La donazione si risolve per atto pubblico

Valeria Cianciolo

Cass. civ. Sez. I, Ord., 3 marzo 2020, n. 5937
Pres. Bisogni, Rel. Cons. Scalia

Il principio di simmetria delle forme vuole che il negozio accessorio rivesta la medesima forma di quello principale, pertanto il contratto di risoluzione di una donazione deve rivestire la  forma dell’atto pubblico.

(Nel caso di specie, il ricorrente faceva valere la violazione di legge in cui sarebbe incorso il giudice di appello per non aver rilevato che la scrittura privata, allegata alla domanda di conversione della separazione giudiziale in consensuale, era confluita nel verbale di udienza del giudizio di separazione, lasciando in tal modo soddisfatta la forma dell’atto pubblico che la donazione deve rivestire ex artt. 782 e 2699 c.c..

Il motivo è stato dichiarato inammissibile per difetto di autosufficienza, non avendo il ricorrente neppure allegato di avere tempestivamente dedotto dinanzi al giudice di appello l’indicata circostanza).

Donazione – Risoluzione del contratto – Rif. Leg. art. 782, 1351, 2932 c.c.

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – rel. Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 30298/2017 proposto da:

T.G., elettivamente domiciliato in Roma, Via della Frezza n. 59, presso lo studio dell’avvocato E. P. S., che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati F. jr. P., S. P., S. P., giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

M.C.V., elettivamente domiciliata in Roma, Via Caio Mario n. 27, presso lo studio dell’avvocato F. A. M., rappresentata e difesa dall’avvocato A. I., giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4392/2017 della Corte di appello di Napoli, pubblicata il 25/10/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 05/12/2019 dal Cons. Laura Scalia;

lette le conclusioni scritte del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CAPASSO Lucio, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

1. Con ricorso ex art. 702-bis c.p.c., T.G. esponeva al Tribunale di Avellino di aver donato con atto a rogito notaio G. del 27.06.2006 alla resistente, M.C.V., divenuta successivamente sua moglie per matrimonio concordatario celebrato il 2/09/2006, i diritti immobiliari di nuda comproprietà, pari ad un terzo dell’intero, da lui ricevuti, insieme ad altri cespiti, dalla successione ex lege dallo zio, e tanto allo scopo di potersi avvalere del beneficio fiscale cd. “di prima casa”.

Successivamente, i coniugi si separavano consensualmente alle condizioni omologate dal Tribunale di Avellino con provvedimento del 16.09.2009 in conformità ai patti di cui alla scrittura privata datata 11.06.2009, sottoscritta dai coniugi ed allegata al ricorso congiunto di conversione della separazione giudiziale in consensuale, depositato in udienza.

Segnatamente, in detta sede le parti, assistite dai rispettivi difensori, manifestavano il consenso a separarsi in conformità ai patti ed alle condizioni indicati nella separata scrittura che chiedevano di allegare al verbale di udienza, con cui dichiaravano di disciplinare le questioni patrimoniali relative alla quota di nuda proprietà sull’immobile donato.

Nell’allegata scrittura i coniugi convenivano che i diritti trasferiti alla moglie per atto notaio G. venissero ritrasferiti al marito, ragione per la quale, la prima “si impegnava a comparire dinanzi al notaio…. Per sottoscrivere l’atto la cui bozza viene allegata alla presente scrittura e sottoscritta dalle parti”, il tutto in una scrittura rubricata: “Risoluzione di donazione per mutuo consenso”.

La resistente si rendeva inadempiente all’obbligo assunto di retrocessione del bene ricevuto in donazione.

Il Tribunale adito, nella irrevocabilità della donazione dedotta dalla parte resistente, che della prima assumeva la natura obnunziale, con ordinanza del 17.01.2011 accoglieva la domanda del ricorrente e disponeva il trasferimento ai sensi dell’art. 2932 c.c. in suo favore dei diritti immobiliari di nuda proprietà pari ad un terzo dell’immobile.

Nelle conclusioni raggiunte dal primo giudice, l’atto negoziale avrebbe dovuto ricondursi nello schema del “pagamento traslativo” funzionale alla separazione consensuale ed il suo inadempimento avrebbe legittimato la parte al rimedio di cui all’art. 2932 c.c., consentito in ogni fattispecie da cui sorga un obbligo di prestare il consenso al trasferimento o alla costituzione di un diritto.

2. Su appello proposto ex art. 702-quater c.p.c. dalla resistente – che deduceva la mancanza di un proprio obbligo a prestare il consenso circa il (ri)trasferimento dell’immobile e, comunque, l’invalidità della scrittura di risoluzione della donazione allegata al ricorso congiunto per separazione consensuale in difetto della forma pubblica e, segnatamente, della presenza di due testimoni, prescritta ex art. 1351 c.c. -, la Corte distrettuale di Napoli, in riforma dell’ordinanza di primo grado, con la sentenza in epigrafe indicata, accoglieva l’impugnazione principale ed ha rigettato le domande in via incidentale proposte dall’appellato.

3. La Corte di merito riteneva con la scrittura allegata al ricorso per separazione consensuale che l’appellante si era impegnata a sottoscrivere un contratto di risoluzione consensuale di una donazione che, ove ammissibile, doveva però ritenersi nullo per difetto della forma dell’atto pubblico solenne che avrebbe dovuto rivestire al pari dell’atto donativo su cui andava ad incidere.

4. T.G. ricorre con tre motivi, illustrati da memoria, per la cassazione dell’indicata sentenza cui resiste con controricorso M.C.V..

5. Il rappresentante della Procura Generale della Corte di cassazione ha fatto pervenire memoria scritta in cui ha concluso per il rigetto del ricorso.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione del principio di letteralità che presiede alla interpretazione del contratto e dell’autonomia privata, e quindi degli artt. 1322, 1324, 1325 e 1418 e, ancora dell’art. 1362 c.c., commi 1 e 2, artt. 1372 e 1706 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La Corte di merito, senza effettuare una interpretazione del contenuto della scrittura privata, sottoscritta in data 11.06.2009, e della bozza, allegata nel giudizio di separazione personale dei coniugi, dell’atto di risoluzione per mutuo dissenso della donazione, aveva in via apodittica affermato l’inesistenza di ogni legame tra la statuizione sulla soluzione della donazione e le condizioni della separazione consensuale dei coniugi.

I giudici di appello avrebbero in tal modo ritenuto, in erronea applicazione dei principi formatisi nella giurisprudenza di legittimità sul cd. contratto della crisi coniugale, i caratteri della liberalità dell’atto e quindi la necessità del rispetto delle forme solenni previste per la donazione ex art. 782 c.c..

La causa effettiva dell’obbligo di (ri)trasferimento, assunto dalla resistente attraverso la stipula del negozio di risoluzione per mutuo consenso, dei diritti immobiliari ricevuti dal ricorrente per la donazione, a carattere simulato e fiduciario, non era infatti contraddistinta da ragioni di liberalità e tanto nella funzione solutorio-compensativa assolta dall’atto rispetto ai rapporti patrimoniali maturati nel corso della convivenza matrimoniale, secondo lo schema del “contratto di crisi familiare”, espressivo dell’autonomia privata riconosciuta alle parti a tutela di interessi meritevoli.

2. Con il secondo motivo, in via gradata, si fa valere la violazione degli artt. 1322, 1324, 1371, 1372 e 1706 c.c., dell’art. 126 c.p.c. dell’art. 2699 c.c. e dell’art. 48 della legge notarile ed ancora dell’art. 2932 c.c. e dell’art. 782 c.c. I giudici di appello avevano ritenuto che il negozio concluso dalle parti avesse natura di liberalità e che per il principio della “simmetria” esso avrebbe dovuto rivestire la stessa forma prevista per l’atto principale, del 27.06.2006, sul quale era destinato ad incidere, forma, nella specie, apprezzata come insussistente.

Il requisito della forma solenne sarebbe stato assolto invece dal verbale di udienza in cui la parte aveva manifestato la propria volontà di assumere l’indicato obbligo dinanzi ad un magistrato, alla presenza del proprio difensore, chiedendo al Tribunale di verificare la conformità a diritto del patto e dell’obbligo assunto e quindi, per complessive modalità che avrebbero garantito l’osservanza della forma solenne ex art. 782 c.c..

3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce, in via ancor più gradata, l’omesso rilievo ufficioso di una causa di nullità della donazione per la quale era stata proposta domanda di adempimento ex art. 2932 c.c. dell’obbligo solutorio.

Per le affermazioni di principio contenute nella sentenza a SU n. 5068 del 2016, l’originaria donazione sarebbe stata nulla per difetto di causa, in quanto avente ad oggetto un bene altrui e tale doveva intendersi la donazione da parte del coerede, il T., di quote di un bene indiviso ricompreso nella massa ereditaria del congiunto de cuius.

Evidenza, quest’ultima, rispetto alla quale il ricorrente deduce l’esistenza di un interesse giuridico, reale, concreto, patrimoniale ed effettivo al rilievo di nullità.

4. La controricorrente resiste nella dedotta bontà della soluzione ritenuta nell’impugnata sentenza contestando l’ammissibilità del primo motivo perché censura di attività interpretativo-negoziale in quanto accertamento di fatto riservato al giudice di merito.

4.1. L’autonomia della scrittura privata rispetto all’accordo di separazione avrebbe correttamente determinato il giudice di appello a ricondurre l’accordo alla funzione dello scioglimento consensuale della donazione ed a negarne la validità in difetto di forma solenne. In ogni caso l’atto ove inteso come contro-donazione sarebbe stato nullo attesa la nullità del preliminare di donazione.

4.2. La forma osservata, e per la quale l’atto non sarebbe stato sottoscritto davanti al giudice in udienza, ma redatto con separata scrittura privata, allegata all’istanza congiunta di conversione del rito, non avrebbe soddisfatto i requisiti di forma di cui agli artt. 799 e 2699 c.c..

4.3. L’interpretazione offerta a sostegno del terzo motivo di ricorso della sentenza SU n. 5068 del 2016 sulla nullità per difetto di causa della donazione di un bene altrui sarebbe stata errata, risultando la fattispecie invece scrutinata nella riportata sentenza, quella, diversa dall’ipotesi in esame, del coerede che doni la sua quota di un bene rientrante in una pluralità di beni ereditari indivisi. L’oggetto del giudizio era infatti integrato dal diverso caso della donazione di quota di proprietà di un unico bene ereditario e quindi della intera quota ricevuta dal coerede, trasferimento valido nelle previsioni dello stesso art. 1547 c.c., comma 2, sulla garanzia per evizione della cessione di eredità.

4.4. La donazione del 27.06.2006, della cui risoluzione attraverso la scrittura del 11.06.2009 si controverte, non era inoltre oggetto di domanda e come tale non sarebbe stata elemento costitutivo della istanza ex art. 2932 c.c., ragione per la quale la nullità dell’originario atto di donazione, su cui sarebbero caduti in via mediata ed indiretta gli effetti della scrittura del 11.06.2009, non poteva essere rilevata d’ufficio.

5. Il tema di lite resta definito dalla preliminare esigenza di individuare la qualificazione da riconoscersi alla scrittura di risoluzione intercorsa tra le parti in lite in data 11 giugno 2009 nel rapporto da essa assunto rispetto all’atto su cui ad incidere, ovverosia la donazione del 27 giugno 2006, e, per l’effetto, dalla necessità, nella natura solutoria della scrittura, del rispetto della forma solenne prevista, ex art. 782 c.c., per la donazione, per una efficacia eguale e contraria.

Poiché il negozio originario, quello del 27 giugno 2006, rispetta, pacificamente in atti, la forma prevista per la donazione, ecco che il successivo atto, quello dell’11 giugno 2009, nell’assolta sua finalità solutoria del primo di quest’ultimo deve condividere la forma che è poi quella pubblica e solenne stabilita ad substantiam dagli artt. 782 e 2699 c.c. per la donazione.

6. Sulla indicata comune premessa devono trovare trattazione congiunta trattazione il primo ed il secondo motivo di ricorso per i passaggi di seguito indicati e precisati.

6.1. Il primo motivo è infondato là dove per esso si contesta alla Corte partenopea la violazione dei canoni interpretativi della volontà negoziale.

La Corte di appello, con motivazione piena e lineare che sfugge a censura in questa sede, ha dato conto – scrutinando i contenuti del negozio dell’11 giugno 2009, con cui la resistente si impegnava a sottoscrivere dinanzi al notaio G., che aveva rogato la donazione del 27 giugno 2006, la bozza del negozio di risoluzione dell’originaria donazione che veniva allegata alle condizioni concordate della separazione consensuale – della natura autonoma dell’atto rispetto all’accordo di separazione, individuando la causa della scrittura unicamente nell’impegno di M.C.V. a risolvere la precedente donazione, senza alcun riferimento alla volontà di tacitare pregressi obblighi patrimoniali assunti in costanza di matrimonio e tanto per gli scrutinati contenuti delle condizioni della separazione di cui si è valorizzata, in modo concludente, l’affermata autosufficienza economica delle parti.

Il ricorrente deduce a sostegno del proposto mezzo, e quindi della validità ed efficacia dell’atto solutorio dell’11 giugno 2009 oggetto di lite, muovendo da quella giurisprudenza di questa Corte di cassazione che si è formata sulla categoria dei contratti conclusi dai coniugi in sede di separazione personale al fine di dirimere o prevenire le controversie patrimoniali che alla questione sullo stato possano accompagnarsi.

Gli accordi di separazione personale fra i coniugi, contenenti attribuzioni patrimoniali da parte dell’uno nei confronti dell’altro e concernenti beni mobili o immobili, conoscono nell’esperienza giudiziaria una loro tipicità sostenuta dalla volontà dei coniugi di dare una sistemazione ai rapporti patrimoniali in occasione dell’evento “separazione personale” o in sede di divorzio congiunto.

Si è affermato da questa Corte di legittimità, a descrizione dell’indicato fenomeno negoziale, che l’intento sotteso agli indicati contratti sfugge sia alle connotazioni proprie dell’atto di donazione vero e proprio – destinato a rimanere estraneo al contesto della separazione, contrassegnato, invece e proprio, dal venir meno di ogni connotazione di liberalità, nella dissoluzione delle ragioni dell’affettività – che a quelle dell’atto di vendita, in difetto della corresponsione di un prezzo.

Per vero, negli atti di volta in volta conclusi e sorretti dall’indicato intento si apprezzano i tratti dell’obiettiva onerosità piuttosto che di quelli della “gratuità” e tanto in ragione dei concreti contenuti dei primi, nell’assolta eventuale ricorrenza di una sistemazione “solutorio-compensativa” nell’ambito di tutta quell’ampia serie di rapporti capaci di assumere, anche di riflesso, significati patrimoniali nel corso della convivenza matrimoniale (Cass. 14/03/2006 n. 5473; Cass. 25/10/2019 n. 27409).

La mancanza in siffatti accordi della causa donativa, e tanto nel prevalente loro atteggiarsi per contenuti in cui sono presenti finalità solutorio-compensative di pregressi rapporti patrimoniali, fa sì che il richiamo ai primi non possa valere nella fattispecie in esame, in cui come correttamente inteso dalla Corte di merito, si discute della efficacia di un atto destinato, pacificamente, ad incidere, risolvendola, su di una pregressa donazione per ripristino della situazione patrimoniale quo antea.

La volontà delle parti, come ineccepibilmente ricostruita nell’impugnata sentenza, è stata quella di stipulare un atto di impegno, il negozio dell’11 giugno 2009, al fine di concludere un successivo negozio di risoluzione – destinato ad operare con efficacia ex tunc, per mutuo consenso – di una pregressa donazione.

6.2. È infondato anche il secondo connesso motivo nella cui valutazione viene in applicazione il principio della simmetria delle forme per i negozi accessori che trova fondamento nell’art. 1351 c.c., dettato sulla forma del contratto preliminare.

Affermato da questa Corte di legittimità a Sezioni Unite in una ormai risalente sentenza (Cass. SU 28/08/1990 n. 8878), il principio della simmetria delle forme, che ha trovato continuità applicativa non senza assestamenti di percorso registrati nel tempo- in più recenti pronunce (a far data da: Cass. SU n. 14524 del 11/10/2002; Cass. n. 9341 del 17/05/2004, fino a: Cass. n. 8504 del 14/04/2011; Cass. n. 13290 del 26/06/2015; Cass. n. 30446 del 23/11/2018), vuole che il negozio accessorio rivesta la medesima forma di quello principale sicché il contratto di risoluzione di una donazione deve rivestire la medesima forma dell’atto finale nell’incidenza che il primo è destinato ad avere rispetto al primo.

Il ricorrente fa valere la violazione di legge in cui sarebbe incorso il giudice di appello per non aver rilevato che la scrittura privata dell’11 Giugno 2009 allegata alla domanda di conversione della separazione giudiziale in consensuale sarebbe, per ciò stesso, confluita nel verbale di udienza del giudizio di separazione, lasciando in tal modo soddisfatta la forma dell’atto pubblico che la donazione deve rivestire ex artt. 782 e 2699 c.c..

Il motivo si presta ad una valutazione che è di inammissibilità per difetto di autosufficienza, non avendo il ricorrente neppure allegato di avere tempestivamente dedotto dinanzi al giudice di appello, adito su impugnativa dell’altra parte, l’indicata circostanza, riportando con puntualità i contenuti della deduzione ed il riferimento agli atti (ex multis: Cass. n. 32804 del 13/12/2019).

6.3. Il terzo motivo è inammissibile per difetto di interesse alla sua proposizione.

6.3.1. La questione di nullità con il mezzo introdotta non è rilevabile ex officio perchè oggetto della dedotta invalidità non è un contratto di donazione di cui si sollecita il rilievo di nullità, ma l’atto solutorio i cui effetti cadrebbero, con effetto indiretto e mediato, sul primo.

In difetto di puntuale allegazione poiché la validità della donazione del 2006 non è elemento costitutivo della domanda ex art. 2932 c.c., la nullità del contratto non può divenire d’ufficio oggetto di accertamento da parte del giudice.

6.3.2. Il motivo è comunque infondato.

Come correttamente dedotto nel controricorso, il precedente invocato dal ricorrente (Cass. SU su donazione e nullità n. 5068/2016), secondo il quale è nulla per difetto di causa la donazione di un bene altrui a meno che il donante affermi espressamente nell’atto che è consapevole dell’attuale non appartenenza del bene donato al suo patrimonio, è destinato a valere rispetto ad una quota ereditaria che ricada su una pluralità di beni come invece dedotto, rispetto a quota di un unico bene relitto, ipotesi in cui il coerede ha facoltà di donare la propria quota ereditaria indivisa ai sensi dell’art. 1547 c.c., comma 2.

7. Il ricorso, in via conclusiva infondato, va rigettato e per il principio della soccombenza il ricorrente, T.G., va condannato a rifondere alla resistente, M.C.V., le spese di lite come da dispositivo.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente, T.G., a rifondere alla resistente, M.C.V., le spese di lite che liquida in Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% forfettario sul compenso ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Dispone che ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52 siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi in caso di diffusione del presente provvedimento.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Prima Sezione Civile, il 5 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 3 marzo 2020

È legittima l’adozione dell’infante picchiato dal convivente della madre se quest’ultima ne ritarda il ricovero in ospedale per il timore di ripercussioni giudiziali

di Valeria Cianciolo

Cass. civ. Sez. I, Ord., 17 luglio 2019, n. 19156 – Pres. Giancola, Rel. Iofrida

Adozione – Dichiarazione di adottabilità – Rif. Leg. Legge n. 184 del 1983

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –
Dott. MARULLI Marco – Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –
Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –
Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 12638/2018 proposto da:

M.S.Y.J., elettivamente domiciliata in Roma, Via della Giuliana n. 32, presso lo studio dell’avvocato C. M., rappresentata e difesa dall’avvocato C. G., giusta procura in calce al ricorso;

ricorrente

contro

B.R., nella qualità di tutore delegato del Sindaco di Roma dei minori Be.Gu.Ja.Ma. e M.S.J.A., elettivamente domiciliata in Roma, Via Federico Confalonieri n. 5, presso lo studio dell’avvocato P. A., che la rappresenta e difende, giusta procura in calce al controricorso;

controricorrente

contro
Be.Gu.An.Ed., Procura della Repubblica presso il Tribunale dei Minorenni di Roma, Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Roma;

intimati
avverso la sentenza n. 1748/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 20/03/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/06/2019 dal cons. Dott. LAMORGESE ANTONIO PIETRO.

Svolgimento del processo

CHE:

La Corte d’appello di Roma, Sezione minorenni, con sentenza del 20 marzo 2018, ha rigettato il gravame di M.S.Y.J. avverso l’impugnata sentenza che aveva dichiarato lo stato di adottabilità dei figli minori Be.Gu.Ja.Ma. (nato il (OMISSIS)) e M.S.J.A. (nato il (OMISSIS)).

