti [1]. In questo senso, si può dire che i diritti sono da un  lato, culturalmente specifici, ma hanno una portata relativa e, poiché possono esservi diversi sistemi di diritti fondamentali, non è detto che sia possibile metterli in comparazione tra di loro, al fine di « creare giustificazioni di “superiorità” (culturale, civile, etc.) » [2] per “tarare” quale sia il migliore e quale il peggiore. Manca il parametro esterno rispetto al quale operare tale “misurazione”, valido per entrambi i sistemi e sarebbe, tuttavia, “politicamente” sconveniente giudicare una cultura parametrandola con un’altra cultura.

«Se alzi un muro, pensa a ciò che resta fuori» diceva Italo Calvino.

E quindi, davanti ad un mondo in movimento, sempre più fluido, è lecito chiedersi: che cosa contraddistingue l’insieme e unisce i cittadini, dà loro una identità? Un territorio, una lingua comune, una comune storia e memoria di questa storia, una comune cultura e principi comuni, istituzioni condivise? 

Il grande Santi Romano diceva che i giuristi sono come le perle: false, coltivate e vere, suggerendo in fondo, che di giuristi veri, ce ne sono pochi.

Ma tutti i giuristi, comunque, hanno la necessità di prendere sul serio il diritto, forse, perchè chi controlla il diritto controlla la società. Certo è che senza controllo del diritto, non vi è neppure gestione della vita politica e sociale.

La massiccia presenza islamica sul territorio britannico impone rivendicazioni varie, portando alla luce esigenze sempre diverse. La giurisprudenza si evolve sul fluire di questi eventi, mentre tenta di amplificarsi il raggio di azione delle corti islamiche.

Il dibattito nel Vecchio Continente non depone a favore del riconoscimento della Shari‘a. E l’Inghilterra, terra che conosce l’immigrazione di persone, in buona misura proveniente dalle sue ex colonie, – ma anche con un buon numero di libanesi, siriani, arabi che sono spesso perfettamente integrati perché sono la linfa vitale del sistema finanziario britannico – fa i conti con la contaminazione del proprio diritto con il diritto islamico.

Nel tentativo di individuare quale delle muslim laws accogliere nello spazio europeo, un gran numero di Stati concorda nel ritenere la legge islamica incompatibile con i diritti umani e in materia di diritto di famiglia, ha assunto importanza, nel Regno Unito [3], la distinzione tra bare talàq (o classical talàq) e procedural talàq.

Il primo termine individua gran parte delle forme di ripudio prescritte dal diritto islamico; il secondo, invece, designa esclusivamente le forme procedurali.

E veniamo al caso Juffali.

Nel Regno Unito, la Family Court Division della High Court of Justice ha deciso uno dei divorzi contenziosi più scenografici e mediatici degli ultimi anni per gli sfarzi ed i lussi principeschi della coppia e  per quel che concerne la quantificazione del mantenimento dell’ex coniuge.

Si tratta del caso Juffali vs Juffali, che vede contrapposti da un lato, un avvenente e spregiudicata modella americana e dall’altro lato, il sessantunenne di lei marito, facoltosissimo finanziere saudita, nato in Libano che durante il procedimento di divorzio si trovava nella “fase finale di una malattia terminale” (§ 170), “e riceveva cure palliative in una clinica di Zurigo” (§ 4). 

La coppia godeva di un tenore di vita principesco, di diverse proprietà di prestigio sparse per il globo, nonché di ricche collezioni di opere d’arte e di gioielli, naturalmente oggetto di causa.

I due convolarono a nozze a Dubai nel 2001 e stabilirono la loro residenza in Inghilterra, dove nacque la figlia, ora adolescente.

La provenienza della ricchezza del finanziere libano – saudita, è stata l’azienda di famiglia, EA Al-Juffali e Brothers, “un’impresa familiare di successo, coinvolta nella fornitura di energia elettrica e  telecomunicazioni in tutto il Regno di Arabia Saudita” … “che la ricchezza [aveva] consentito al convenuto di essere coinvolti in una serie di cause benefiche e filantropiche” (§ 11). 

Dal 2005 la casa coniugale era Bishopsgate House: una “proprietà vasta e prestigiosa … immediatamente adiacente al Windsor Great Park” ( “BGH”) con “un seguito completo del personale, compreso groundsmen, giardinieri e … la sicurezza” (§ 16). 

L’uomo aveva anche acquistato un grande palazzo a Venezia nel 2007, che la donna sosteneva fosse un dono per lei e, nel 2008, un appezzamento di terreno sul quale era stato costruito un sostanziale chalet “iceberg“, di “sontuosa opulenza” a Gstaad, in Svizzera (§ 18). 

La donna nel corso del processo di divorzio afferma che queste proprietà, e una “casa weekend” nel Devon acquistati anche nel 2008, erano stati donati a lei. 

Il marito poi spesso le comprava gioielli costosi, tra cui un anello di diamanti blu dell’importo compreso tra USD 15 e 18 milioni.

Accade poi che questo facoltoso signore arabo nel febbraio 2012, all’insaputa della moglie americana sposa una giovane donna libanese di 24 anni e tiene la sua cerimonia di nozze proprio a Venezia, nel Palazzo donato alla seconda moglie americana.