La Corte ha riferito sull’origine del procedimento, in conseguenza del tardivo ricovero d’urgenza del figlio J.M., di quattro mesi, per le gravi lesioni infertegli dal compagno e convivente della madre, P.A.D.A., cui era stato affidato in custodia dalla M., che ne avevano compromesso l’area cognitiva e motoria; sul comportamento della madre che lo aveva portato in ospedale tardivamente, per il timore dell’intervento delle istituzioni e di ripercussioni giudiziali; ha riferito che nei confronti della M. era stata disposta la sospensione della responsabilità genitoriale e che il figlio era stato collocato presso una struttura familiare dove la madre aveva avuto difficoltà ad inserirsi, per essere poi trasferita con i figli in altra struttura, dove aveva tenuto un comportamento irrequieto, aggressivo e delegante verso i figli; che era stata allontanata a seguito di un grave episodio (aveva fumato cannabis in loro presenza) e i figli collocati in altra struttura dove la madre aveva rifiutato di essere inserita; che i Servizi sociali, con relazione del 14 febbraio 2017, avevano evidenziato che il progetto di sostegno alla genitorialità era stato inefficace, avendo la M. dimostrato immaturità, disinteresse e inconsapevolezza dei bisogni dei figli, delle funzioni e responsabilità genitoriali (giudizio confermato anche dal fatto che aveva lasciato altri due figli in Colombia); che non erano emersi elementi idonei a far presumere la concreta possibilità di recupero della capacità genitoriale in tempi compatibili con le esigenze dei figli; che inesistente era l’ipotizzata disponibilità- della nonna materna a prendersene cura, non avendoli mai conosciuti e non avendo avuto con essi alcun legame; pertanto, la rescissione del legame familiare era l’unica possibilità di assicurare ai figli un futuro di sana e serena crescita.

Avverso questa sentenza la M. ha proposto ricorso per cassazione, cui si è opposta B.R., tutrice dei figli delegata dal Sindaco di Roma.

Motivi della decisione

CHE:

Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 184 del 1983, artt. 1 e 8 per averla ritenuta corresponsabile del grave episodio di violenza nei confronti del piccolo J.M., mentre lei stessa era vittima di tale gesto di violenza, e per avere valutato negativamente la propria capacità genitoriale, all’esito di una istruttoria incompleta e senza convocare la nonna materna, persona disponibile all’affidamento.

Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 184 del 1983, art. 2 per avere formulato il giudizio negativo sull’adeguatezza della capacità genitoriale con una motivazione omessa o insufficiente e senza avere posto in campo le misure di sostegno utili a ripristinare e supportare la madre anche mediante affido temporaneo alla nonna.

Il terzo e quarto motivo denunciano violazione e falsa applicazione della L. n. 184 del 1983, artt. 12 e 15 omessa e insufficiente motivazione, per avere valutato come compromessa la capacità genitoriale sulla base di elementi episodici e senza avere disposto l’audizione della bisnonna materna, sebbene si fosse dichiarata disponibile all’affidamento attraverso le autorità colombiane.

I suddetti motivi, da esaminare congiuntamente essendo connessi e ripetitivi sotto vari profili, sono infondati e in parte inammissibili.

Il contestato e grave episodio del (OMISSIS) non è stato l’unico “fatto” posto a fondamento della dichiarazione di adottabilità, la quale è sostenuta da numerosi elementi indicativi di inadeguatezza genitoriale della M., all’esito di una articolata e approfondita descrizione della figura materna che ha condotto la Corte di merito a confermare la valutazione del primo giudice e a prendere atto dell’esito negativo del percorso di recupero, sollecitamente attivato dai Servizi sociali e ostacolato dalla madre.

Si tratta di apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito censurabili in cassazione mediante proposizione di adeguato mezzo ex art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. n. 1674 del 2002), ormai proponibile nei soli casi, non ravvisabili nella specie, di radicale carenza della motivazione o nel suo estrinsecarsi in argomentazioni inidonee a rivelare la ratio decidendi – che inammissibilmente la ricorrente vorrebbe fare ribaltare, avendo la Corte diffusamente illustrato le ragioni che l’hanno indotta a valutare come incompatibile l’interesse dei minori con la tempistica di recupero della capacità genitoriale, valutato come del tutto astratto, da parte della madre.

La sentenza impugnata è immune dai denunciati vizi giuridici nella parte in cui ha preso atto della mancanza di figure parentali disponibili a prendersi cura dei minori, non avendo la nonna mai conosciuto nè avuto rapporti con i minori, nè avendo mai ritenuto di comparire nel giudizio; inoltre ha valutato come non confacente all’interesse dei minori un loro trasferimento in Colombia, in un contesto sociale e familiare del tutto estraneo.

La Corte ha fatto corretta applicazione del principio secondo cui lo stato di abbandono non piè essere escluso in conseguenza della disponibilità a prendersi cura dei minori, manifestata da parenti entro il quarto grado, quando non sussistano rapporti significativi pregressi tra loro, atteso che la L. n. 184 del 1983, art. 12, comma 1, limita le categorie di persone che devono essere sentite nel procedimento ai parenti entro il quarto grado che abbiano “mantenuto un rapporto significativo con il minore” (Cass. n. 9021 e 26879 del 2018, n. 15369 del 2015).

In conclusione, il ricorso è rigettato. Sussistono le condizioni di legge per compensare le spese.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; compensa le spese.

In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi.

Così deciso in Roma, il 6 giugno 2019.

L’attribuzione della pensione di reversibilità spetta al coniuge superstite anche se la sentenza di divorzio non è passata in giudicato

di Valeria Cianciolo

Cass. civ. Sez. I, Sent.,  26 settembre 2019, n. 24041 –
Pres. Acierno, Cons. Rel. Tricomi

E’ un “mero obiter dictum” l’affermazione, secondo la quale il riconoscimento del diritto all’attribuzione della pensione di reversibilità presuppone che il richiedente, al momento della morte dell’ex coniuge, risulti titolare di assegno divorzile.
Infatti, l’art. 9 cit. si limita a prescrivere che l’ex coniuge sia titolare di un assegno di mantenimento senza specificare il rapporto temporale tra il riconoscimento giudiziale e il decesso come presupposto per la erogazione della pensione di reversibilità.

Assegno di divorzio- Pensione di reversibilità – Rif. Leg. art. 9 L. 1 dicembre 1970, n. 898

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ACIERNO Maria – Presidente –

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10157/2016 proposto da:

B.S., elettivamente domiciliata in Roma, Via A. P. n. 21, presso lo studio dell’avvocato T. M., rappresentata e difesa dall’avvocato B. C., giusta procura a margine del ricorso;

ricorrente

contro

Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (I.N.P.S.), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, Via C. B. n. 29, presso lo studio dell’avvocato C. L., che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati C. L., P.A. e P. S., giusta procura in calce al ricorso notificato;

resistente

contro

N.P., elettivamente domiciliata in Roma, V. B. del G. n. 24, presso lo studio dell’avvocato C. P., rappresentata e difesa dall’avvocato A.G., giusta procura a margine del controricorso e ricorso incidentale;

controricorrente e ricorrente incidentale

contro

B.S., elettivamente domiciliata in Roma, Via A. P. n. 21, presso lo studio dell’avvocato T. M., rappresentata e difesa dall’avvocato B.C., giusta procura in calce al controricorso al ricorso incidentale;

controricorrente

avverso la sentenza n. 52/2015 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 18/10/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/03/2019 dal cons. Dott. TRICOMI LAURA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE RENZIS Luisa, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso principale, in subordine rigetto, con assorbimento del ricorso incidentale;

udito, per il ricorrente principale, l’Avvocato T. M., con delega, che si è riportato;

udito, per il resistente, l’Avvocato C.L., che si è riportato;

udito, per il controricorrente incidentale, l’Avvocato A. G., che si è riportato.

Svolgimento del processo

Con sentenza del 19 ottobre 2015 la Corte d’appello di Lecce ha parzialmente accolto il gravame proposto da B.S. – ex coniuge divorziato di D.M., deceduto il (OMISSIS) -nei confronti di N.P., vedova del predetto, e dell’INPS, avverso la pronuncia del Tribunale di Brindisi che aveva respinto le domande della B. volte a conseguire la determinazione della quota di pensione di reversibilità e del trattamento di fine rapporto.

Quanto ai fatti peculiari ed incontestati della vicenda, desumibili dalla decisione impugnata e dagli atti, giova ricordare che il matrimonio tra la B. ed i D. era stato celebrato il (OMISSIS); che la separazione personale era stata pronunciata dal Tribunale di Bari con sentenza depositata il 23/3/2001 con previsione di un assegno di mantenimento mensile a favore della B. di Lire 1.500.00; che, introdotto il giudizio divorzile, con ordinanza presidenziale del 30/4/2005 l’assegno era stato determinato in Euro 1.250,00; che la pronuncia sullo status divorzile era intervenuta il 20/8/2009 ad opera del Tribunale di Bari (v. ricorso princ., fol. 11); che il matrimonio tra la N. ed il D. era stato celebrato il (OMISSIS); che il D. era deceduto il (OMISSIS); che il diritto della B. a percepire l’assegno di divorzio, pur essendo stato introdotto il giudizio per il riconoscimento di detto assegno quando il D. era ancora in vita, era stato riconosciuto dal Tribunale nella misura di Euro 900,00 mensili con sentenza depositata il 13/6/2013 che aveva stabilito la decorrenza del predetto diritto “dal di del deposito della presente sentenza (come trascritto a fol.3 della sentenza impugnata).

Per quanto interessa il presente giudizio, la Corte d’appello, ha esaminato la questione “se il provvedimento che riconosce la titolarità dell’assegno divorzile debba essere precedente alla morte del coniuge o se, invece, è sufficiente che sussista al momento in cui il coniuge divorziato proponga domanda di attribuzione di una quota della pensione di reversibilità” (fol.4 della sent. imp.) ed ha concluso per il riconoscimento dell’attribuzione nella misura del 35% del totale a favore della B., attribuendo il residuo alla N., in qualità di coniuge superstite.

A sostegno della decisione la Corte territoriale ha osservato che il fondamento dell’attribuzione al coniuge divorziato della pensione di reversibilità (o di una quota) trova fondamento nell’intento del legislatore di assicurare all’ex coniuge la continuità del sostegno economico correlato al permanere di un effetto della solidarietà familiare (Corte Cost. n. 419 del 1999) e che il requisito della previa attribuzione del diritto all’assegno divorzile si spiega con il fatto che la pensione di reversibilità prende luogo di detto assegno quando il coniuge obbligato decede. Così individuata la ratio della L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 9, la Corte ha ritenuto che “non può avere alcuna rilevanza la circostanza che l’accertamento che uno dei coniugi “non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”; a norma del comma 6 dell’art. 9) intervenga per motivi meramente accidentali, dopo il decesso. Ciò che è importante è che questo accertamento vi sia” (fol. 6 della sent. imp.).

Su tale premessa Corte ha valorizzato la circostanza che la B. al momento della proposizione del presente giudizio era già titolare dell’assegno divorzile in forza della sentenza del Tribunale di Brindisi pronunciata il 13/6/2013 e che il decesso del D. intervenuto anteriormente il (OMISSIS) non ostava all’attribuzione di una quota della pensione di reversibilità perché “il riconoscimento giudiziale dell’assegno di mantenimento si pone come presupposto della prosecuzione del sostegno economico a favore del coniuge debole” (fol. 7 della sent. imp.).

La Corte territoriale ha evidenziato che il primo giudice, nell’optare per la soluzione negativa, aveva richiamato alcune pronunce di legittimità (Cass. n. 21002/2008; Cass. 12149/2007; Cass. n. 5422/2006) che ha ritenuto non calzanti: la prima, ove è affermato il principio secondo il quale l’attribuzione della pensione di reversibilità, come del trattamento di fine rapporto, “… non presuppone la mera degenza in astratto di un assegno di divorzio e neppure la percezione, in concreto, di un assegno di mantenimento in base a convenzioni intercorse tra le parti, ma presuppone che l’assegno sia stato liquidato dal giudice nel giudizio di divorzio ai sensi dell’art. 5 citato ovvero successivamente quando si verifichino le condizioni per la sua attribuzione ai sensi dell’art. 9 citato.” (Cass. n. 21002 del 01/08/2008), perché inerente al non pertinente tema della necessaria titolarità di un assegno divorzile riconosciuto in via giudiziale e non di un assegno frutto di un accordo convenzionale; la seconda, ove è affermato il principio che l’attribuzione della pensione di reversibilità presuppone, anche ai sensi della L. 28 dicembre 2005, art. 5 (norma interpretativa dell’art. 9 cit.) “… che il richiedente al momento della morte dell’ex coniuge sia titolare di assegno di divorzio giudizialmente riconosciuto ai sensi dell’art. 5 della legge predetta, non essendo sufficiente che egli versi nelle condizioni per ottenerlo e neppure che in via di fatto o anche per effetto di private convenzioni intercorse tra le parti abbia ricevuto regolari erogazioni economiche dal “de cuius” quando questi era in vita” (Cass. n. 5422 del 13/03/2006; conf. Cass. n. 12149 del 24/05/2007), perché relativo a fattispecie in cui la quota della pensione di reversibilità era stata reclamata da un soggetto che non era titolare dell’assegno divorzile.

Quindi la Corte territoriale ha affermato che costituisce un “mero obiter dictum” l’affermazione, che si rinviene in numerose pronunce di legittimità, secondo la quale il riconoscimento del diritto all’attribuzione della pensione di reversibilità presuppone “… che il richiedente, al momento della morte dell’ex coniuge, risulti titolare di assegno divorzile” (tra cui le già ricordate, Cass. n. 5422 del 13/03/2006; conf. Cass. n. 12149 del 24/05/2007), perché “l’art. 9 cit. si limita a prescrivere che l’ex coniuge sia titolare di un assegno di mantenimento senza specificare il rapporto temporale tra il riconoscimento giudiziale e il decesso come presupposto per la erogazione della pensione di reversibilità” (fol. 5/6 della sent. imp.).

Ancora, ha rimarcato la peculiarità della vicenda in esame rispetto ai precedenti di legittimità esaminati ed ha ricordato un altro precedente in cui era stato richiesta “la titolarità effettiva” o “in concreto” e non invece “in astratto” dell’assegno divorzile (Cass. n. 15242 del 27/11/2000); ha sottolineato, inoltre che in maniera esplicita era stato escluso che potesse essere equiparato all’assegno corrisposto periodicamente, l’assegno divorzile corrisposto in un’unica soluzione (Cass. n. 104.58 del 18/7/2002; sul punto si riscontra la recente Sez. U. n. 22434 del 24/09/2018) o il trasferimento di una licenza commerciale (Cass. n. 16560 del 5/8/2005).

La Corte di appello, nel complesso, ha ritenuto questi precedenti non decisivi ed ha affermato che “il fatto che quest’ultimo ( D.) fosse deceduto il (OMISSIS) non osta all’attribuzione di una quota della pensione di reversibilità, perché (per quanto su esposto) il riconoscimento giudiziale della titolarità di un assegno di mantenimento si pone come presupposto della prosecuzione del sostegno economico a favore del coniuge debole” (fol. 7).

B. ha proposto ricorso per cassazione, affidandosi ad un motivo; N. a la replicato con controricorso, con ricorso incidentale con un mezzo e, ancora, con ricorso incidentale condizionato con un mezzo. B. ha replicato con controricorso.

La presente controversia concerne esclusivamente l’attribuzione della quota della pensione di reversibilità e perviene all’odierna udienza a seguito di rinvio a nuovo ruolo disposto dalla Sezione Sesta – Prima con ordinanza interlocutoria in data 24 novembre 2017.

Motivi della decisione

1. Con l’unico motivo del ricorso principale B. denuncia la violazione e falsa applicazione della L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 9, comma 3, (legge civ.), nonché dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 115 c.p.c., comma 1; denuncia altresì l’omesso, insufficiente E contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia.

La ricorrente si duole della quantificazione della quota della pensione di reversibilità attribuitale segnatamente lamentano che il criterio legale della durata del matrimonio non era stato adeguatamente valorizzato, da lato riconoscendo la sussistenza di una convivenza prematrimoniale della coniuge superstite del de cuius senza riscontri probatori, dall’altro non motivando in maniera esaustiva sul perché al criterio legale fosse stato riservato un ruolo marginale.

2. Con l’unico motivo del ricorso incidentale proposto in via principale N. denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 9, commi 2 e 3 della legge div..

La ricorrente incidentale si duole che sia stato riconosciuto il diritto di B. alla pensione di reversibilità nonostante questa alla data del decesso di D. ((OMISSIS)) – non fosse ancora titolare dell’assegno divorzile perché giudizialmente riconosciutole solo con la sentenza del Tribunale di Bari in data 13/6/2013. Rimarca, all’uopo, che il Tribunale aveva fissano la decorrenza di tale assegno a far data dal deposito della medesima decisione, avendo cura di precisare che per la fase pregressa, intercorrente tra la data di introduzione del giudizio divorzile e fino alla pronuncia non vi era stata alcuna esplicita richiesta di determinazione dell’assegno di mantenimento per il periodo pregresso.

3. Con l’unico motivo del ricorso incidentale condizionato N. denuncia a violazione dell’art. 115 c.p.c., comma 1. Nel lamentare la ripartizione pro quota della pensione di reversibilità, sostiene di avere dedotto e documentato la convivenza ultraventennale con il de cuius dolendosi del contrario assunto della Corte di appello circa l’assolvimento dell’onere probatorio – a suo dire – conseguenza dell’omesso esame dei documenti versati in atti e delle prove articolate e di avere richiesto il riconoscimento in proprio favore di una quota pari all’80%.

4.1. Per ragioni logiche e sistematiche, appare opportuno esaminare con priorità il ricorso incidentale non condizionato che va respinto perché infondato.

4.2. Come si evince dalla sentenza impugnata, nel caso di specie: l’assegno divorzile era stata chiesto da B. sin dall’introduzione del giudizio e, in sede presidenziale era stato fissato un assegno di mantenimento; la sentenza non definitiva di divorzio era stata pronunciata sin dal 20/8/2009 – e cioè ben prima del decesso di D. -, ed il giudizio era proseguito per le determinazioni economiche.

Orbene l’assunto della ricorrente, secondo il quale B., alla data del decesso d D. non era titolare dell’assegno divorzile, di guisa che non ricorreva il presupposto L. n. 898 del 1970, ex art. 9, non Cova riscontro in quanto accertato dalla Corte di appello e non può essere condiviso.

4.3. Nella presente controversia, che investe la pensione di reversibilità e nella quale viene direttamente in questione solo la posizione del nuovo canine in quanto tale e non quale successore del defunto, assume rilievo il riconoscimento in concreto e non in astratto del diritto all’assegno per effetto di una pronuncia giurisdizionale, che, nel caso di specie, è intervenuta. Essa non costituirà titolo attivabile nei confronti di colui che era stato indicato come destinatario, ma vale a consolidare il presupposto della prestazione previdenziale, che, secondo la nostra giurisprudenza, neppure deve essere assistito dall’autorità del giudicato (Cass. n. 4107 del 20/02/2018).

La sentenza impugnata ha dato corretta applicazione alle norme invocate ed appare immune da vizi.

5. Ritornando al ricorso principale, il cui esame era stato posposto, l’unico motivo va respinto perché la Corte ha illustrato adeguatamente i criteri utilizzati per la determinazione della quota, sia puntualizzando la valorizzazione che ne ha compiuto mediante un accertamento di merito in cui ha dato conto dei rispettivi redditi, delle condizioni di vita e della durata dei rapporti e la doglianza ne sollecita inopinatamente il riesame nel merito.

6. Il ricorso incidentale condizionato all’accoglimento del ricorso principale resta assorbito.

7. Le spese del giudizio di legittimità si compensano in ragione della reciproca soccombenza.

Sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo per entrambe le ricorrenti principale ed incidentale.

P.Q.M.

– Rigetta il ricorso principale ed il ricorso incidentale, assorbito il ricorso incidentale condizionato;

– Compensa le spese di giudizio;

– Dà atto, ai sensi, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, somma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale e della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 11 settembre 2019.

Senza convivenza è configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia, purché la relazione abbia ingenerato l’aspettativa di un vincolo di solidarietà

(di Valeria Cianciolo – Sez. Osservatorio nazionale del Diritto di Famiglia di Bologna-)

Cass. pen. Sez. VI, Sent., 11 settembre 2019, n. 37628 – Pres. Tronci, Cons. Rel. Costanzo

Il reato di maltrattamenti in famiglia descritto dall’art. 572 c.p. non è riferito unicamente ai rapporti scaturenti dalla famiglia, ma anche ad altre situazioni non necessariamente familiari.

Nel caso di specie, gli Ermellini hanno affermato che il solo difetto di una  iniziale materiale convivenza, non esclude che la circostanza di condivisa genitorialità derivante dalla filiazione possa ammettere le condizioni per l’applicabilità dell’art. 572 c.p., se la filiazione non è stata il risultato casuale dei rapporti sessuali, qualora si sia instaurata una  relazione di carattere sentimentale, tale da ingenerare l’aspettativa di un vincolo di solidarietà personale autonoma rispetto ai vincoli giuridici derivanti dalla filiazione.

Sulla base di queste considerazioni, la Cassazione ha annullato la sentenza impugnata  con rinvio per un nuovo esame degli eventuali elementi al fine di poter affermare se prima della nascita del figlio si fosse instaurata fra l’imputato e la persona offesa una relazione tale da ingenerare l’aspettativa di un vincolo di solidarietà personale.

Maltrattamenti in famiglia – Rif. Leg. art. 572 c.p.

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRONCI Andrea – Presidente –
Dott. COSTANZO Angelo – rel. Consigliere –
Dott. GIORGI Maria Silvia – Consigliere –
Dott. ROSATI Martino – Consigliere –
Dott. SILVESTRI Pietro – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
C.C., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 19/12/2018 della CORTE APPELLO di MESSINA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. COSTANZO Angelo;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott. DE MASELLIS Mariella, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
L’avvocato B. F., del foro di MESSINA difensore di fiducia di C.C., deposita nomina, si riporta ai motivi di ricorso.

Svolgimento del processo

1. Con sentenza n. 3328/2018 la Corte d’Appello di Messina ha confermato la condanna inflitta dal Tribunale di Messina il 21/06/2017 a C.C., condannato per i reati a lui ascritti ex art. 572 c.p., comma 1, (capo A assorbito nello stesso il capo B), ex art. 61 c.p., n. 2, art. 81 c.p. e art. 614 c.p., comma 4, (capo C,), ex art. 582 c.p. (capo E, fatto del (OMISSIS)), ex art. 582 c.p. (capo F, fatto del (OMISSIS)), ex artt. 81 e 581 c.p. e art. 612 c.p., comma 1 (capo G), tutti in danno di B.O., madre del figlio comune C.A., riuniti ex art. 81 c.p., comma 2.

2. Nel ricorso presentato dal difensore del C. si chiede l’annullamento della sentenza.

2.1. Con il primo motivo si deducono inosservanza e erronea applicazione degli artt. 572 e 612 bis c.p. nel ritenere sussistente un rapporto di tipo familiare (mentre il Giudice per le indagini preliminari aveva qualificato ex art. 612 bis c.p. i fatti contestati nei capi A e B) anche sulla base dell’avvenuto concepimento del figlio, ma trascurando che C. e B. non sono mai stati conviventi e che i fatti sono avvenuti dopo la nascita del loro figlio, quando i due conducevano vite autonome, collegate solo dalla gestione del figlio, e che tutti i dati acquisiti (la dichiarazione della persona offesa, di un altro suo figlio nato da un’altra unione della B.) escludono l’esistenza di una relazione affettiva al momento dei fatti che, pertanto, dovrebbero qualificarsi ex art. 612-bis c.p..

2.2. Con il secondo motivo di ricorso, si deduce inosservanza dell’art. 192 c.p.p., commi 1 e 2, mancando riscontri esterni che confermino e una valutazione circa la sua credibilità soggettiva e l’attendibilità del suo racconto considerata anche la conflittualità dei rapporti con l’imputato. Si evidenzia che la B. non risulta avere mai modificato il proprio sistema di vita, il che esclude che temesse C., né suo figlio ha mai riferito di aggressioni fisiche da parte dell’imputato.

Inoltre, si rileva che il reato di violazione di domicilio (capo C) viene ravvisato sulla base delle sole dichiarazioni della persona offesa e senza risolvere la questione relativa alla compatibilità, fra i reati di maltrattamenti e la violazione di domicilio dovendosi presupporre un domicilio comune.

Con riferimento ai capi E, F e G, si osserva che non è chiaro come la Corte ritenga le dichiarazioni di F.M. idonee a fornire un “pieno riscontro” alle accuse della persona offesa considerato che la teste ha escluso di avere assistito all’aggressione e di avere notato solo un arrossamento (inidoneo a configurare una lesione), mentre, se sussistessero solo percosse, la condotta andrebbe assorbita nel reato di maltrattamenti.

Con riferimento alle percosse e alle minacce (capo G), si deduce mancanza di motivazione circa l’ipotesi aggravata ex art. 612 c.p., comma 2, per cui ricorrerebbe solo una minaccia semplice per la procedibilità del quale manca la querela, mentre, comunque, la condotta descritta nel capo G non costituisce percossa perché inidonea a produrre dolore fisico.

2.3. Con il terzo motivo di ricorso, si deduce violazione degli artt. 88, 99 e 90 c.p. nel rigettare la richiesta di rinnovazione del dibattimento per valutare se lo stato di “psicolabilità strutturato” del ricorrente costituisca vizio totale o parziale di mente.

2.4. Con il quarto motivo di ricorso, si deduce erronea applicazione dell’art. 133 c.p. e art. 62 bis cod. nella determinazione della pena e nel diniego delle circostanze attenuanti generiche, non valorizzando il percorso terapeutico intrapreso e l’incensuratezza dell’imputato, così da ricondurre l’entità della sanzione a misura compatibile con la sospensione condizionale della pena.

Motivi della decisione

1. Conviene trattare, anzitutto, il secondo (composito) motivo di ricorso che risulta parzialmente fondato nei termini che seguono.

1.1. Va ribadito che le dichiarazioni della persona offesa – alle quali non si applicano le regole dettate dall’art. 192 c.p.p., comma 3, – possono essere fondamento dell’affermazione della responsabilità penale, previa verifica, più rigorosa rispetto a quella cui vanno sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto (ex multis: Sez. 2, n. 43278 del 24/09/2015, Rv. 265104; Sez. 5, n. 1666 del 08/07/2014, dep. 2015, Rv. 261730).

Nel caso in esame, la sentenza impugnata ha rilevato che le dichiarazioni della persona offesa, rese sia nelle querele sia in sede di sommarie informazioni, acquisite con il consenso delle parti, e in dibattimento sono “logiche, coerenti, circostanziate e dettagliate”, oltretutto anche confermate dalla dichiarazione di altri testi escussi e dalla documentazione medica in atti.

Invece, il ricorso non si confronta con la parte della sentenza che afferma che, a prescindere dalle dichiarazioni della persona offesa, i fatti “trovano conferma nella documentazione medica in atti” (p. 8). Pertanto, risulta, già sotto questo profilo, aspecifico, mentre, per altro verso, entra inammissibilmente nel merito delle convergenti valutazioni discrezionali del Tribunale e della Corte di appello senza evidenziarne manifeste illogicità.

1.2. Il motivo di ricorso risulta infondato anche nel contestare la sussistenza del reato di cui al capo C. La Corte indica quattro episodi sulla base delle dichiarazioni della persona offesa: tre (del (OMISSIS)) in relazione alle quali il ricorso semplicemente adduce che ” C. era andato dalla B. esclusivamente per vedere il figlio A.” e un quarto (del (OMISSIS)) relativamente al quale il ricorso non si confronta con le argomentazioni svolte dalla Corte di appello che ha considerato come sia stato lo stesso C. a preannunciare la sua condotta, chiamando la B. e minacciandola che, se non fosse tornata, avrebbe fatto a pezzi la casa. Né, per altro verso, la Corte aveva motivo di rispondere alle deduzioni circa la incompatibilità fra la convivenza e la violazione di domicilio perché la sentenza non afferma che vi fosse convivenza fra l’imputato e la persona offesa.

1.3. Invece, il motivo di ricorso risulta fondato nella parte in cui deduce che la condotta (una spinta) descritta nel capo G non costituisce percossa perché inidonea a produrre dolore fisico, infatti la spinta costituisce percossa solo se provoca al soggetto passivo una sensazione fisica di dolore che, dalla ricostruzione del fatto offerta dalla sentenza (p. 9) non risulta esservi stata (Sez. 5, n. 33361 del 2506/2008, non mass.), come pure non emerge quella violenta manomissione dell’altrui persona fisica che è richiesta affinché una spinta integri il reato ex art. 581 c.p. (Sez. 5, n. 51085 del 13/06/2014, Rv. 261451 Sez. 5, n. 11638, Rv. 252953; Sez. 5, n. 51085 del 13/06/2014, Rv. 261451).

Ne deriva l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente al reato di percosse di cui al capo G perché il fatto non sussiste.

1.4. Il motivo di ricorso risulta fondato con riferimento ai reati di lesioni descritti nei capi E e F. La motivazione della sentenza impugnata risulta ellittica sul punto, genericamente assumendo che le lesioni risultano dalle dichiarazioni della persona offesa e trovano conferma nella documentazione medica in atti (p. 8) e, dopo avere rilevato che trattasi di lesioni lievi, mentre correttamente esclude che queste possano qualificarsi come percosse (condizione che comporterebbe l’assorbimento sotto il reato di maltrattamenti) non motiva circa la presenza dell’intento di ledere l’integrità fisica della persona offesa, come è, invece, necessario per escludere l’assorbimento sotto il reato di maltrattamenti (Sez. 5, n. 42599 del 18/07/2018, Rv. 274010; Sez. 3, n. 50208 del 29/04/2015, Rv. 267283). Pertanto, la sentenza impugnata va annullata relativamente ai reati di lesioni personali sub E) e F), con rinvio per nuovo giudizio che sopperisca alle carenze evidenziate.

Invece, il reato di atti persecutori di cui al capo B, nel rispetto della clausola di sussidiarietà prevista dall’art. 612 bis c.p., comma 1, è assorbito in quello di maltrattamenti di cui al capo A (Sez. 5, n. 41665 del 04/05/2016, Rv. 268464; Sez. 6, n. 7369 del 13/11/2012, dep. 2013, Rv. 254026), non giustificandosi, allo stato, l’autonoma imputazione delineata nel capo B. 2. Il primo motivo di ricorso è fondato nei termini che seguono.

Il reato di maltrattamenti presuppone una relazione (tra agente e vittima) che richiede un rapporto stabile di affidamento e solidarietà, per cui le aggressioni che il soggetto attivo compie – sul fisico e sulla psiche del soggetto passivo – ledono la dignità della persona infrangendo un rapporto che dovrebbe essere ispirato a fiducia e condivisione.

In particolare, l’esistenza di una prole comune produce un sistema di obblighi e doveri che i genitori devono rispettare anche se non conviventi: l’obbligo di mantenimento, di educazione, di istruzione e in generale di assistenza morale e materiale verso i figli, ai quali i genitori sono tenuti a rapportarsi e per l’interesse dei quali devono cooperare nel reciproco rispetto.

La continuità dei contatti necessariamente connessa a questa situazione determina un ambito nel quale condotte lesive della dignità personale possono integrare il reato di maltrattamenti.

Nel confermare la sentenza di primo grado, la Corte di appello ha affermato il principio secondo cui la convivenza non è un presupposto indispensabile per configurare il reato di maltrattamenti, ritenendo sufficiente al riguardo un vincolo di solidarietà atto a generare un rapporto dotato di una certa stabilità con doveri di reciproca assistenza, connesso a una “stabile relazione discendente dal rapporto di filiazione” (p. 7).

La condivisibile giurisprudenza di questa Corte ha riconosciuto il reato di maltrattamenti anche in relazione a situazioni di non convivenza, ma in quanto succedute a precedente convivenza e, quindi, non nel senso di assenza di convivenza ma di cessata convivenza.

Ha affermato che il reato di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche al di fuori della famiglia legittima, in presenza di un rapporto di stabile convivenza, come tale suscettibile di determinare obblighi di solidarietà e di mutua assistenza, senza che sia richiesto che tale convivenza abbia una certa durata, quanto – piuttosto – che sia stata istituita in una prospettiva di stabilità, quale che sia stato poi in concreto l’esito di tale comune decisione (Sez. 6, n. 20647 del 29/01/2008, Rv. 239726; Sez. 3, n. 44262 dell’8/11/2005, Rv. 232904; Sez. 6, n. 21329 del 24/01/2007, Rv. 236757; Sez. 3, n. 44262 del 08/11/2005, Rv. 232904). In particolare, ha ritenuto che pur mancando vincoli nascenti dal coniugio, il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile nei confronti di persona non più convivente more uxorio con l’agente purché questi conservi con la vittima una stabilità di rapporti dipendente dai doveri connessi alla filiazione (Sez. 6, n. 25498 del 20/04/2017, Rv. 270673). Sez. 6, n. 33882 del 08/07/2014, Rv. 262078). Anche in presenza di una relazione sentimentale, che abbia comportato un’assidua frequentazione della abitazione della persona offesa tale da far sorgere sentimenti di solidarietà e doveri di assistenza morale e materiale (Sez. 5, n. 24688 del 17/03/2010, Rv. 248312) o di un rapporto familiare di mero fatto in assenza di una stabile convivenza ma con un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà e assistenza si è riconosciuto il reato di maltrattamenti (Sez. 6, n. 22915 del 07/05/2013, Rv. 25562; Sez. 6, n. 23830 del 07/05/2013, Rv. 256607).

In questa linea, deve ritenersi che, l’assenza di una anche solo iniziale materiale convivenza, non escluda che la situazione di condivisa genitorialità derivante dalla filiazione possa produrre le condizioni per l’applicabilità dell’art. 572 c.p., se la filiazione non è stata un esito occasionale dei rapporti sessuali ma – almeno nella fase iniziale del rapporto – si è instaurata una significativa relazione di carattere sentimentale, tale da ingenerare l’aspettativa di un vincolo di solidarietà personale autonoma rispetto ai vincoli giuridici derivanti dalla filiazione.

Su queste basi, la sentenza impugnata va annullata con rinvio per un nuovo esame degli eventuali elementi che consentano di affermare se prima della nascita del figlio (avvenuta nel 2014, mentre il reato è contestato “dal 2013”)) si era instaurata fra l’imputato e la persona offesa una relazione tale da ingenerare l’aspettativa di un vincolo di solidarietà personale.

3. Il terzo motivo di ricorso è inammissibile perché il ricorrente non si confronta con le argomentazioni a sostegno della sentenza impugnata secondo cui è infondata la richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, in quanto, già il Giudice in primo grado aveva evidenziato che la documentazione medica prodotta dalla difesa attestare solo uno stato ansioso e agitato dell’imputato, che non vale a escludere la punibilità.

4. Sulla base di quanto precede, perde rilevanza attuale il quarto motivo di ricorso concernente il diniego delle circostanze attenuanti generiche.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato di percosse di cui al capo G) perché il fatto non sussiste.

Annulla la sentenza impugnata, relativamente al reato di maltrattamenti, ivi assorbito quello di cui al capo B) della rubrica, ed ai reati di lesioni personali sub E) ed F) e rinvia per nuovo giudizio su tali capi alla Corte di appello di Reggio Calabria.

Così deciso in Roma, il 25 giugno 2019.

https://revelinoeditore.it/2019/08/31/il-curatore-delleredita-giacente-e-lamministrazione-dei-beni-ereditari/

L’assegnazione della casa familiare è legittima anche se la coppia non vi ha mai vissuto Cass. civ. Sez. I, Sent., 7 maggio 2019, n. 12023

(di Valeria Cianciolo – Sez. Ondif di Bologna)

La separazione consensuale è un negozio di diritto familiare avente un contenuto essenziale – il consenso reciproco a vivere separati, l’affidamento dei figli, l’assegno di mantenimento ove ne ricorrano i presupposti – ed un contenuto eventuale, non direttamente collegato al precedente matrimonio, ma costituito dalle pattuizioni che i coniugi intendono concludere in relazione all’instaurazione di un regime di vita separata, a seconda della situazione pregressa e concernenti le altre statuizioni economiche.

Dunque, l’accordo mediante il quale i coniugi pongono consensualmente termine alla convivenza può includere ulteriori pattuizioni. Si tratta di accordi distinti da quelli che definiscono il suo contenuto tipico e ad esso non immediatamente riferibili. Detti accordi sono collegati, con il patto principale, ma pur trovando la loro occasione nella separazione consensuale, non hanno causa in essa, risultando semplicemente assunti “in occasione” della separazione medesima, senza dipendere dai diritti e dagli obblighi che derivano dal perdurante matrimonio, ma costituendo espressione di libera autonomia contrattuale (nel senso che servono a costituire, modificare od estinguere rapporti giuridici patrimoniali.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ACIERNO Maria – Presidente –
Dott. TRICOMI Laura – rel. Consigliere –
Dott. SCALIA Laura – Consigliere –
Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –
Dott. CAMPESE Eduardo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 14626/2016 proposto da:

S.C., elettivamente domiciliato in Roma, Viale G. XXXXX n. 123, presso lo studio dell’Avvocato V. S., che lo rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
D.M.S., elettivamente domiciliata in Roma, Via XXXXX n. 36, presso lo studio dell’Avvocato S. F., che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato Z. S. C., giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 319/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 18/01/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/03/2019 dal cons. TRICOMI LAURA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale DE RENZIS LUISA, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito, per il ricorrente, l’Avvocato V. S., che si è riportato;
udito, per il controricorrente, l’Avvocato S. F., che si è riportato.

Svolgimento del processo

S.C. propone ricorso per la cassazione della sentenza in epigrafe indicata nei confronti di D.M.S. con due mezzi, seguiti da memoria. D.M. replica con controricorso e memoria.

La Corte di appello di Roma, in parziale riforma della decisione di primo grado, assegnava a D.M.S., collocataria della figlia, l’abitazione sita in (OMISSIS), già destinata convenzionalmente ad abitazione della D.M. e della figlia, alla stregua degli accordi conclusi in sede di separazione consensuale, e confermava la misura dell’assegno di mantenimento per la figlia posto a carico del S..

La controversia perviene all’odierna udienza a seguito di rinvio a nuovo ruolo disposto dalla Sezione Sesta – Prima con ordinanza interlocutoria in data 27/10/2017.

Motivi della decisione

1.1. Con il primo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione di norme di legge. Il ricorrente, sulla premessa che la disciplina relativa alla assegnazione della casa familiare non presenta differenze a seconda che attenga a separazione o a divorzio, sostiene che la Corte di appello di Roma non si sarebbe attenuta alla definizione di casa familiare ed all’interpretazione delle relative norme seguita in sede di legittimità: in proposito rammenta che l’abitazione sita in (OMISSIS) assegnata alla D.M. ed alla figlia, pur acquistata allo scopo di costituire l’abitazione familiare dai due coniugi, non era stata mai stata abitata dall’intero nucleo familiare e la D.M. e la figlia vi si erano trasferite solo a seguito della separazione consensuale omologata in data (OMISSIS), con la quale le parti avevano ciò convenuto al punto 3.

1.2. Il primo motivo è inammissibile perché non coglie la ratio decidendi della sentenza impugnata.

Invero, come si evince dalla motivazione, la statuizione non ignora i principi interpretativi in tema di casa familiare, ma prende atto e si sofferma sulla peculiarità della vicenda in esame rimarcando, con un accertamento in fatto non contestato, che nello specifico con i patti di separazione consensuale le parti liberamente e convenzionalmente avevano deciso di destinare a stabile dimora della figlia, all’epoca minore, e della madre collocataria il predetto immobile (di cui i coniugi erano comproprietari) e sulla scorta di tale circostanza ha affermato che l’assegnazione rispondeva all’esigenza di tutela degli interessi della figlia, con particolare riferimento alla conservazione del suo habitat domestico, inteso come centro della vita e degli affetti della medesima, anche se tale habitat, nella peculiarità del caso concreto, era sorto per volontà comune dei genitori proprio a seguito della separazione.

La statuizione invero, anche se in maniera sintetica, valorizza da un lato la fonte dell’obbligazione, e cioè, il patto sottoscritto convenzionalmente in sede di separazione, e dall’altro l’effetto concreto conseguito alla sua attuazione nel corso degli anni, e cioè la creazione di un ambiente domestico da tutelare per la figlia.

Il motivo di ricorso, focalizzato esclusivamente sulla disciplina codicistica, trascura del tutto il cuore motivazionale della statuizione senza, peraltro, smentire né diversamente illustrare la comune volontà delle parti, emergente dai patti di separazione, in merito alla volontà di attribuire all’abitazione in questione la funzione di casa familiare.

Sotto questo profilo la statuizione appare immune da vizi.

Risulta invero decisiva la circostanza che l’assegnazione dell’immobile in questione sia conseguita alla pregressa pattuizione concordata tra le parti in sede di separazione.