Il finanziere però, divorzia dalla terza moglie libanese poco dopo, riconciliandosi solo temporaneamente con la ricorrente e le parti tornano a vivere a BGH, loro residenza coniugale, dove nel giugno 2013, alla moglie, nel corso di una festa di famiglia veniva chiesto di firmare, in presenza di un Imam, quello che la stessa ricorrente pensava essere un testamento biologico, scritto in arabo ( sebbene lei non fosse in grado di leggere l’arabo). 

Si trattava di una sorta di “contratto di vendita”.

Nel 2014 il marito, mentre era in Arabia Saudita, ripudiò la ricorrente pronunciando tre volte il termine “talaq”, secondo la Shari’a.

La seconda moglie americana faceva dunque, istanza di divorzio in Inghilterra. 

Di seguitò a ciò, la signora citò il marito ai sensi del Part III of the Matrimonial and Family Proceedings Act 1984 (MFPA 1984, che disciplina gli accordi patrimoniali in caso di divorzio), nonostante questi avesse eccepito di godere dell’immunità diplomatica e di non essere residente nel Regno Unito. Dopo una lunga e articolata ricostruzione del contenzioso, la Family Division ha stabilito che la vita coniugale era basata principalmente in Inghilterra e quindi ad essa era applicabile il diritto inglese, nonostante il caso riguardasse “una famiglia internazionale”.

Per quel che concerne la liquidazione del mantenimento della ricorrente, la corte ha valutato attentamente gli introiti familiari affermando che “un budget annuo netto di due milioni e mezzo di sterline siano sufficienti per soddisfare le esigenze ragionevoli della ricorrente”, pertanto, considerando l’aspettativa di vita della signora e “valutando attentamente una adeguata dotazione finanziaria per il suo futuro”, le ha riconosciuto un totale di cinquantatré milioni di sterline, mentre per quel che concerne i gioielli, “ai fini di ornamento personale”, le ha attribuito preziosi per un valore di più di quattro milioni di sterline, mentre ha rinviato a successivi accordi tra le parti la divisione degli altri beni mobili.

Ed in Italia cosa sarebbe stato del caso Juffali?

Esclusa la generale applicabilità dell’art. 64 della l. n. 218/1995, poiché il ripudio non segue ad un atto assimilabile ad una sentenza, la norma applicabile potrebbe essere l’art. 65, secondo cui “i provvedimenti stranieri relativi alla capacità delle persone, nonché all’esistenza di rapporti di famiglia” hanno effetto in Italia “purché non siano contrari all’ordine pubblico e siano rispettati i diritti essenziali della difesa“.

E’ da escludere l’efficacia del ripudio nella sua tipica formulazione unilaterale e stragiudiziale, come nel caso Juffali (talaq): evidente la contrarietà all’ordine pubblico, in base alle convenzioni internazionali, ratificate anche dall’Italia, che vietano ogni discriminazione contro le donne e stabiliscono l’uguaglianza di diritti e di responsabilità fra coniugi [4]; di “diritti essenziali della difesa” non è nemmeno il caso di parlare; l’unilateralità non cessa anche quando sia la stessa donna, ex post, a chiedere l’efficacia in Italia, o ad acconsentire alla richiesta avanzata dell’ex marito, giacché ciò non può far velo al fatto che unilateralità e bilateralità sono caratteristiche coessenziali all’atto, debbono sussistere al momento della sua formazione, sicché un atto unilaterale non diviene bilaterale solo perché il destinatario si limita a prenderne atto (nel caso di specie, perché la vittima di una prevaricazione, sapendo di essere indifesa, vi si rassegna).

Vi è giurisprudenza straniera che accorda il riconoscimento al ripudio quando la donna stessa invoca il riconoscimento o vi abbia acconsentito. Al di là delle presumibili buone ragioni, di giustizia del caso concreto, la forzatura sembra evidente.

Si può, infine, fondatamente dubitare che il ripudio costituisca “provvedimento” ai sensi dell’art. 65 l. cit., giacché rimane un atto privato di volontà, sia pure reso davanti ad un’autorità locale, che si limita ad autenticarlo.


[1]
                G. Di Plinio, Il costituzionalismo e la Shari’a, 1183 ss.

[2]
                 F. D’Agostino, Pluralità delle culture e universalità dei diritti, Giappichelli, 1996

[3]
                Il caso Hammersmith è riportato come la prima vicenda giudiziaria in cui ad una corte britannica è stato chiesto di pronunciarsi in merito ad un divorzio islamico.
                In quella circostanza tanto il matrimonio quanto il divorzio avevano avuto luogo a Londra e la Corte rifiutò di riconoscere l’atto di ripudio sottoscritto a Londra in presenza di due testimoni, sebbene fosse effettivo in India, dove l’uomo era domiciliato.

                La ragione del diniego risiedeva nell’assunto secondo il quale un matrimonio monogamico inglese, contratto con una donna inglese, non poteva essere sciolto tramite una forma di divorzio islamico.

[4]
                C. Campiglio, La famiglia islamica