Come questa Corte ha già avuto modo di chiarire, la separazione consensuale è un negozio di diritto familiare avente un contenuto essenziale – il consenso reciproco a vivere separati, l’affidamento dei figli, l’assegno di mantenimento ove ne ricorrano i presupposti – ed un contenuto eventuale, che trova solo occasione nella separazione, costituito da accordi patrimoniali del tutto autonomi che i coniugi concludono in relazione all’instaurazione di un regime di vita separata, tanto che “in relazione a questi ultimi, detti patti non sono suscettibili di modifica (o conferma) in sede di ricorso “ad hoc” ex art. 710 c.p.c. o anche in sede di divorzio, la quale può riguardare unicamente le clausole aventi causa nella separazione personale, ma non i patti autonomi, che restano a regolare i reciproci rapporti ai sensi dell’art. 1372 c.c.” (Cass. n. 16909 del 19/08/2015).

Va altresì ricordato che i patti di separazione in tanto possono essere omologati in quanto siano conformi ai superiori interessi della famiglia (Cass. n. 9174 del 09/04/2008).

Nel caso di specie la pattuizione convenzionale di cui si discute come correttamente ritenuto dalla Corte di appello – era intesa ad assicurare una stabile dimora per la figlia mediante la destinazione a tale scopo dell’abitazione in questione, con una modalità diversa da quella dettata dal c.c. che all’epoca prevedeva all’art. 155, comma 4, vigente ratione temporis “L’abitazione familiare spetta di preferenza, e ove possibile, al coniuge cui vengono affidati i figli”, avendo le parti prescelto, a tale scopo, un’abitazione diversa da quella ove aveva in precedenza abitato il nucleo familiare, sia pure situata nel medesimo edificio, e l’avvenuta omologazione ne aveva sancito la conformità agli interessi della famiglia e della minore.

Ciò permette di concludere che la statuizione in esame non integra una ordinaria applicazione della disciplina codicistica in tema di casa familiare, come intende sostenere il ricorrente lamentandone l’erroneità, ma si fonda sulla accertata ed incontestata circostanza che l’assegnazione della casa di cui si controverte (in comproprietà tra i coniugi) alla D.M. conseguì all’accordo raggiunto dalle stesse parti in sede di separazione consensuale di destinarla a stabile abitazione familiare per la figlia, all’epoca minore, accordo ritenuto meritevole di tutela e, quindi, omologato in quanto non in conflitto con il disposto di cui all’art. 155 c.c., del quale avrebbe altrimenti costituito un’illecita elusione, ed in quanto destinato a produrre i suoi effetti, in assenza di modifiche della situazione di fatto, anche nella successiva fase del divorzio.

2.1. Con il secondo motivo si denuncia l’omesso esame di atti e documenti decisivi per il giudizio, sia in merito alla questione della destinazione abitativa di cui al primo motivo, sia in merito alla determinazione dell’assegno di mantenimento previsto a favore della figlia per il quale, a dire del ricorrente, la Corte di appello non avrebbe valutato la maggiore disponibilità economica della madre, il cui reddito negli anni si sarebbe incrementato, rispetto al proprio, ridimensionatosi nel tempo.

2.2. Il secondo motivo è inammissibile perché non risponde al modello del vizio motivazionale dedotto in quanto non individua specifici fatti decisivi di cui sia stato omesso l’esame e sostanzialmente sollecita, sia in merito alla casa familiare che all’assegno di mantenimento per la figlia, una rivalutazione delle emergenze istruttorie, conforme a quanto propugnato dallo stesso ricorrente, inammissibile in sede di legittimità.

3. In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo.

Sussistono i presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

Va disposto che in caso di diffusione della presente sentenza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 30 giugno 2003 n. 196, art. 52.

P.Q.M.

– Dichiara Inammissibile il ricorso;

– Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 3.100,00=, oltre Euro 200,00= per esborsi, spese generali liquidate forfettariamente nella misura del 15% ed accessori di legge;

– Dà atto, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis;

– Dispone che in caso di diffusione della presente sentenza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 30 giugno 2003 n. 196, art. 52.

Così deciso in Roma, il 15 marzo 2019.

Adozione internazionale e congedo parentale Cassazione civile, sezione lavoro, sent. 29 maggio 2019, n. 14678

(di Valeria Cianciolo – Sez. Ondif di Bologna)

L’ingresso del minore e dei genitori adottanti nel territorio nazionale realizza l’evento giuridico che deve essere considerato come momento di inizio del definitivo inserimento all’interno del nucleo familiare, mentre tale situazione non può dirsi giuridicamente presente nelle fasi antecedenti, pur se è già avvenuto il contatto umano che non è venuto meno nel tempo.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. D’ANTONIO Enrica – Presidente –
Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –
Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –
Dott. GHINOY Paola – Consigliere –
Dott. CALAFIORE Daniela – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 3827/2014 proposto da:

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli Avvocati A.C., V. T., V. S.;

– ricorrente –

contro

B.A., elettivamente domiciliato in ROMA, xxxxx, presso lo studio dell’avvocato R. M., che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 838/2013 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 06/08/2013 R.G.N. 694/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/03/2019 dal Consigliere Dott. DANIELA CALAFIORE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato V. S.

Svolgimento del processo

1. La Corte d’appello di Torino, con sentenza n. 838/2013, ha accolto l’appello proposto da B.A. nei confronti dell’INPS avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva rigettato la sua domanda tesa ad ottenere il congedo parentale per astensione facoltativa per il periodo 27 dicembre 2010 – 20 febbraio 2011 relativa all’adozione, unitamente alla moglie, di un minore cittadino polacco di cui il Tribunale rionale di Wolsztyn aveva disposto l’inserimento in famiglia dal (OMISSIS) e l’adozione con decreto del 12 gennaio 2011, mentre la Presidenza del Consiglio dei Ministri aveva autorizzato l’ingresso e la residenza permanente in Italia con decreto del 2 febbraio 2011.

2. Ad avviso della Corte territoriale, al contrario di quanto ritenuto dal primo giudice, il D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 36, non vincolerebbe il diritto al congedo parentale all’ingresso del minore in Italia ma farebbe riferimento testuale all’ingresso del minore in famiglia ed inoltre, senza alcuna contestazione da parte dell’Inps, si era anche allegato che il bambino era stato affidato alla famiglia adottiva il (OMISSIS) in Polonia e che da tale data egli era rimasto ininterrottamente con la stessa famiglia. Una diversa interpretazione si esporrebbe, ad avviso della sentenza impugnata, a rilievi di incostituzionalità per contrasto con l’art. 3 Cost., giacché per l’ipotesi di adozione nazionale non vi è dubbio che il congedo parentale possa essere fruito sin dall’ingresso in famiglia del minore.

3. Avverso tale sentenza ricorre per cassazione l’INPS sulla base di un motivo illustrato da memoria. B.A. resiste con controricorso.

Motivi della decisione

1. Con l’unico motivo di ricorso, si deduce la violazione e o falsa applicazione del combinato disposto del D.Lgs. n. 151 del 2001, artt. 26, 31 e 36, e succ. modif. con riferimento all’art. 12 preleggi. Chiarisce l’Istituto ricorrente che la questione controversa concerne la spettanza del diritto al congedo parentale ed alla relativa indennità, ai sensi del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 36, in caso di adozione internazionale in favore di un padre adottivo lavoratore dipendente, prima dell’ingresso del minore straniero in Italia. In particolare, la sentenza impugnata avrebbe errato in diritto ammettendo la possibilità per il padre adottivo di fruire del congedo parentale anche nel periodo trascorso all’estero in ragione della corretta interpretazione del citato art. 36, derivante dalla sua collocazione all’interno del complessivo sistema dei congedi familiari ed in particolare alla luce sia dell’art. 26, D.Lgs. cit. (che espressamente consente una fruizione anche anticipata del solo congedo di maternità nel periodo precedente all’ingresso del minore in Italia nella sola ipotesi di adozione internazionale), che dell’art. 31, D.Lgs. cit. (che estende al padre lavoratore dipendente il disposto dell’art. 26 cit.). Dal confronto di tali disposizioni con l’art. 36, D.Lgs. cit., ad avviso del ricorrente, si evince che la tutela della genitorialità, complessivamente, consiste nella possibilità per la lavoratrice madre di fruire del congedo di maternità nei cinque mesi successivi all’ingresso del minore in Italia, a seguito dell’autorizzazione rilasciata dalla Commissione per le adozioni internazionali presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri; inoltre, ferma la durata massima del periodo di astensione per maternità, la lavoratrice può fruire anche parzialmente del congedo di maternità prima dell’ingresso del minore in Italia e ciò al fine di consentirle la permanenza all’estero per l’incontro con il minore e gli adempimenti necessari per la procedura adottiva; il periodo non fruito prima dell’ingresso in Italia del minore va fruito entro i cinque mesi successivi a tale momento; la lavoratrice nei periodi di permanenza all’estero, in alternativa all’anticipo di cui si è detto, può avvalersi di periodi di congedo dal lavoro non retribuiti né indennizzati, in entrambi i casi, la permanenza all’estero della lavoratrice va certificata dall’ente autorizzato incaricato di espletare la procedura di adozione; in alternativa alla lavoratrice madre, in caso di impossibilità di fruizione della stessa per decesso, grave infermità, ecc. ovvero in caso di rinuncia, ai sensi dell’art. 31, commi 1 e 2, D.Lgs. cit., tali diritti spettano al padre adottivo alle medesime condizioni previste per la madre; ad entrambi i genitori, infine, spetta il congedo parentale nel periodo e per la durata indicati al D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 36, decorrenti dall’ingresso del minore in famiglia. Dalla complessiva considerazione di tale sistema di tutele si ricaverebbe, dunque, l’insussistenza del diritto del padre adottivo di minore di nazionalità straniera ad ottenere il congedo parentale prima dell’ingresso del minore in Italia, anche se prima di tale di momento il minore sia stato affidato alla famiglia adottiva in territorio estero.

2. Il motivo è fondato.

3. La questione va esaminata verificando se la peculiarità e complessità dell’istituto dell’adozione internazionale (di cui alla L. n. 476 del 1998, di ratifica ed esecuzione della Convenzione per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, fatta a L’Aja il 29 maggio 1993, contenente modifiche alla L. 4 maggio 1983, n. 184) incida ed in che termini sui contenuti del diritto alla fruizione del congedo parentale da parte del padre adottivo in ipotesi di adozione nazionale.

4. Il tessuto normativo di cui si discute trae le proprie origini dalla L. n. 903 del 1977, artt. 6 e 7, sulla parità di trattamento, in riferimento alle adozioni e agli affidamenti pre-adottivi. Tali disposizioni furono estese all’affidamento familiare temporaneo dalla legge sulle adozioni e affidi (L. n. 184 del 1983, art. 80, comma 2, sulla disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori) e poi adattate ad opera della Corte costituzionale, soprattutto, con le sentenze n. 332 del 1988 e n. 341 del 1991.

5. La disciplina di tutela è stata adeguata a quella prevista per la nascita in sede di riforma ad opera della L. n. 53 del 2000, con un intervento limitato a un solo comma che non tiene conto delle modifiche quasi contemporaneamente apportate, per le adozioni e gli affidi preadottivi internazionali, dalla legge di ratifica della Convenzione dell’Aja (la n. 476 del 1998, che ha inserito l’art. 39 quater, all’interno della L. n. 184 del 1983).

6. Nel corso del 2001, mantenendosi una divaricazione già segnalata in dottrina tra disciplina lavoristica e civilistica in tema di adozione internazionale, sono stati varati contestualmente, in chiusura della tredicesima legislatura, il Testo unico (D.Lgs. n. 151 del 2001) e l’ultima riforma della disciplina in materia di adozioni e affidi (L. n. 149 del 2001, che ha dettato ulteriori modifiche alla L. n. 184 del 1983, in particolare sostituendo l’art. 80).

7. La disciplina contenuta nel testo unico n. 151 del 2001, che costituisce un’opera di riordino e riorganizzazione della previgente normativa, comprese le innovazioni e abrogazioni già intervenute prima della sua adozione, per grandi linee, prevede: a) il riconoscimento di una astensione dal lavoro a favore della madre (Capo III t.u.), definita congedo di maternità (art. 2, comma 1, lett. a, tu.), nonché del padre (Capo IV t.u.), definita congedo di paternità (art. 2, comma 1, lett. b, t.u.); b) una successiva astensione a titolo di congedo parentale (art. 2, comma 1, lett. c, t.u.), riconosciuto a entrambi i genitori (Capo V t.u.).

8. La disciplina del Testo unico attribuisce rilevanza alla filiazione giuridica e la inserisce specificamente all’interno della disciplina che ciascun capo dedica ai diversi tipi di congedo. La separazione di disciplina tra adozioni e affidi nazionali ed adozioni e affidi internazionali è limitata a poche differenze di trattamento, derivanti dalla regolamentazione dell’istituto delle adozioni.

9. In via di sintesi, può affermarsi che nel caso di minori stranieri:

– quando si parla di affidamento, ci si riferisce solo all’affidamento pre-adottivo, posto che non può verificarsi il caso dell’affidamento provvisorio o temporaneo;

– è previsto il diritto alla permanenza all’estero di ciascuno degli aspiranti genitori per tutto il tempo necessario, così come certificato dall’ente autorizzato (art. 27, commi 2 e 3, per la lavoratrice, e art. 31, comma 2, per il lavoratore, D.Lgs. n. 151 del 2001); si tratta di un congedo che ovviamente può essere fruito assieme da parte dei due lavoratori, ma che non dà diritto a copertura economica nè previdenziale, essendo solo garantita la salvaguardia del rapporto di lavoro subordinato; questo congedo preliminare, alle diverse condizioni di tutela previste, costituisce deroga al principio – previsto per le adozioni nazionali- che i congedi decorrono solo successivamente all’ingresso del bambino nel nucleo familiare; a questi fini, la durata del periodo di permanenza all’estero è certificata dall’ente autorizzato che ha ricevuto l’incarico di curare la procedura di adozione;

– se si tratta di adozione nazionale, il congedo di maternità (obbligatorio) da fruire spetterà per i primi cinque mesi successivi all’effettivo ingresso del minore in famiglia, mentre in caso di adozione internazionale, il congedo – a scelta della lavoratrice o del lavoratore – potrà essere goduto sempre nel limite temporale complessivo dei cinque mesi predetti): a) prima dell’ingresso del minore in Italia, durante il periodo di permanenza all’estero per l’incontro con il minore e gli adempimenti della procedura adottiva; b) entro i cinque mesi successivi all’ingresso del minore in Italia;

– quanto alla disciplina del congedo parentale (facoltativo) e del congedo per la malattia del figlio è la medesima sia per l’adozione internazionale che per quella nazionale e la separazione della disciplina in due articoli (artt. 36 e 37) nel capo sui congedi parentali, rispettivamente per le adozioni e affidi nazionali e per quelli internazionali, pare dovuta alla necessità che il Testo unico includesse anche la disciplina prevista in altra sede (rispetto all’art. 39 quater e, precisamente, nell’art. 31, comma 3, lett. n) della legge sulle adozioni e di precisare che l’ente autorizzato deve limitarsi a certificare la durata del congedo stesso, senza possibilità di intervenire sulla sua estensione.

10. Ciò premesso, al fine di giungere alla soluzione della questione oggetto del ricorso, il quadro va completato con gli specifici riferimenti alla complessa procedura di adozione internazionale che, in esecuzione della Convenzione dell’Aja come sopra ricordata, è stata introdotta con la L. n. 476 del 1998, che, modificando la L. n. 183 del 1984, sulle adozioni, ha previsto l’intervento della commissione centrale per le adozioni internazionali quale organismo che presiede alle fasi amministrative del procedimento di adozione.

11. Tale commissione verifica l’opera degli enti autorizzati che sono i soli abilitati dalla legge a curare le procedure di adozione internazionale. In particolare, ai sensi della L. n. 476 del 1998, art. 3, che ha sostituito il Capo I del Titolo III della L. 4 maggio 1983, n. 184, l’ente autorizzato ” (…) informa immediatamente la Commissione, il tribunale per i minorenni e i servizi dell’ente locale della decisione di affidamento dell’autorità straniera e richiede alla Commissione, trasmettendo la documentazione necessaria, l’autorizzazione all’ingresso e alla residenza permanente del minore o dei minori in Italia; h) certifica la data di inserimento del minore presso i coniugi affidatari o i genitori adottivi; i) riceve dall’autorità straniera copia degli atti e della documentazione relativi al minore e li trasmette immediatamente al tribunale per i minorenni e alla Commissione; l) vigila sulle modalità di trasferimento in Italia e si adopera affinché questo avvenga in compagnia degli adottanti o dei futuri adottanti; m) svolge in collaborazione con i servizi dell’ente locale attività di sostegno del nucleo adottivo fin dall’ingresso del minore in Italia su richiesta degli adottanti; n) certifica la durata delle necessarie assenze dal lavoro, ai sensi dell’art. 39 quater, comma 1, lett. a) e b), nel caso in cui le stesse non siano determinate da ragioni di salute del bambino, nonché la durata del periodo di permanenza all’estero nel caso di congedo non retribuito ai sensi del medesimo art. 39 quater, comma 1, lett. c) (…).

12. Dal punto di vista delle tutele previdenziali, dunque la copertura apprestata dall’ordinamento alla presenza dei lavoratori – futuri genitori presso lo Stato estero ed anche il concreto affidamento dell’adottando, propedeutico alla definita adozione del minore ai medesimi genitori adottanti, costituiscono previsioni specifiche e del tutto peculiari. Ciò è vero sia per la possibilità di fruire, in parte, del congedo (obbligatorio) di maternità/paternità indennizzato economicamente (ai sensi del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 26, comma 3) che per la copertura ai fini lavorativi e contributivi derivante dalla permanenza all’estero di ciascuno degli aspiranti genitori per tutto il tempo necessario, così come certificato dall’ente autorizzato (art. 27, commi 2 e 3, per la lavoratrice, e art. 31, comma 2, per il lavoratore, D.Lgs. n. 151 del 2001).

13. Tali tutele non sono espressione di un principio di corrispondenza tra avvicinamento della famiglia al minore in suolo estero ed “ingresso dello stesso in famiglia”, al fine di far ritenere che anche nella fase di sviluppo della procedura in territorio estero possa essere integrata la condizione voluta dalla legge per la fruizione del congedo parentale da parte del padre, non ancora, adottivo ai sensi del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 36.

14. L’ingresso del minore e dei genitori adottanti nel territorio nazionale realizza l’evento giuridico che deve essere considerato come momento di inizio del definitivo inserimento all’interno del nucleo familiare, mentre tale situazione non può dirsi giuridicamente presente nelle fasi antecedenti, pur se è già avvenuto il contatto umano che non è venuto meno nel tempo.

15. In questo senso, dunque, la difformità di fruizione del congedo parentale da parte del padre nell’ipotesi di adozione nazionale ed internazionale è più apparente che reale e non suscita alcun dubbio di incostituzionalità per disparità di trattamento, giacché in quest’ultimo caso è al momento dell’ingresso in territorio nazionale che può dirsi definitivamente realizzato, anche per legge, l’effettivo e stabile inserimento del minore nella famiglia che lo ha adottato.

16. La sentenza impugnata, dunque, ha in effetti violato le norme denunciate giacché ha ritenuto equiparabile all’ingresso in famiglia del minore adottato all’interno del territorio nazionale, la diversa ipotesi dell’affidamento del minore straniero nel territorio d’origine del medesimo in periodo precedente al trasferimento definitivo, unitamente alla famiglia adottiva, presso il territorio dello Stato italiano.

17. Per tale ragione, la sentenza deve essere cassata e rinviata alla stessa Corte d’appello di Torino, in diversa composizione, che esaminerà la domanda proposta da B.A. alla luce del seguente principio di diritto: “In ipotesi di adozione internazionale, il congedo parentale da parte del padre adottivo di minore straniero, ai sensi del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 36, non può essere fruito prima dell’ingresso del minore nel territorio nazionale dello Stato italiano perché solo dopo tale evento avviene il definitivo ingresso del minore in famiglia ed inizia a decorrenza l’arco temporale previsto dal medesimo articolo per la fruizione del congedo”.

18. Il giudice del rinvio provvederà anche a regolare le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Torino, in diversa composizione, cui demanda la regolazione delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 7 marzo 2019.

Le condizioni economico-patrimoniali consentono di legittimare l’attribuzione di un assegno divorzile

(di Valeria Cianciolo – Sez. Ondif di Bologna)

Tribunale di Parma, Sez. I, 12 febbraio 2019 n. 258  (sentenza) pres. Mari, rel. Vena

Alla luce delle linee indicate dalla sentenza delle Sezioni Unite 18287 del 2018, la durata ultra trentennale del matrimonio, il contributo personale dato dalla moglie alla formazione del patrimonio comune e dell’altro coniuge durante la vita matrimoniale› l’insufficienza dei redditi propri e l’età della stessa, prossima ai settanta anni, che certamente non favorisce una ricollocazione nel mercato del lavoro, sono elementi che, unitariamente considerati in rapporto alla condizione economico-patrimoniale dell’attore, consentono di legittimare l’attribuzione di un assegno divorzile.

Assegno di divorzio- Riconoscimento congiunto del diritto all’assegno di divorzio – Controversia sul quantum – Principi disposti da Cass.18287/2018
 (Rif. Leg. art.5 L.898/1970)

Il Tribunale Ordinario di Parma
Prima Sezione Civile
composto dai seguenti Magistrati:
dott. Renato Mari – Presidente
dott.ssa Maria Pasqua Rita Vena – Giudice relatore-estensore
dott.ssa Silvia Grani – Giudice


riunito in camera di consiglio, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa di primo grado iscritta al n. 0000 del Ruolo Generale degli affari contenziosi per l’anno 2014

promossa da
X , elettivamente domiciliato in Milano, via xxxxxx, presso lo studio dell’avv. P. M. del Foro di Milano, che lo rappresenta e difende, giusta delega allegata all’atto di costituzione di nuovo difensore (ricorrente)
contro
Y , elettivamente domiciliata in Parma, strada xxxxxx, presso lo studio dell’avv. M. R., che la rappresenta e difende, giusta delega in calce al ricorso notificato (resistente)
e con l’intervento del
P.M. presso il Tribunale Ordinario di Parma

Oggetto:

Divorzio contenzioso – Cessazione effetti civili del matrimonio

CONCLUSIONI DELLE PARTI COSTITUITE

[Omissis]

FATTO E DIRITTO

Con ricorso depositato il 29/4/2014, X chiedeva all’intestato Tribunale di pronunciare la cessazione degli effetti civili del matrimonio da lui contratto con Y il 20/3/1972, unione dalla quale erano nati due figli, ormai maggiorenni ed economicamente indipendenti. Il X invocava l’applicazione dell’art. 3 n. 2 L. 1.12.1970 n. 898, come successivamente modificato dalla Legge n. 55/2015, dando conto del fatto che i coniugi vivevano separati dal 12/5/2009, data nella quale erano comparsi dinanzi al Presidente del Tribunale nel contesto del giudizio di separazione giudiziale, poi trasformatasi in consensuale ed omologata dal Tribunale di Parma con decreto in data 21/5/2009.

La difesa del ricorrente specificava che le parti erano pervenute ad una soluzione conciliativa del giudizio di separazione, che prevedeva la corresponsione di un assegno di mantenimento in favore della moglie pari a € 3.000,00 mensili, oltre al pagamento delle spese di gestione e delle utenze della casa coniugale; rappresentava, tuttavia, che egli negli ultimi anni aveva subito una contrazione dei propri redditi, sicché non era più in grado di versare l’assegno nella misura concordata in sede separativa.

Chiedeva, quindi – a fronte della propria ridotta capacità reddituale, che vedeva introiti mensili lordi di € 4.000,00 per attività lavorative ed € 3.000,00 per emolumenti pensionistici – che fosse prevista una riduzione dell’importo periodico in favore del coniuge, con rideterminazione in misura pari a € 2.000,00 mensili dell’assegno divorzile da egli dovuto, dichiarandosi comunque disposto a provvedere anche al pagamento delle spese di gestione della casa coniugale e segnatamente delle spese per le utenze, le assicurazioni e la manutenzione del giardino. Il X domandava inoltre che, laddove i suoi introiti fossero ulteriormente calati, l’assegno per la moglie fosse ridotto in misura proporzionale.

Quanto alla casa coniugale, di proprietà di entrambi i coniugi, il X chiedeva che fossero confermate le condizioni concordate in sede di separazione, che prevedevano il godimento separato da parte di ciascun coniuge delle due unità abitative ricavate tramite la chiusura della porta intercomunicante tra il piano seminterrato e i restanti piani. In particolare, la taverna e il garage dovevano restare in uso esclusivo al ricorrente, mentre i restanti piani, il giardino e il posto auto in cortile dovevano essere assegnati in uso alla Y. II mobilio della casa coniugale doveva rimanere ad arredo della stessa casa, per essere diviso solo in un secondo momento, a semplice richiesta di uno dei coniugi ed in maniera paritetica tra gli stessi.

Si costituiva in giudizio Y , la quale aderiva alla domanda di cessazione degli effetti civili del matrimonio, con conseguente declaratoria della perdita del cognome maritale, ma chiedeva che le fosse riconosciuto un assegno divorzile pari a € 5.000,00 mensili e che la casa coniugale fosse a lei assegnata. La resistente rappresentava che la situazione economica del marito era, in realtà, migliorata rispetto a quella sussistente al momento della separazione, avendo il X ceduto nell’anno 2010 le partecipazioni societarie di cui era titolare, con un ricavato complessivo di € 636.000,00.

Con ordinanza riservata depositata in data 26/11/2014, resa all’esito dell’udienza presidenziale, il Presidente del Tribunale, dato atto del fallimento del tentativo di riconciliazione dei coniugi, assumeva i provvedimenti provvisori ed urgenti di propria competenza, confermando le condizioni economiche concordate dai coniugi in sede di separazione (che prevedevano la corresponsione di un assegno di mantenimento in favore della Y pari a € 1.000,00 mensili, oltre al pagamento delle spese di gestione e della utenze della casa coniugale), e nominava il Giudice Istruttore per la prosecuzione della causa nel merito.

Con ricorso in corso di causa, originante il sub procedimento iscritto al n. 2859-1/2014, depositato in data 4/2/2015, ossia a distanza di appena due mesi dall’adozione dei provvedimenti provvisori, il X chiedeva la riduzione ad € 1.000,00 dell’assegno di mantenimento per la moglie, deducendo che la società Dosan Infracore Germany GmbH, con cui egli aveva in precedenza stipulato due contratti di collaborazione (il primo, per il periodo 1.1.2013-31.12.2013; il secondo, per il periodo 1.1.2014-31.12.2014) non aveva più rinnovato per l’anno 2015 il predetto contratto, con la conseguenza che egli aveva subito una drastica contrazione della capacità reddituale.

La Y si opponeva alla chiesta riduzione, contestando la fondatezza degli assunti avversari.

Il Giudice Istruttore rigettava il ricorso, posto che le ragioni poste a fondamento dell’istanza trovavano una secca smentita proprio nella documentazione prodotta dallo stesso ricorrente: invero dalla missiva inviata dalla *** Germany GmbH emergeva che l’incarico di collaborazione con il X era stato in realtà rinnovato quanto meno sino alla data del 31/12/2015, sicché al momento della proposizione del ricorso il rapporto di collaborazione era ancora in atto.

Istruita la causa mediante l’esperimento di indagini di Polizia Tributaria, veniva disposta una CTU contabile-estimativa al fine di verificare la reale situazione economico-patrimoniale del X alla luce dei dati emergenti dalla relazione trasmessa dalla Guardia di Finanza.

Nelle more dell’espletamento della CTU, con ricorso in corso di causa depositato in data 20/1/2017, originante il sub procedimento iscritto al n. 2859-3/2014, il X instava per la riduzione dell’assegno di mantenimento riconosciuto a favore della moglie in sede di provvedimenti provvisori, chiedendo in particolare che l’assegno fosse ridotto ad una somma mensile non superiore ad € 1.000,00, tenuto conto del pignoramento in essere di € 518,00 mensili, o ad € 1.500,00 mensili in caso di cancellazione del pignoramento.

Domandava, inoltre, di essere esonerato dall’obbligo di provvedere al pagamento di tutte le spese ordinarie relative alla casa coniugale, comprensive di imposte, assicurazione e utenze, di cui usufruiva unicamente la Y. Instaurato il contraddittorio anche su questa seconda istanza di modifica, all’udienza del 12/7/2017, su istanza concorde dei procuratori delle parti, la trattazione del ricorso veniva rinviata al 19/12/2017, al fine dell’esperimento di un tentativo di conciliazione tra le parti.

Alla predetta udienza, comparse le parti personalmente, veniva disposto un ulteriore rinvio, sempre su richiesta dei difensori, ai fini della definizione bonaria della vertenza.

Stante l’infruttuoso esperimento da parte del CTU di ogni tentativo volto a trovare un accordo conciliativo tra le parti, all’udienza del 17/5/2018, i procuratori delle parti, dato atto del mancato deposito della CTU, chiedevano che la causa fosse rinviata all’udienza del 3/10/2018 già fissata per la precisazione delle conclusioni.

Indi, all’udienza del 3/10/2018 i difensori delle parti precisavano le proprie conclusioni.

La causa era, quindi, rimessa al Collegio, con concessione del termine ridotto di giorni quaranta per il deposito delle comparse conclusionali e di un ulteriore termine di giorni venti per il deposito delle repliche.

* * *

Ciò premesso in fatto, ritiene questo Collegio che sussistano nel caso di specie i presupposti richiesti dall’art. 3, n. 2 lett. b), L. 1° dicembre 1970, n. 898 come modificato dalla L. 55/2015, per farsi luogo alla pronuncia di divorzio, posto che sono decorsi più di sei mesi dal giorno in cui le parti sono comparse innanzi al Presidente di questo Tribunale nella procedura di separazione consensuale, omologata con decreto in data 21/5/2009.

Il Tribunale deve escludere ogni possibilità di ricostituzione del consorzio familiare: il tempo oramai trascorso dalla separazione, il complessivo tenore delle allegazioni delle parti ed il fatto che il ricorrente ha intrapreso una stabile convivenza con la sua nuova compagna sono tutte circostanze che denotano l’irreversibile crisi del vincolo coniugale e il venir meno della comunione materiale e spirituale tra in coniugi.

Nulla osta pertanto alla declaratoria di cessazione degli effetti civili derivanti dalla trascrizione del matrimonio concordatario contratto dalle parti, ordinandosi al competente ufficiale dello Stato Civile di procedere all’annotazione della presente sentenza.

Alla cessazione degli effetti civili del matrimonio consegue ope legis la perdita del cognome maritale che la moglie aveva aggiunto al proprio.

Sull’assegnazione della casa coniugale

Ciò posto, deve innanzitutto escludersi che ricorrano i presupposti per l’assegnazione della casa coniugale a favore dell’uno o dell’altro coniuge, stante la mancanza di figli minori di età o di figli maggiorenni, ma non ancora economicamente indipendenti, conviventi con le parti. Invero, in materia di separazione e divorzio, il disposto dell’art. 337 sexies c.c., facendo espresso riferimento all’interesse dei figli, conferma che il godimento della casa familiare è finalizzato alla tutela dei predetti. La “ratio” della norma è quella di salvaguardare il preminente interesse della prole, onde evitare che i figli, incolpevoli vittime della separazione dei genitori, abbiano a subire, oltre al trauma psicologico derivante dalla rottura del “consortium” familiare, ulteriori disagi in conseguenza del forzato sradicamento dall’ambiente in cui si sono formati gli affetti ed hanno vissuto fino allora. Ne discende che, in assenza di figli minori o maggiorenni economicamente non autosufficienti, il giudice non potrà adottare con la sentenza di separazione o di divorzio un provvedimento di assegnazione della casa coniugale, con il relativo mobilio, quale che sia il titolo che giustifica la disponibilità dell’abitazione familiare, sia esso un diritto di godimento o un diritto reale, del quale sia titolare uno dei coniugi o entrambi. (Cass. sent. n. 16398 del 24/07/2007). Conseguentemente, nel caso di specie, la casa familiare, con tutti i suoi arredi, essendo in comproprietà tra i coniugi, resta soggetta alle norme sulla comunione, al cui regime dovrà farsi riferimento per l’uso e la divisione della stessa (Cass. sent. n. 6979 del 22/03/2007).

In conclusione, deve essere rigettata sia la domanda di assegnazione dell’intera casa coniugale avanzata dalla Y sia la domanda avanzata dal X di assegnazione a ciascun coniuge di una delle unità abitative, con i relativi arredi, ricavate (già in sede di separazione) tramite la chiusura della porta intercomunicante tra il piano seminterrato e i restanti piani.

Sull’assegno divorzile

Il principale, se non unico, punto di controversia del presente procedimento, per avere impegnato in modo pressoché esclusivo la dialettica processuale, è il quantum dell’assegno divorzile dovuto dal X in favore della Y. Il ricorrente non ha mai messo in discussione il diritto della moglie ad ottenere un assegno post coniugale, riconoscendo che la stessa non dispone di redditi propri, ma ha sempre contestato l’importo preteso, ritenendo che le stesso fosse esoso e sproporzionato rispetto ai propri introiti mensili.

Nel corso del giudizio, il X ha modificato le proprie richieste in punto di quantificazione dell’assegno di mantenimento per la moglie, e segnatamente:

– inizialmente nel ricorso introduttivo, ha chiesto che tale assegno fosse determinato nella misura di € 2.000,00 mensili, manifestando al contempo la volontà di farsi interamente carico delle spese di gestione della casa coniugale ed in particolare delle spese relative alle utenze domestiche, alla manutenzione del giardino e alle assicurazioni;

– poi, con ricorso in corso di causa depositato in data 4/2/2015, ha chiesto che tale assegno fosse ridotto ad € 1.000,00, con esonero dal pagamento delle utenze e delle spese di gestione della casa coniugale;

– poi ancora, nella memoria ex art. 183, comma 6, n. 1 c.p.c. del 29/10/2015 (depositata ancor prima che il Giudice Istruttore rigettasse l’istanza di modifica in precedenza avanzata), ha chiesto che l’assegno fosse riconosciuto nella misura di € 2.000,00 mensili;

– con ricorso depositato in corso di causa il 20/1/2017, ha chiesto che l’assegno fosse ridotto ad una somma mensile non superiore ad € 1.000,00, tenuto conto del pignoramento in essere di € 518,00 mensili, o ad € 1.500,00 mensili in caso di cancellazione del pignoramento.

Infine, in sede di precisazione delle conclusioni, il ricorrente ha chiesto determinarsi l’emolumento in questione in misura pari a € 1.000,00 mensili a far data dal mese di settembre 2018, con esonero dal pagamento delle spese di gestione e dei costi delle utenze della casa coniugale, mentre la Lavagna ha insistito nel domandare per sé un assegno di € 5.000,00 mensili.

Così riassunte le rispettive posizioni delle parti, ai fini della decisione appare necessario soffermarsi sulla recentissima pronuncia delle Sezioni Unite, che, con la sentenza n. 18287/2018 depositata l’1 luglio 2018, ha ridefinito i principi in materia.

Partendo dall’esame del dato normativo di cui all’art. 5 L. Div., nella sua formulazione originaria e poi nella sua versione ultima, come modificata dall’intervento legislativo del 1987, le Sezioni Unite hanno richiamato il proprio iniziale pronunciamento del 1990 (sentenza n. 11490/1990), nel quale era stato affermato che l’assegno divorzile aveva carattere esclusivamente assistenziale, dal momento che il presupposto per la sua concessione doveva essere rinvenuto nella inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, da intendersi come insufficienza degli stessi, comprensivi di redditi, cespiti patrimoniali ed altre utilità disponibili, a conservargli un “tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio“.

A tale affermazione di principio, rimasta ferma per quasi un trentennio, si era recentemente contrapposto altro orientamento, cui aveva dato avvio la sezione prima civile della Cassazione con la sentenza, n. 11504 del 2017, che, pur condividendo la premessa sistematica della rigida distinzione tra criterio attributivo (fondato sulla verifica della sussistenza della inadeguatezza di mezzi del coniuge richiedente, di cui all’ultima parte dell’art. 5, comma 6, L. Div.) e criterio determinativo (fondato sugli elementi di cui alla prima parte della norma cit.), aveva individuato come parametro della inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante – non più il tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio quanto piuttosto – la “non autosufficienza economica” dello stesso, rimarcando come solo all’esito del positivo accertamento di tale presupposto potevano essere esaminati i criteri determinativi dell’assegno indicati nella prima parte della norma.

Le Sezioni Unite del 2018 hanno sottoposto a revisione critica entrambi gli orientamenti richiamati, evidenziando, da un lato, che il criterio attributivo dell’assegno cristallizzato nella sentenza n. 11490/1990 (fondato – come detto – sul mantenimento del tenore di vita matrimoniale) si espone oggettivamente ad un forte rischio di creare indebite rendite di posizione; dall’altro, che l’impostazione prospettata dalla sentenza n. 13504/2017, nel suo dare rilievo esclusivo alla astratta condizione economico-patrimoniale soggettiva dell’ex coniuge richiedente, sconta il fatto di essere del tutto scollegata dalla relazione matrimoniale che pure c’è stata tra i coniugi, e che ha comportato scelte di vita, frutto di decisioni libere e condivise, che possono aver impresso alle condizioni personali ed economiche dei coniugi un corso irreversibile.

I giudici di legittimità con la sentenza n. 18287/2018 hanno statuito il seguente principio di diritto “Ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5 comma 6 dopo le modifiche introdotte con la L. n. 74 del 1987, il riconoscimento dell’assegno di divorzio, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi o comunque dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, attraverso l’applicazione dei criteri di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono il parametro di cui si deve tenere conto per la relativa attribuzione e determinazione, ed in particolare, alla luce della valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dell’avente diritto“, introducendo la necessità di una valutazione complessiva dei parametri normativamente previsti, anche ai fini dell’accertamento del diritto al riconoscimento della provvidenza, e superando la rigida distinzione tra criterio attributivo e criteri determinativi dell’assegno di divorzio.

Si legge al riguardo in particolare “L’eliminazione della rigida distinzione tra criterio attributivo e criteri determinativi dell’assegno di divorzio e la conseguente inclusione, nell’accertamento cui il giudice è tenuto, di tutti gli indicatori contenuti nell’art. 5 c. 6 in posizione equiordinata, consente, in conclusione, senza togliere rilevanza alla comparazione della situazione economica patrimoniale delle parti, di escludere i rischi d’ingiustificato arricchimento derivanti dall’adozione di tale valutazione comparativa in via prevalente ed esclusiva, ma nello stesso tempo assicura tutela in chiave perequativa alle situazioni molto frequenti, caratterizzate da una sensibile disparità di condizioni economico-patrimoniali ancorché non dettate dalla radicale mancanza di autosufficienza economica ma piuttosto da un dislivello reddituale conseguente alle comuni determinazioni assunte dalle parti nella conduzioni della vita familiare“.

La valutazione da compiere è, dunque, quella essenzialmente di accertare il rapporto causale tra la disparità economica eventualmente esistente tra i coniugi e l’impegno profuso dal coniuge economicamente più debole nella conduzione della vita familiare e nella formazione del patrimonio oltre che comune anche dell’altro.

Il pregio della suddetta pronuncia è quello di aver chiarito che l’assegno divorzile assicura al coniuge economicamente più debole una tutela in chiave perequativa, ogni qual volta sussista una sensibile disparità di condizioni economico-patrimoniali (ancorché non dettate dalla radicale mancanza di autosufficienza economica ma piuttosto da un dislivello reddituale conseguente alle comuni determinazioni assunte dalle parti nella conduzione della vita familiare), e al tempo stesso una funzione compensativa, nella misura in cui l’assegno è finalizzato a ristorare il coniuge che abbia sacrificato le proprie ambizioni personali di realizzazione lavorativa in ragione di scelte endofamiliari.

In conclusione, all’assegno divorzile viene attribuita una funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, non finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla gestione del ménage familiare e alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale.

Ciò posto, aderendo all’opzione ermeneutica prospettata dalle Sezioni Unite, quanto al caso concreto, si osserva quanto segue.

L’esame comparato della situazione economico-patrimoniale delle parti attesta una assoluta disparità tra gli ex coniugi.

Dagli atti di causa emerge, quale circostanza pacifica e non contestata, che la Y, oggi sessantottenne, ha dedicato la sua vita alla famiglia e alla crescita dei figli, così consentendo al marito di svolgere a pieno la sua attività professionale. L’età avanzata della resistente e una qualificazione professionale pressoché inesistente hanno oggettivamente impedito alla Y, dopo la separazione, di inserirsi utilmente in un mercato del lavoro, notoriamente poco favorevole per profili come quello della convenuta.

Come risulta dalle dichiarazioni dei redditi prodotte (vd. Modello Unico Persone fisiche anni di imposta 2013-2016) la Y, oltre al reddito da assegno di divorzio, anche se non corrisposto nella sua interezza (il X ha, infatti, versato negli ultimi anni l’importo di € 2.000,00 al mese, costringendo la resistente a ricorrere alla procedura di pignoramento della pensione presso l’INPS), percepisce un modestissimo reddito di circa € 2.600,00 all’anno, relativo all’attività dalla stessa prestata in un’impresa familiare.

Consta, inoltre, che la Y è comproprietaria, unitamente al marito dell’ex casa coniugale. Si tratta di una villetta, sita nel comune di Parma, via *** 8, il cui valore medio di stima – ricavato dal CTU utilizzando i parametri dell’Osservatorio del Mercato Immobiliare (OMI) pubblicati periodicamente dall’Amministrazione Finanziaria – risulta pari a € 424.800,00. Dalle disposte indagini di Polizia Tributaria emerge, altresì, che nell’anno 2014, anno di instaurazione del presente giudizio, la Y era titolare di depositi bancari ed investimenti finanziari per una somma pari a circa € 245.000,00 alla data del 31/12/2014 (vd. relazione Guardia di Finanza).

Quanto, invece, al resistente, il X è attualmente pensionato, avendo come unica fonte di reddito la propria pensione. In precedenza, il X ha svolto l’attività di dirigente e di consulente di azienda, oltre ad essere stato titolare di partecipazioni societarie, che sono state cedute a terzi già prima dell’introduzione del presente giudizio.

Al fine di procedere alla esatta ricostruzione della situazione patrimoniale del X nel corso del giudizio è stata espletata una CTU.

Orbene, dalla relazione peritale emerge che il X ha percepito un reddito annuo netto pari a € 138.346,00 nell’anno di imposta 2012 (reddito netto medio mensile, calcolato su dodici mesi, pari a € 11.529,00), un reddito annuo netto pari a € 75.858,00 nell’anno di imposta 2013 (reddito netto medio mensile, calcolato su dodici mesi, pari a € 6.322), reddito annuo netto pari a € 54.202,00 nell’anno di imposta 2014 (reddito netto medio mensile, calcolato su dodici mesi, pari a € 4.517,00), reddito annuo netto pari a € 55.737,00 nell’anno di imposta 2015 (reddito netto medio mensile, calcolato su dodici mesi, pari a € 4.645,00), reddito annuo netto pari a € 26.609,00 nell’anno di imposta 2016 (reddito netto medio mensile, calcolato su dodici mesi, pari a € 2.217,00).

Rileva, tuttavia, il Tribunale che il reddito netto indicato dai CTU risulta tuttavia già decurtato delle somme versate a titolo di assegno al coniuge (vd. rigo RP22 relativo agli oneri deducibili), somme che invece devono essere computate ai fini della quantificazione della reale capacità reddituale del ricorrente. Sicché non è corretto affermare che il X dispone di entrate mensili pari ad appena € 4.517,00 nell’anno di imposta 2014, pari ad € 4.645,00 nell’anno di imposta 2015 e pari ad € 2.217,00 nell’anno di imposta 2016, posto che tali importi sono stati calcolati al netto dell’assegno di € 2.000,00 mensili versato alla Y: in altri termini, si tratta di ciò che resta in tasca al X dopo aver versato alla moglie l’assegno di mantenimento.

Dagli atti di causa emerge inoltre che il X era intestatario di partecipazioni in due società, la Alfa spa e la EuroBeta spa, riconducibili ad Gruppo Gamma, fino all’esercizio 2010, avendole cedute a terzi nel medesimo esercizio, per complessivi € 657.207,00 , confluiti fra le proprie disponibilità liquide.

A completare il quadro va, infine, rimarcato come il X sia comproprietario, unitamente alla ex moglie, della villetta adibita a casa coniugale, a cui il CTU ha attribuito un valore medio di stima pari a € 424.800,00.

Risulta, inoltre, quale circostanza pacifica e ammessa dallo stesso ricorrente nei propri scritti difensivi, che successivamente alla separazione il X ha intrapreso una stabile convivenza con la sua attuale compagna.

La profilazione degli ex coniugi, come sin qui delineata, consente di svolgere alcune finali considerazioni in merito alla questione in esame. Come già innanzi precisato, non è qui in discussione la spettanza dell’assegno divorzile, poiché lo stesso attore riconosce la sussistenza del diritto in capo alla controparte.

Del resto, la pressoché totale assenza di redditi propri in capo alla Y rende evidente come l’odierna convenuta versi in una situazione di palese inadeguatezza dei mezzi e di incapacità oggettiva di procurarseli, considerata l’età ormai avanzata, la mancanza di una particolare qualificazione professionale e le oggettive difficoltà di immettersi nel mercato del lavoro in queste condizioni.

Ciò posto, prima di procedere alla quantificazione dell’assegno divorzile dovuto dal X, appare opportuno evidenziare che il CTU, nell’espletamento del suo incarico, essendo stata manifestata dalle parti la volontà di giungere ad un accordo transattivo, ha dedicato un considerevole periodo di tempo (dalla data di conferimento dell’incarico, ossia giugno 2017, e fino al mese di marzo 2018) alla attività di mediazione, arrivando a definirne i termini, le condizioni ed il perimetro complessivo della conciliazione, sostanzialmente condiviso dalle parti, con unica eccezione sui tempi e modalità di messa in vendita della casa coniugale.

Questi i termini della conciliazione (cfr. documentazione depositata in atti e allegata all’istanza del CTU del 20.03.2018):

– “importo dell’assegno mensile da corrispondere alla signora Y da parte del signor X: convenuto in € 1.100,00;

– importo una tantum da corrispondere alla signora Y da parte del signor X, a saldo e stralcio e definizione delle complessive richieste della medesima: € 350.000,00 (in un’unica soluzione ricomprendendo anche gli arretrati alimenti non corrisposti dal X);

– suddivisione degli arredi e del mobilio ubicato nella casa coniugale in ragione del 50% ciascuno;

– pagamento delle utenze e delle spese della casa coniugale da parte del signor X, come da sentenza di separazione e fino alla vendita della medesima casa;

– utilizzo della casa coniugale, limitatamente alla taverna e al garage, al signor X, come da sentenza di separazione, fino alla vendita della casa medesima;

– vendita della casa coniugale con divisione del ricavato al 50% tra le parti al netto delle spese di vendita … “.

L’unico punto per il quale le parti non hanno raggiunto l’accordo è quello relativo alle modalità di vendita della casa coniugale, posto che il X ha chiesto che fosse inserito nell’accordo il termine entro il quale procedere alla vendita dell’immobile (al fine di non procrastinare oltremodo i tempi di vendita, con spese onerose di manutenzione, utenze ed assicurazioni a carico del X medesimo), mentre la Y si è opposta alla fissazione di un termine.

Occorre rilevare che i coniugi con la richiamata pattuizione intendevano regolamentare in via definitiva i reciproci rapporti economici, individuando una soluzione conciliativa anche con riferimento alla divisione delle somme ricavate dal X dalla vendita delle quote societarie, dallo stesso acquistate in costanza di matrimonio in regime di comunione legale dei beni.

Appare evidente che si tratta di questioni che esulano dalla decisione di questo Collegio, il quale è chiamato soltanto a stabilire la misura dell’assegno divorzile dovuto a favore della Y.

Orbene, ripercorrendo l’iter logico della pronuncia delle Sezioni Unite del 2018, può rilevarsi quanto segue: l’analisi comparativa della situazione economico reddituale delle parti ha dato conto della sussistenza di una obiettiva e rimarchevole sperequazione delle condizioni dei coniugi. Tale disparità, che vede la moglie in posizione deteriore, ha una relazione causale specifica e diretta con un ruolo endofamiliare trainante assunto dalla Y nei trentasette anni di vita matrimoniale, che ha comportato per la donna il sacrificio delle proprie aspettative reddituali. La Y, dedita alla gestione del ménage familiare e alla cura dei figli, ha così contribuito fattivamente all’arricchimento del marito, consentendo a quest’ultimo di dedicarsi con successo alle proprie attività imprenditoriali.

La natura non solo assistenziale ma anche perequativa-compensativa sottesa all’assegno divorzile impone di procedere, secondo l’interpretazione data dalle Sezioni Unite del 2018, ad una valutazione equiordinata di tutti gli indicatori di cui all’art. 5, comma 6, L. Div.; nel caso in esame, la durata ultratrentennale del matrimonio (i coniugi si sono sposati nel 1972 e si sono separati nel 2009), il contributo personale dato dalla odierna convenuta alla formazione del patrimonio comune e dell’altro coniuge durante la vita matrimoniale (essendosi la Y dedicata a tempo pieno alla cura della casa e alla crescita dei figli)› l’insufficienza dei redditi propri (circa € 2.100,00 annui) e l’età della stessa (oggi sessantottenne), che certamente non favorisce una ricollocazione nel mercato del lavoro, sono elementi che, unitariamente considerati in rapporto alla condizione economico-patrimoniale dell’attore come sopra dettagliatamente descritta, consentono di legittimare l’attribuzione di un assegno divorzile in favore della Y nella misura di € 1.500,00 mensili, rivalutabili annualmente secondo gli indici ISTAT, fissando la decorrenza dell’assegno divorzile nella misura sopra determinata a far data dal mese di gennaio 2016, in ragione della flessione reddituale che può ascriversi all’attore negli ultimi anni.

Mentre per il periodo precedente, ossia dalla data di deposito del ricorso (aprile 2014) sino al mese di gennaio 2015, deve confermarsi quanto disposto dal Presidente del Tribunale con ordinanza del 10-26 novembre 2014.

Quanto dovuto a titolo di assegno divorzile, dovrà essere corrisposto dal X entro il giorno dieci di ogni mese, mediante accredito sul conto corrente bancario intestato alla Y, la quale dovrà fornire al X le relative coordinate bancarie.

Deve infine dichiararsi cessato, a far data dalla pubblicazione della presente sentenza, l’obbligo, posto a carico del X in sede di separazione consensuale, di provvedere al pagamento delle spese di gestione della casa coniugale e segnatamente delle spese relative alle utenze domestiche delle quali fruisce unicamente la Y, con la precisazione che tutti gli ulteriori oneri connessi alla predetta abitazione (quali, imposte, spese di manutenzione, eventuali spese di assicurazione, ecc.) graveranno su entrambi i coniugi, in quanto comproprietari.

Devono ritenersi assorbite dalla presente decisione le questioni oggetto del sub procedimento iscritto al n. 2859-3/2014 R.G.

Sulle spese di lite

Considerata la reciproca soccombenza delle parti in relazione all’unica questione effettivamente controversa, sussistono i presupposti per una integrale compensazione delle spese di lite, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 92 c.p.c.

Le spese di CTU, come liquidate con separato decreto, sono definitivamente poste a carico di entrambe le parti solidalmente.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, in contraddittorio delle parti, ogni diversa domanda ed eccezione disattesa e respinta, così dispone:

1) rigetta le reciproche domande di assegnazione della casa coniugale, con i relativi arredi, avanzate dalle parti;

2) pone a carico di X l’obbligo di versare a favore di Y la somma mensile di € 1.500,00 a titolo di assegno divorzile, importo, rivalutabile annualmente in base all’ISTAT, con decorrenza dal mese di gennaio 2016, fermo per il progresso quanto disposto con l’ordinanza presidenziale del 10-26 novembre 2014. Quanto dovuto a titolo di assegno divorzile, dovrà essere corrisposto dal X entro il giorno dieci di ogni mese, mediante accredito sul conto corrente bancario intestato alla Y, che dovrà indicare al X le relative coordinate bancarie;

3) dichiara cessato, a far data dalla pubblicazione della presente sentenza, l’obbligo, posto a carico del X in sede di separazione consensuale, di provvedere al pagamento delle spese relative alle utenze domestiche delle quali fruisce unicamente la Y, con la precisazione che tutti gli ulteriori oneri connessi alla predetta abitazione (quali, imposte, spese di manutenzione, eventuali spese di assicurazione, ecc.) graveranno su entrambi i coniugi, in quanto comproprietari;

4) dichiara assorbite dalla presente decisione le questioni oggetto del sub-procedimento iscritto al n. 2859-3/2014 R.G., instaurato a seguito del ricorso proposto da X ;

5) compensa integralmente le spese di lite tra le parti; pone le spese di CTU, come liquidate con separato decreto, a carico di entrambe le parti solidalmente.

Così deciso in Parma nella Camera di Consiglio della Sezione Prima Civile in data 10 gennaio 2019.

IL GIUDICE EST.

dott.ssa Maria Pasqua Rita Vena

IL PRESIDENTE

dott. Renato Mari

Depositato in Cancelleria il 12 febbraio 2019.

Il provvedimento di assegnazione della casa coniugale è equiparabile alle locazioni – Tribunale di Bologna, 3 aprile 2019, ordin. ex art. 702 ter

(di Valeria Cianciolo – Sez. Ondif di Bologna)

Il provvedimento di assegnazione della casa coniugale è equiparabile alle locazioni; lo stesso, pertanto, in forza dell’art. 1599 c.c., è opponibile al terzo acquirente per il periodo di nove anni dall’assegnazione, qualora non sia stato trascritto, e anche oltre i nove anni qualora sia stato trascritto.

TRIBUNALE ORDINARIO DI BOLOGNA
SECONDA SEZIONE CIVILE

Nella causa civile iscritta al n. r.g. 15841/2016 promossa da:
AGRICOLA ALFA S.R.L. (C.F. ***), con il patrocinio dell’avv. C. A. elettivamente domiciliato in xxxxxx Bologna presso il difensore avv. C. A.
RICORRENTE
contro
X, in proprio e in qualità di genitore esercente la responsabilità genitoriale sulla minore D. , con il patrocinio dell’avv. V. M. e dell’avv. R. P. xxxxxx  BOLOGNA, elettivamente domiciliato in xxxxxx Bologna presso il difensore avv. V. M.
RESISTENTE
e
con il patrocinio dell’avv. G. I. elettivamente domiciliato in xxxxxx Bologna presso il difensore avv. G. I.
RESISTENTE
e
con il patrocinio dell’avv. M. A. elettivamente domiciliato in xxxxxx BOLOGNA presso il difensore avv. M. A.
TERZO CHIAMATO

sciogliendo la riserva assunta in data 28 marzo 2019, letti gli atti e i documenti allegati e viste le istanze ed eccezioni formulate dalle parti, ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
La causa è sufficientemente istruita su base documentale ed all’esito della trattazione può essere decisa senza l’assunzione di ulteriori mezzi istruttori.

La domanda non è meritevole di accoglimento.

1. Con ricorso ex art. 702 bis c.p.c. la ricorrente Agricola Alfa s.r.l. conveniva in giudizio le resistenti X, in proprio e in qualità di genitore esercente la responsabilità genitoriale sulla minore D. , nata il 12 novembre 2013, nonché la signora Z , madre della prima, esponendo d’avere acquistato in data 4 agosto 2016, in esecuzione di contratto preliminare, il diritto di usufrutto per la durata di 11 anni su un immobile sito in Bologna, via Alta n. 5, di proprietà di Y , chiedendo la condanna delle resistenti a rilasciare immediatamente il predetto immobile.

Si costituiva tempestivamente la resistente X, esponendo di essere stata moglie di Y , alienante del diritto di usufrutto, nonché padre di D. , nei confronti del quale, in seguito a sentenza di divorzio emessa da Tribunale russo che nulla aveva disposto in ordine alla comune figlia minorenne, aveva intrapreso ricorso urgente ex art. 337 bis e ss. c.c. domandando, fra l’altro, l’assegnazione della casa familiare, sicché chiedeva la sospensione del giudizio e comunque la reiezione della domanda.

Si costituiva altresì la resistente Z chiedendo il mutamento del rito in ordinario, autorizzazione a chiamare in causa l’alienante del diritto di usufrutto e comunque insistendo nel merito anch’essa per la reiezione della domanda.

La ricorrente con memoria del 12 gennaio 2017 si opponeva tanto alla sospensione del processo che al mutamento del rito.

Respinte le richieste di autorizzazione a chiamare il terzo, di sospensione del processo e di mutamento del rito, veniva disposta con ordinanza del 29 maggio 2017 la comparizione personale delle parti ex art. 185 c.p.c. per il tentativo di conciliazione e, rinviata la causa su richiesta delle parti e preso quindi atto del mancato raggiungimento di un accordo, con ordinanza del 28 giugno 2018 il giudice istruttore, ritenuto che nella specie fosse pacifico che la parte ricorrente avesse acquistato il diritto di usufrutto del bene immobile oggetto di causa nella piena consapevolezza dell’interesse di parte alienante di sottrarre il godimento della casa familiare alla propria figlia, così aggirando il chiaro disposto di cui all’art. 337 sexies c.c., disponeva l’integrazione del contraddittorio issu iudicis ex art. 107 c.p.c. nei confronti dell’altro contraente, Y , padre della minore.

Quest’ultimo si costituiva con comparsa di risposta nella quale si associava alla richiesta di parte ricorrente di rilascio dell’immobile da parte della propria figlia e delle altre due resistenti.

Disposta quindi l’acquisizione del decreto della Corte d’Appello di Bologna del 23 novembre 2018 – di conferma dell’assegnazione della casa familiare – ed assegnato a tutte le parti un termine per note conclusive, la causa veniva discussa oralmente all’udienza del 28 marzo 2019, ove il giudice riservava la decisione.

2.Dall’esame degli atti e dei documenti prodotti dalle parti e all’esito della trattazione, risulta pacifico che fra la resistente X e il terzo chiamato Y sia intercorso rapporto di coniugio (matrimonio celebrato in Russia l’8 giugno 2012) sino allo scioglimento del vincolo matrimoniale per effetto di un provvedimento dell’Autorità giudiziaria della Repubblica della Moldova (non dunque dell’autorità russa, come erroneamente allegato dalla difesa della resistente X), su istanza della moglie, emesso in data 19 febbraio 2016 (doc.3 resistente Z).

È altresì pacifico che nel corso del matrimonio i due coniugi abbiano avuto una bambina, D. , nata il 12 novembre 2013, e che il provvedimento di divorzio della Moldova non contenesse alcuna statuizione in merito all’affidamento, collocazione e mantenimento della stessa (cfr. doc. 3 resistente Z).

È inoltre documentale che il marito, allontanatosi dalla casa familiare, abbia perfezionato con la società ricorrente, prima un contratto preliminare in data 16 maggio 2016 (doc. n. 2 ricorrente; contratto trascritto in data 24 maggio 2016), promettendo l’alienazione del diritto di proprietà o comunque del diritto di usufrutto (il preliminare prevedeva in favore dell’alienante il diritto di opzione fra trasferimento della proprietà o del solo usufrutto) dell’appartamento ove abitava e tuttora abita la minore, insieme alla mamma e alla nonna, e poi, in rapida successione, un contratto definitivo in data 4 agosto 2016 (doc. n. 4 ricorrente) in cui ha optato per la cessione, non della proprietà, ma del solo usufrutto per undici anni, al prezzo complessivo di euro 11.000,00 (contratto trascritto in data 1 settembre 2016).

È, infine, documentale che la moglie abbia promosso avanti a questo Tribunale, in data 25 agosto 2016 (dunque in data posteriore al perfezionamento dei contratti preliminare e definitivo ma antecedente alla trascrizione del contratto definitivo), procedimento ex art. 337 bis c.c. ad esito del quale la casa familiare le è stata assegnata, in ragione della stabile dimora della figlia, con provvedimento del Tribunale di Bologna del 7 maggio 2018, in atti, divenuto definitivo in seguito alla sua conferma da parte della Corte d’appello, con decreto del 23 novembre 2018 (per cui tutte le parti hanno dato atto al verbale del 28 marzo 2019 di non avere interposto impugnazione).

Non persuade al riguardo l’eccezione di parte ricorrente per cui sarebbero inutilizzabili i documenti comprovanti l’avvenuta assegnazione della casa familiare con provvedimento del Tribunale di Bologna confermato dalla Corte d’Appello, sul rilievo assorbente della carenza di specifici termini decadenziali nel rito prescelto dalla stessa ricorrente e della novità comunque dei detti documenti, formatisi nel corso del presente processo.

3.Il quesito posto nella presente controversia è se il titolo detentivo spettante al genitore non proprietario sull’immobile adibito a casa familiare sia opponibile al terzo, ancorché abbia acquistato dal genitore-proprietario un diritto incompatibile – nella specie l’usufrutto – prima dell’emissione del provvedimento di assegnazione.

A tale riguardo, occorre premettere alcune precisazioni sul quadro normativo di riferimento.

3.1.Funzione precipua dell’istituto dell’assegnazione della casa familiare in seguito a separazione o divorzio dei coniugi, degli uniti civilmente o dei conviventi, è la tutela della prole, diretta ad evitare che i figli e le figlie minorenni, o maggiorenni non economicamente indipendenti, abbiano a sommare al trauma della fine del rapporto tra i propri genitori anche l’ulteriore trauma dell’allontanamento dall’ambiente nel quale sono cresciuti, il quale costituisce il centro di «aggregazione di sentimenti» che coinvolgono il minore con rilevanti implicazioni d’ordine materiale e psicologico, specie avuto riguardo ai delicati e fragili equilibri che sostengono il percorso evolutivo del bambino e dell’adolescente (cfr. Corte di cassazione Sez. U, Sentenza n. 11096 del 26/07/2002 per cui «la funzione dell’istituto, che secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale costituisce una misura di tutela esclusiva della prole, diretta ad evitare ai figli minorenni o anche maggiorenni tuttora economicamente dipendenti non per propria colpa l’ulteriore trauma di un allontanamento dall’abituale ambiente di vita e di aggregazione di sentimenti»).

L’assegnazione della casa familiare assolve dunque ad una funzione essenziale per la tutela dei figli nella delicata fase della separazione dei genitori, la quale trova il proprio fondamento nella protezione del preminente interesse del minore, che come noto trova copertura innanzitutto nella Costituzione, agli articoli 2, 29 e 30, nella Convenzione europea dei diritti umani, all’articolo 8 (Diritto al rispetto della vita privata e familiare), e in special modo nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (il cui valore giuridico è come noto riconosciuto dall’articolo 6 del Trattato sull’Unione europea) che all’articolo 7 prescrive il «rispetto della vita privata e della vita familiare» e, soprattutto, all’articolo 24 afferma in modo innovativo ed univoco i «Diritti del bambino» (e il cui secondo paragrafo prescrive che «in tutti gli atti relativi ai bambini, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente»), nonché, com’è ovvio, nella cd. Convenzione di New York (Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989) il cui articolo 3 ha imposto per la prima volta il principio per cui «in tutte le decisioni riguardanti i fanciulli che scaturiscano da istituzioni di assistenza sociale private o pubbliche, tribunali, autorità amministrative o organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve costituire oggetto di primaria considerazione».

L’assegnazione della casa familiare presuppone, in ultima analisi, il riconoscimento che gli interessi preminenti del minore sono protetti solo ove sia assicurato il suo diritto fondamentale a permanere, ove possibile, nell’ambiente in cui è cresciuto sino alla separazione dei suoi genitori. L’assegnazione della casa familiare è attuata in favore del genitore ma protegge un diritto che è riconosciuto in capo allo stesso minore, che ne è in effetti il titolare sostanziale.

A tale riguardo la Corte costituzionale, nella nota decisione con cui ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 155, quarto comma, c.c., nella parte in cui non prevede la trascrizione del provvedimento giudiziale di assegnazione della abitazione nella casa familiare al coniuge affidatario della prole, ai fini della sua opponibilità ai terzi, ha rammentato come ratio dell’istituto dell’assegnazione della casa familiare sia in effetti esclusivamente la protezione del minore (Corte costituzionale, Sentenza 19-27 luglio 1989 n. 454, per cui «è dunque “l’esclusivo interesse morale e materiale della prole” a determinare la spettanza dell’abitazione al coniuge cui la prole è affidata»).

La natura sovraordinata del diritto del minore a permanere nell’ambiente ove è cresciuto impone per conseguenza -e senz’altro- una lettura costituzionalmente e convenzionalmente orientata della disciplina positiva a livello di normazione ordinaria e, ove risultasse un qualsiasi contrasto fra la stessa e le prescrizioni derivanti dal diritto euro-unitario, la sua stessa disapplicazione da parte del giudice nazionale.

3.2.Prescinde dai fini della presente decisione l’esame della successione di norme e dei diversi indirizzi giurisprudenziali in materia di opponibilità ai terzi dell’assegnazione della casa coniugale (come noto, è fiorito negli anni un ampio dibattito, in dottrina e in giurisprudenza, incardinato soprattutto, ma non solo, sul significato da attribuire al richiamo all’art. 1599 c.c. contenuto nell’art. 6, comma 6, L. 1° dicembre 1970, n. 898 (nel testo sostituito dall’art. 11 della L. 6 marzo 1987, n. 74), attesa in particolare la non felice formulazione di tale ultima norma, la quale in modo apparentemente contraddittorio dispone che l’assegnazione «in quanto trascritta», è opponibile al terzo acquirente «ai sensi dell’articolo 1599 del codice civile», che al comma 3 tuttavia consente l’opponibilità anche in mancanza di trascrizione, «nei limiti di un novennio dall’inizio della locazione»).

Ai fini della presente decisione appare invero sufficiente prendere le mosse dalla già menzionata decisione delle Sezioni Unite della S.C. che, ponendo fine al pregresso contrasto giurisprudenziale e dottrinale e optando per l’interpretazione più favorevole all’assegnatario della casa familiare, ha stabilito che, ai sensi dell’art. 6, comma 6, L. 1° dicembre 1970, n. 898, il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario sebbene non trascritto sia comunque opponibile, nei primi nove anni dalla data di assegnazione, al terzo che avesse acquistato in data successiva (Corte di cassazione Sez. U, Sentenza n. 11096 del 26/07/2002: «ai sensi dell’art. 6, comma 6, della legge 1 dicembre 1970, n. 898 -nel testo sostituito dall’art. 11 della legge 6 marzo 1987, n. 74-, applicabile anche in tema di separazione personale, il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario, avendo per definizione data certa, è opponibile, ancorché non trascritto, al terzo acquirente in data successiva per nove anni dalla data dell’assegnazione, ovvero – ma solo ove il titolo sia stato in precedenza trascritto – anche oltre i nove anni»).

Con tale decisione, dunque, la Corte ha ritenuto che il richiamo dell’art. 6, comma 6, L. 1° dicembre 1970, n. 898 all’art. 1599 c.c. valga a mantenere netta la distinzione fra l’opponibilità dell’assegnazione oltre i nove anni, per cui non può prescindersi dalla trascrizione, e l’opponibilità nei primi nove anni dal provvedimento di assegnazione, per cui l’opponibilità ai terzi prescinde del tutto dalla trascrizione e pure dalla concreta conoscenza o conoscibilità del provvedimento di assegnazione da parte del terzo acquirente.

Va pure osservato che, come rammentato dalla migliore dottrina, in tale decisione le Sezioni Unite siano giunte a stabilire che l’assegnazione della casa sia opponibile ai terzi, sebbene non trascritta, sulla base di un ragionamento ermeneutico che non si limita ad analizzare il richiamo all’art. 1599 c.c., ma considera pure l’evoluzione storica dell’istituto, i profili di pubblicità nei confronti di terzi, nonché i lavori preparatori, la finalità e la ratio dello stesso.

3.3.Nonostante qualche incertezza in una parte minoritaria della dottrina e della giurisprudenza di merito, tale approdo esegetico è rimasto sostanzialmente fermo nella giurisprudenza di legittimità anche dopo l’entrata in vigore della L. n. 54/2006, atteso che il mancato richiamo dell’art. 1599 c.c. nel testo della nuova norma di cui all’art. 155 quater c.c. (per cui «il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono trascrivibili e opponibili a terzi, ai sensi dell’art. 2643 c.c.»), non poteva autorizzare a ritenere che la trascrizione fosse sempre indispensabile ai fini dell’opponibilità del provvedimento di assegnazione anche entro il novennio, dovendosi attribuire rilievo preminente al fatto che l’art. 6, comma 6, l. div. non aveva costituito oggetto di abrogazione da parte del detto intervento normativo (cfr. ad es., ex multis, Corte di cassazione Sez. 1, Sentenza n. 15367 del 22/07/2015; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 7007 del 17/03/2017). In buona sostanza, la previsione della trascrivibilità del provvedimento e il rinvio all’art. 2643 c.c. (in particolare al suo comma primo, n. 8) non elide, ma si somma, alla previsione di cui all’art. 1599, terzo comma c.c..

Parimenti, il quadro delineato dalle Sezioni Unite non è sostanzialmente mutato neppure con la più recente riforma di cui al D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, entrata in vigore il 7 febbraio 2014, atteso che pur abrogando il menzionato art. 155 quater c.c., la disciplina dell’assegnazione della casa familiare oggi contenuta nell’art. 337 sexies c.c. ripropone letteralmente il contenuto del comma 1 dell’abrogato art. 155 quater c.c..

Va osservato al riguardo che l’art. 98, comma 1, lett. b), D.Lgs. n. 154/2013, nell’elencare i commi abrogati dell’art. 6 della L. n. 898/1970, ha omesso di indicare proprio il comma 6 della L. n. 898/1970, contenente la disciplina dell’assegnazione della casa coniugale nelle procedure divorzili, in cui e` richiamato l’art. 1599 c.c. come criterio per l’opponibilità del provvedimento. Né potrebbe parlarsi di abrogazione tacita, per incompatibilità con le nuove disposizioni, atteso che il legislatore del 2013 laddove ha voluto abrogare talune norme sul divorzio, lo ha fatto espressamente (cfr. l’espressa abrogazione dei commi 3, 4, 5, 8, 9, 10, 11 e 12 dello stesso art. 6, l. div.). Proprio la delicatezza delle questioni e il noto arresto delle Sezioni Unite inducono a escludere che il legislatore omettendo di abrogare la disposizione de qua abbia voluto comunque abrogarla implicitamente.

Ne consegue che anche a seguito delle dette riforme, l’opponibilità dell’assegnazione nel limite del novennio deve essere riconosciuta in forza del combinato disposto degli artt. 6, comma 6 della L. n. 898/1970 e dell’art. 1599 c.c., a prescindere dalla trascrizione (cfr. Corte di cassazione Sez. 2, Sentenza n. 1744 del 2018).

In conseguenza di tale lettura del quadro normativo, appare allora evidente come resti del tutto estranea alla presente decisione ogni questione in merito alla trascrizione del provvedimento di assegnazione, alla trascrivibilità della relativa domanda e all’effetto prenotativo delle stesse rispetto a successivi acquisti.

Come si è detto, nell’attuale assetto normativo, in ragione del richiamo dell’art. 6, comma 6, L. 1° dicembre 1970, n. 898 all’art. 1599 c.c. si deve intendere, secondo l’indirizzo ermeneutico precisato dalle Sezioni unite nell’esercizio della loro funzione di nomofilachia, che per l’opponibilità del provvedimento di assegnazione della casa familiare nei primi nove anni non vi sia necessità alcuna di trascrizione.

3.4.Con autorevole e motivata successiva decisione, la Corte di cassazione ha ritenuto che il richiamo all’art. 1599 c.c., per cui in caso di locazione infranovennale è opponibile al terzo il contratto di locazione avente data certa anteriore all’acquisto, consenta una interpretazione costituzionalmente orientata, in ragione della quale deve assumersi che nei primi nove anni dal provvedimento di assegnazione della casa familiare (peraltro la decisione de qua è adottata in ipotesi non di coniugio, ma di separazione di conviventi more uxorio), lo stesso sia opponibile anche al terzo che pur avendo acquistato anteriormente al provvedimento, fosse tuttavia pienamente consapevole della destinazione in concreto dell’immobile a casa familiare di uno o più minori titolari del diritto di riceverla in assegnazione (Corte di cassazione Sez. 1, Sentenza n. 17971 del 11/09/2015: «il diritto di godimento dell’immobile adibito a casa familiare attribuito al convivente more uxorio collocatario dei figli minori è opponibile all’avente causa dell’ex convivente proprietario dell’immobile, indipendentemente dall’anteriorità del trasferimento immobiliare rispetto al provvedimento di assegnazione, sempre che il terzo acquirente sia a conoscenza del pregresso rapporto di stabile convivenza e del vincolo di destinazione impresso al bene in data antecedente all’alienazione»).

Secondo la S.C., infatti, «non rileva, nella specie, l’anteriorità del trasferimento immobiliare rispetto al provvedimento di assegnazione dell’immobile a casa familiare disposto dal Tribunale per i minorenni, dal momento che la qualità di detentore qualificato in capo alla ricorrente è pacificamente preesistente al trasferimento immobiliare così come la indiscussa destinazione dell’immobile a casa familiare impressa anche dal proprietario genitore e convivente con la ricorrente e le minori medesime fino al suo allontanamento volontario. La relazione con l’immobile, in virtù di tale destinazione non ha natura precaria ma, al contrario, è caratterizzata da un vincolo di scopo che si protrae fino a quando le figlie minori o maggiorenni non autosufficienti conservino tale habitat domestico».

Riformando l’opposta decisione del giudice di merito, osserva la S.C. che «la centralità che la Corte d’Appello ha conferito alle cadenze temporali relative al trasferimento immobiliare, all’instaurazione dell’azione di rilascio e della domanda di affidamento delle minori ed infine al provvedimento di assegnazione della casa familiare (la cui datazione non dipende dalla diligenza della ricorrente e che è opponibile ancorché non trascritto nel novennio), è priva di rilievo nella specie, in quanto superata dalla conoscenza della preesistenza della destinazione a casa familiare da parte del terzo acquirente dell’immobile e dalla consapevole finalità di eliminarne tale carattere mediante il trasferimento unitamente al dante causa».

Appare fuori fuoco ed eccentrico rispetto al tema de qua, l’argomento di parte ricorrente -che riecheggia qualche opinione critica espressa da una parte della dottrina- per cui tale indirizzo confliggerebbe col principio della risoluzione dei conflitti in forza della trascrizione degli atti, atteso che, come visto, qui si verte in tema di opponibilità (della locazione infranovennale e) del provvedimento di assegnazione della casa nei primi nove anni, la quale per scelta del legislatore prescinde del tutto dalla trascrizione.

La deroga al regime delle trascrizioni non deriva da una interpretazione giurisprudenziale, ma dal chiaro disposto dell’art. 1599 c.c. che in ipotesi di locazione infranovennale prescinde del tutto dalle trascrizioni.

La lettura innovativa, costituzionalmente imposta, della norma non incide dunque in nulla sull’assetto del regime degli atti trascrivibili: il contratto di locazione infranovennale è infatti opponibile anche se non trascritto e del tutto ignoto all’acquirente.

Parimenti inconferente è il richiamo della difesa di parte ricorrente alla nota pronuncia della Corte di cassazione Sez. 3, Sentenza n. 7776 del 20/04/2016, posto che la questione ivi esaminata si pone del tutto al di fuori rispetto alla questione oggetto della presente controversia, atteso che in quel caso il provvedimento di assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario era stato tempestivamente e regolarmente trascritto (sicché, come affermato correttamente dalla Corte, non avrebbe avuto alcun senso richiamare in tale fattispecie i diversi orientamenti che nel tempo si sono succeduti in tema di opponibilità dei provvedimenti di assegnazione non trascritti né, tantomeno, richiamare la pronuncia delle Sezioni Unite sopra citata e la decisione n. 17971/2015, in quanto, appunto, aventi ad oggetto provvedimenti di assegnazione che non hanno avuto alcuna formalità pubblicitaria).

Non v’è dubbio che il rimando dell’art. 6, comma 6, L. 1° dicembre 1970, n. 898 alla materia locatizia imponga di per sé un qualche vaglio ermeneutico, attese le evidenti differenze fra locazione e assegnazione della casa familiare. Tale vaglio ermeneutico non può non tenere conto della natura dei diritti in gioco, i. e. del particolare rilievo anche costituzionale e convenzionale dei preminenti interessi dei bambini. Già il parallelo tracciato dalle SSUU fra locazione infranovennale e opponibilità dell’assegnazione della casa nei primi nove anni è frutto di una, condivisibile, interpretazione del dato letterale. Nel caso della locazione, inoltre, vi è un atto negoziale con cui le parti danno luogo al rapporto locatizio; nel secondo caso vi è invece un provvedimento giudiziale che accerta la sussistenza di un diritto del minore a (continuare a) abitare l’immobile. Nel primo caso il contratto è fonte del diritto, sicché la legge impone che lo stesso abbia necessariamente data certa antecedente l’acquisto da parte del terzo; nel secondo caso il diritto del minore, oggetto di protezione giuridica, precede il provvedimento, sicché si pone il tema della opponibilità del provvedimento nei confronti del terzo che fosse comunque pienamente consapevole della sussistenza del diritto.

È allora del tutto plausibile e coerente con la natura degli interessi e dei diritti fondamentali del bambino, che in ipotesi di separazione dei suoi genitori il provvedimento di assegnazione della casa familiare sia opponibile, nei primi nove anni dalla sua emanazione, all’acquirente che fosse a conoscenza del fatto che l’immobile costituiva la casa familiare del minore.

L’assetto attualmente delineato dalla Suprema Corte garantisce la circolazione dei beni non meno di quanto faccia l’art. 1599 c.c. per le locazioni infranovennali. Va anzi evidenziato che mentre in quel caso il contratto è sempre opponibile al terzo, anche se questi versi in buona fede, in questo caso il terzo in buona fede è sempre tutelato, restando il diritto del minore opponibile soltanto all’acquirente in mala fede, che fosse cioè consapevole della lesione procurata al minore dalla propria operazione di acquisto.

4.Così delineato, a grandi linee e solo per quanto qui rileva, il quadro dei canoni giuridici in gioco nella fattispecie de qua, tornando invece all’analisi dei presupposti di fatto della controversia in decisione, va osservato che mentre risultano pacifiche e/o documentali tanto la relazione di coniugio, la cessione temporanea dell’usufrutto, quanto l’assegnazione in via definitiva della casa alla resistente, oggetto di dibattito processuale è, innanzitutto, la consapevolezza della odierna ricorrente, terza cessionaria del diritto di usufrutto, della destinazione in concreto della casa a abitazione della minore e la sua dolosa compartecipazione al tentativo del padre di sottrarre l’immobile alla sua funzione di casa familiare della propria figlia.

4.1.Che, invero, il padre sia stato pienamente consapevole della lesione del diritto della propria figlia minorenne derivante dalla cessione, sia pure per undici anni, di abitare l’immobile, non può sensatamente dubitarsi.

Pur scontando la verosimile scarsa conoscenza del medesimo del dato giuridico, è invero certo che lo stesso sapesse che l’alienazione del diritto di abitare (all’infimo prezzo di € 11.000,00, poco meno di ottanta euro mensili) avrebbe potuto condurre al forzato trasferimento della propria figlia dalla sua casa, mentre poco rileva e importa se il medesimo fosse pure consapevole o meno della legittimità di tale proprio fine per l’ordinamento italiano.

L’allegazione del terzo chiamato Y , per cui la moglie gli avrebbe manifestato l’intenzione di trasferirsi a breve in Moldova, lasciando l’appartamento, non è in alcun modo credibile ed è rimasta del tutto priva di qualsiasi riscontro probatorio. Tale affermazione, d’altra parte, non pare confermata, e risulta anzi smentita, dalla condotta della moglie, che, lungi dal programmare un trasferimento in patria, appena raggiunta dalla notizia dell’alienazione (in ragione dell’intimazione a rilasciare l’immobile trasmessale dalla società ricorrente in data 24 giugno 2016), ha richiesto immediatamente l’assegnazione della casa con ricorso ex art. 337 bis c.c..

È d’altra parte pacifico che la resistente abiti da tempo in Italia, dove convive anche con la madre, e che la bambina sia nata in Italia, che qui frequenti la scuola dell’infanzia ed abbia qui ogni relazione significativa, sicché, in carenza di qualsiasi contraria evidenza, la pretesa intenzione di tornare in Moldova non appare credibile.

4.2.Non è seriamente contestato dalla parte ricorrente, e non è invero dubitabile, che anche la terza cessionaria fosse perfettamente consapevole della destinazione dell’immobile a casa familiare e della sua abitazione da parte della figlia dell’alienante.

Nelle proprie difese la ricorrente non ha mai allegato d’essere stata all’oscuro della abitazione dell’appartamento da parte della moglie e della figlia dell’alienante.

La medesima ha basato le proprie difese esclusivamente sulla ritenuta inopponibilità dell’assegnazione della casa familiare, sull’assunto, come visto infondato, che anche nei primi nove anni il provvedimento sia opponibile al terzo acquirente solo se trascritto prima della trascrizione dell’acquisto.

Anche dopo la costituzione delle resistenti, la parte ricorrente non ha mai allegato di avere ignorato le circostanze allegate dalle stesse, limitandosi a ribadire l’inopponibilità a se del diritto della bambina a permanere nella propria casa dopo il divorzio dei genitori e della irrilevanza della assegnazione della casa familiare in carenza di trascrizione.

È peraltro documentale che la ricorrente al momento del perfezionamento del contratto fosse invero pienamente consapevole che l’appartamento di cui voleva acquistare l’usufrutto costituiva la casa familiare della moglie e della figlia dell’alienante, posto che la promissaria acquirente in data 24 giugno 2016 (fra il preliminare e il definitivo) notificava alle stesse la intimazione a rilasciare immediatamente l’immobile, così attestando in modo univoco e irrefutabile di avere la piena consapevolezza di acquistare un immobile abitato dalla ex moglie dell’alienante.

Tale consapevolezza precedeva senz’altro lo stesso contratto preliminare, atteso che è pacifico che l’acquirente abbia visitato a fine gennaio 2016 l’appartamento prima di intraprendere l’operazione commerciale (circostanza allegata dal terzo chiamato nella propria comparsa di risposta, depositata il 12 novembre 2018, e mai contestata), avendo dunque modo di verificare che lo stesso era abitato da più persone, fra cui la bambina, mentre dalla comparsa di risposta del terzo chiamato si legge che sin dal contratto preliminare «il signor Y aveva, tuttavia, avvertito la Agricola Alfa s.r.l. del fatto che all’interno dell’immobile si trovava la ex moglie».

In buona sostanza, l’acquirente al momento del contratto definitivo aveva piena e indiscussa consapevolezza che l’appartamento era abitato dalla famiglia dell’alienante, che le parti erano separate o divorziate e che ivi abitava anche una bambina, figlia dell’alienante. Come si è detto, appare risibile e comunque privo di prova l’argomento di parte Y per cui la moglie gli avrebbe riferito che voleva tornare a vivere in Moldova, e comunque non è stato mai allegato che tale (falsa) informazione sia stata mai comunicata alla società promissaria acquirente.

In conclusione, la stessa parte ricorrente non ha mai sostenuto d’essere stata ignara della destinazione dell’appartamento e la sua consapevolezza emerge ex carta dalla intimazione a rilasciare l’immobile trasmessa prima del perfezionamento del contratto definitivo. Lo stesso particolare contenuto tecnico dell’operazione commerciale, con la cessione del solo diritto di usufrutto (quasi ad asportare chirurgicamente il diritto di abitazione, conservando integro il futuro diritto di proprietà dell’alienante) presuppone e postula uno specifico approfondimento dei rispettivi interessi, sicché non può dubitarsi che la parte acquirente (che aveva il legittimo scopo, come si legge nel ricorso introduttivo, «di operare a scopo di lucro nell’ambito della locazione a breve e lungo termine») abbia avuto chiara contezza delle specifiche esigenze dell’alienante, fra cui la necessità di «mettere a reddito», dopo il divorzio, la propria casa familiare.

4.4.In conclusione, nel caso di specie l’interesse del terzo acquirente necessariamente regredisce, per il semplice fatto che questi conosceva la destinazione dell’immobile a casa familiare, in cui abitavano la ex moglie e la figlia dell’alienante, ed anzi verosimilmente si accordava col medesimo proprio all’evidente scopo di sottrarlo dal patrimonio di quest’ultimo, emergendo dagli atti l’evidenza di una vera e propria partecipatio fraudis della società immobiliare terza acquirente.

La domanda volta al rilascio dell’immobile da parte delle resistenti in ragione della sua occupazione sine titulo non è dunque meritevole di accoglimento, atteso che l’abitazione dell’appartamento da parte delle resistenti è fondata su un provvedimento giurisdizionale opponibile all’acquirente (o comunque, nel caso della Z, su ragioni di ospitalità da parte della legittima titolare del diritto).

5.La domanda è da respingere.

6.La condanna alla rifusione delle spese di lite segue secondo il principio di soccombenza, liquidate come da dispositivo tenendo conto del valore della causa (€ 11.000,00), della trattazione e dei parametri vigenti.

Tenuto conto che la citazione in giudizio del terzo chiamato è conseguenza dell’azione della ricorrente e che tuttavia non v’è soccombenza attesa l’adesione di questi alle ragioni della domanda, debbono compensarsi le relative spese.
P.Q.M.
Il Tribunale, respinta ogni contraria istanza ed eccezione, definitivamente pronunciando,
RESPINGE la domanda;
CONDANNA la ricorrente all’integrale rifusione delle spese della presente lite che liquida in favore della resistente X in € 4.835,00 per compensi, € 0,0 per spese ed oltre 15% per spese generali, IVA e CPA come per legge;
CONDANNA la ricorrente all’integrale rifusione delle spese della presente lite che liquida in favore di Z in € 4.835,00 per compensi, € 0,0 per spese ed oltre 15% per spese generali, IVA e CPA come per legge;
DICHIARA integralmente compensate le spese fra le altre parti.
MANDA alla cancelleria per comunicazione.

Bologna, 3 aprile 2019
Il Giudice
dott. Marco Gattuso
Pubblicazione il 03/04/2019

Violazione dell’obbligo di fedeltà e risarcimento del danno. Cassazione Civile, sez. III, sentenza 7 marzo 2019, n. 6598

(di Valeria Cianciolo – Sez. Ondif di Bologna)

Cassazione Civile, sez. III, sentenza 7 marzo 2019, n. 6598

Violazione dell’obbligo di fedeltà e risarcimento del danno

La violazione di obblighi nascenti dal matrimonio costituisce causa di intollerabilità della convivenza, giustificando la pronuncia di addebito. Qualora dia luogo ad un comportamento (doloso o colposo) che, incidendo su beni essenziali della vita, produce un danno ingiusto, può esservi un conseguente risarcimento, secondo lo schema generale della responsabilità civile.  

Se da un lato, vi è il dovere di fedeltà, dall’altro, non esiste un corrispondente diritto alla fedeltà coniugale costituzionalmente protetto: la sua violazione è sanzionabile civilmente quando, per le modalità dei fatti, uno dei coniugi ne riporti un danno alla propria dignità personale, o eventualmente un pregiudizio alla salute.

Nel caso di specie, la corte d’appello ha escluso che la violazione del dovere di fedeltà fosse stata causa della separazione (perché la moglie avrebbe svelato al marito il suo tradimento solo mesi dopo la separazione), ed ha altresì, escluso che il tradimento avesse arrecato un pregiudizio all’onore e alla dignità del coniuge, in quanto non commesso con modalità tali da poter essere lesivo della dignità della persona.

Dunque, la violazione del dovere di fedeltà, sebbene possa essere causa di un dolore per l’altro coniuge, provocando la disgregazione del nucleo familiare, non automaticamente è risarcibile.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3258-2017 proposto da:

L.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MANLIO DI VEROLI 2, presso lo studio dell’avvocato L. G. difensore di sé medesimo;

– ricorrente –

contro

I.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA OSLAVIA 7, presso lo studio dell’avvocato L. I., che la rappresenta e difende giusta procura speciale in calce al controricorso;

SOC COOP ARL CATTOLICA DI ASSICURAZIONE, SOC COOP PA CATTOLICA SERVICES, entrambe in persona del Dott. C.M., nella qualità di Direttore Generale della Società Cattolica Assicurazione e Amministratore Delegato della Cattolica Service, elettivamente domiciliate in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 1, presso lo studio dell’avvocato F. G., che le rappresenta e difende unitamente all’avvocato G. B. giuste procure speciali in calce al controricorso;

B.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VITTORIO COLONNA 39, presso lo studio dell’avvocato M. P., che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati A. B., G. P. giusta procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 4357/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 34/07/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 11/12/2018 dal Consigliere Dott. LINA RUBINO.

Svolgimento del processo

1. Il giudizio di primo grado.

1.1.Nel 2010 L.G. convenne in giudizio la moglie I.C., dalla quale si era separato, e B.A., nonché la società Cattolica Services, della quale entrambi erano dipendenti, e la società capogruppo di quest’ultima, Cattolica Assicurazioni S.p.a., per ottenere la condanna di tutti i convenuti, in solido tra loro, al risarcimento dei danni subiti in conseguenza della violazione del dovere di fedeltà coniugale da parte della moglie, a causa della relazione da lei intrattenuta per anni con il collega B., il quale l’avrebbe anche favorita nell’avanzamento in carriera.

1.2. In particolare, il L. addusse che la moglie gli aveva confessato la relazione, che la suddetta relazione si era protratta dalla fine del 2003, ossia circa quattro mesi prima del concepimento del loro figlio G.M., al periodo compreso tra gli ultimi mesi del 2007 e i primi mesi del 2008; che, pertanto, il L. aveva chiesto di essere sottoposto, insieme al bambino, al test di accertamento della paternità biologica; e che, a fronte di tale richiesta, la I. aveva elaborato una nuova versione del fatto, secondo cui la relazione col B. sarebbe stata frutto della sua fantasia, motivato da risentimento nei confronti del L..

L’attore affermava che dalla scoperta della relazione extraconiugale gli era derivato un disturbo depressivo cronico. Individuava la responsabilità delle società datrici di lavoro nella mancata vigilanza sui propri dipendenti al fine di evitare le conseguenze pregiudizievoli per i terzi.

Ciò premesso il L. chiese, al suddetto titolo, il pagamento della somma di Euro 14.642,02, di cui Euro 4.642,00 per il danno alla salute e Euro 10.000 per il danno morale.

1.3. Costituitisi in giudizio, tutti i convenuti chiesero il rigetto della domanda; il B., inoltre, propose in riconvenzionale domanda di risarcimento danni per la lesione al proprio onore derivante dai fatti attribuitigli nell’atto di citazione; lo stesso B. e le società di assicurazione chiesero, inoltre, la condanna dell’attore per lite temeraria.

1.4. A seguito delle domande riconvenzionali avanzate, il L. formulò istanza di chiamata in causa a fini di garanzia della società Cattolica Assicurazioni, in virtù di una polizza per responsabilità civile in essere, e della convenuta I., perché responsabile dei fatti costitutivi della pretesa da lui azionata, per essere da entrambi manlevato da eventuali condanne; istanza, peraltro, respinta dal Giudice istruttore.

1.5. Il Tribunale rigettò la domanda risarcitoria e dichiarò inammissibile la domanda ex art. 89 c.p.c. proposta dall’attore; rigettò altresì la domanda di risarcimento proposta in via riconvenzionale dal convenuto B.; e condannò il L. al pagamento delle spese processuali in favore di ciascuna parte e alla somma di Euro 1.500 ciascuno ai sensi dell’art. 96 c.p.c. in favore dei convenuti B., Cattolica Services e Cattolica Assicurazioni.

2. Il giudizio di appello.

2.1. Avverso la sentenza n. 10733/2014, depositata il 10.05.2014, del Tribunale di Roma, Sezione 1 civile, il L. propose appello. Si costituirono gli appellati, chiedendo il rigetto dell’appello, e il B. reiterando altresì la richiesta di condanna dell’appellante ex art. 96 c.p.c..

2.2. La Corte d’appello accolse parzialmente l’appello del L., riducendo la liquidazione delle spese in favore di Cattolica Services e Cattolica Assicurazioni, confermando per il resto la sentenza impugnata, da intendersi di rigetto della domanda anche nei confronti della I., e condannando l’appellante al risarcimento del danno per lite temeraria in favore del B. anche in appello, nonché alla rifusione delle spese legali in favore dei convenuti.

2.2.1. In particolare, la Corte d’appello -pur richiamando Cass. n. 18853/2011 (secondo cui, poiché i doveri derivanti dal matrimonio hanno natura giuridica e la loro violazione non trova necessariamente sanzione solo nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, la relativa violazione, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, può integrare gli estremi dell’illecito civile e dar luogo a un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ex art. 2059 c.c., senza che la mancanza di pronuncia di addebito in sede di separazione sia a questa preclusiva), e tenuto conto che, ai fini della risarcibilità del danno, è altresì necessario che la lesione abbia determinato un’offesa che superi la soglia minima di tollerabilità e che il danno possa considerarsi giuridicamente apprezzabile – riteneva doversi escludere che, nel caso di specie, la violazione del dovere di fedeltà coniugale attribuita al coniuge avesse costituito la causa della separazione e che, ove corrispondente al vero, fosse stata attuata con modalità tali da poter generare effetti lesivi della dignità dell’altro coniuge, in quanto scoperta da quest’ultimo alcuni mesi dopo la separazione legale e per rivelazione della stessa coniuge nel contesto di una conversazione privata, e non da parte di terzi in un contesto di riferimento sociale-personale del L., o comune dei coniugi-.

2.2.2. Il Giudice d’appello escludeva pertanto ab origine la sussistenza di una condotta illecita tale da configurare una potenzialità lesiva dei diritti -alla dignità e alla salute- rappresentati dal L., e riconduceva il nesso di causalità delle lesioni asseritamente sofferte alla condizione di dispiacere e difficoltà assolutamente soggettiva rientrante in una soglia di tollerabilità giuridicamente non apprezzabile.

2.2.3. La Corte d’appello reputava, inoltre, che non fosse giuridicamente configurabile una condotta illecita in capo al B. o una responsabilità, quali datori di lavoro, delle società convenute, soggetti del tutto estranei all’obbligo di fedeltà coniugale tra i coniugi L.- I..

2.2.4. Il Giudice d’appello affermava altresì la correttezza della pronuncia impugnata, ritenendo inconferente l’intera attività istruttoria richiesta dall’attore ai fini della decisione in merito della domanda principale risarcitoria, alla stregua del percorso logico sotteso al convincimento giudiziale del Tribunale.

2.2.5. La Corte d’appello, infine, reputava corretta la condanna in primo grado del L. ex art. 96 c.p.c., ricorrendo nella specie (oltre alla soccombenza) la coscienza dell’infondatezza delle tesi sostenute a fondamento della pretesa azionata nei confronti dei soggetti estranei al rapporto coniugale.

3. Il giudizio di legittimità.

Avverso la sentenza n. 4375/2016, emessa dalla Corte d’appello civile di Roma, depositata il 15.06 – 04.07 2016, propone ricorso per Cassazione, con otto motivi, L.G..

Resistono con controricorso I.C., B.A., Cattolica Services e Cattolica Assicurazioni.

Sia il ricorrente principale, avv. L., che il controricorrente B. hanno depositato memoria.

Il ricorso è stato trattato in adunanza camerale non partecipata.

Motivi della decisione

I motivi.

1.Costituzione di parte civile nel processo penale.

1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, l’omessa pronuncia su un motivo di gravame e la violazione degli artt. 306 e 307 c.p.c. e art. 75 c.p.p., comma 2.

Il ricorrente deduce che il B. avesse dato avvio ad un processo penale nei suoi confronti per i medesimi fatti per i quali il L. aveva formulato domanda risarcitoria, costituendosi parte civile in quel processo; che il Giudice di prime cure non si fosse pronunciato sull’eccezione, sollevata dal L., di estinzione della domanda riconvenzionale del B. in conseguenza del trasferimento della stessa in sede penale nel corso del giudizio di primo grado, respingendo nel merito la domanda risarcitoria del B.; che, nell’atto di appello, il L. avesse dedotto l’omessa pronuncia; che tuttavia la Corte d’appello, esaminato il motivo di impugnazione, lo avesse respinto per carenza di interesse.

In proposito, il ricorrente lamenta che, omettendo di pronunciarsi sull’eccezione, il Tribunale abbia violato il disposto dell’art. 112 c.p.c.; e che, affermando invece la carenza di interesse ad impugnare, la Corte d’appello abbia dimostrato di non aver colto la ragione sottesa alla richiesta di diversa pronuncia (di rito e non di merito), precludendo per l’effetto all’odierno ricorrente di ottenere l’obbligatoria condanna del convenuto al rimborso delle spese di lite connesso con la rinuncia del B. ex art. 75 c.p.p..

2. Produzione del verbale del processo penale.

2. Con il secondo motivo, si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la violazione dell’art. 112 c.p.c.consistente nella l’omessa pronuncia su un motivo di gravame e la violazione dell’art. 153 c.p.c., comma 2.

Il ricorrente lamenta di aver denunciato, nell’atto di appello, l’illegittimità dell’affermazione, contenuta nella sentenza di primo grado, secondo cui l’istanza di produzione del verbale del processo penale (e contestuale remissione in termini, poiché prodotto solo dopo la sua giuridica venuta a esistenza) sarebbe stata inaccoglibile attesa la mancata definizione del processo stesso.

Il ricorrente deduce che, poiché l’utilizzabilità processuale di tale documento era da ritenersi conseguenza diretta e immediata del suo rilascio da parte della cancelleria del Giudice titolare di quel processo, la sentenza di primo grado avrebbe dovuto essere riformata sul punto, affermando la tempestività e ritualità del deposito del suddetto verbale di udienza, contenente dichiarazioni (testimoniali e di parte) rilevanti per la decisione sulla domanda attorea.

Il L. lamenta che, omettendo di pronunciarsi sul punto, la Corte d’appello abbia violato l’art. 112 c.p.c., impedendo l’acquisizione al materiale probatorio di un documento (un verbale di udienza di un processo penale, contenente deposizioni testimoniali) il cui esame avrebbe introdotto nel processo elementi a sostegno della fondatezza della domanda dell’istante (in particolare, dall’esame delle deposizioni testimoniali contenute in quel verbale si sarebbe potuto desumere agevolmente l’intervento attivo del B. nell’iter per la promozione a funzionario della I., circostanza questa sempre negata dagli interessati).

3. Conseguenze della violazione del dovere di fedeltà.

3. Con il terzo motivo, si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione degli artt. 2043 e 2059 c.c., nonché l’errata e illegittima motivazione relativamente a un punto decisivo della controversia.

Il ricorrente lamenta che la Corte d’appello -pur affermando di condividere il principio di diritto secondo cui una relazione extraconiugale assurge a fatto illecito produttivo di obbligo risarcitorio se l’infedeltà per le sue modalità abbia trasmodato in comportamenti che, oltrepassando i limiti dell’offesa di per sé insita nella violazione dell’obbligo in questione, si siano concretizzati in atti specificamente lesivi della dignità della persona, costituente bene costituzionalmente protetto- abbia tuttavia statuito che, laddove il coniuge vittima dell’infedeltà ne abbia conoscenza dal coniuge (e non da terzi) e in una conversazione privata (e non aperta al pubblico ascolto), quei limiti possano ritenersi ab origine non oltrepassati.

Il ricorrente deduce viceversa che, da un lato, sia irrilevante che la vittima dell’illecito abbia saputo del fatto presto o tardi, dal coniuge o da un terzo, in pubblico o in privato; e, dall’altro, non si possa da ciò solo dedurre che nessun altro, a parte i tre soggetti coinvolti, ne fosse a conoscenza.

Lamenta inoltre che, nonostante fossero state articolate prove dirette a dimostrare l’ostentazione in pubblico, né il Tribunale né la Corte d’appello abbiano ritenuto di dover condurre alcuna indagine.

Il ricorrente deduce infine che un fatto produttivo di danno ex art. 2043 c.c. comporti sempre l’obbligo del suo risarcimento; che l’infedeltà sia comportamento contrario ai doveri nascenti dal matrimonio in quanto violazione dell’obbligo della fedeltà coniugale, costituente una regola di condotta imperativa, oltre che una direttiva morale di particolare valore sociale; che, secondo la giurisprudenza di legittimità, l’illecito sia considerato di una gravità ancora maggiore allorché venga attuato in maniera reiterata, o addirittura attraverso una stabile relazione extraconiugale (Cass. n. 7859/2000), e l’infedeltà assurga a illecito risarcibile qualora, per le sue modalità e in relazione alla specificità della fattispecie, abbia dato luogo a lesione della salute del coniuge (Cass. 18853/2001), circostanze asseritamente verificatesi nel caso di specie, come dimostrerebbero anche le perizie medico-legali.

Il ricorrente lamenta pertanto che, affermando la legittimità di un fatto illecito senza alcuna indagine che ne accertasse le modalità di esecuzione, la Corte d’appello abbia creato una fattispecie di infedeltà legittima, un’area di danno da non risarcire che l’altro coniuge deve tollerare e non lamentare, così violando l’art. 29 Cost., artt. 2043 e 2059 c.c., e falsamente applicando i principi di diritto posti dalla giurisprudenza di legittimità.

4. Corresponsabilità nella violazione del dovere di fedeltà.

4. Con il quarto motivo, si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione degli artt. 2055 e 2049 c.c., nonché l’errata e illegittima motivazione relativamente a un punto decisivo della controversia.

Il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata, laddove esclude la configurabilità di una condotta illecita con riguardo al B. e alle società convenute in giudizio, presupponga una valutazione errata del concetto di “corresponsabile”.

Deduce che, se il titolo per ottenere l’affermazione di responsabilità del coniuge è l’art. 2043 c.c., allora sia anche ipotizzabile l’altrui concorso nella condotta colposa ex art. 2055 c.c..

Il ricorrente lamenta che, viceversa, affermare che di un’infedeltà possa rispondere solo colui o colei che abbia violato il patto di fedeltà significhi connotare questa responsabilità di una natura contrattuale.

Deduce che lo stesso valga per la negazione di una responsabilità concorrente ex art. 2049 c.c. delle società convenute, datrici di lavoro del B. e della I.; ciò in quanto l’art. 2049 c.c. esclude la responsabilità del datore di lavoro solo quando l’illecito non sia stato commesso “nell’esercizio delle incombenze a cui sono stati adibiti” i dipendenti, laddove invece il B., nella prospettazione del ricorrente, aveva la posizione per procurare alla I. un avanzamento in carriera.

Lamenta pertanto che la pronuncia della Corte d’appello abbia aprioristicamente escluso, dal novero dei possibili responsabili, alcuni soggetti del processo solo perché non legati all’attore da un vincolo di natura contrattuale.

5.Rilevanza della confessione stragiudiziale di violazione del dovere di fedeltà.

5. Con il quinto motivo, si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione dell’art. 2735 c.c., nonché l’errata e illegittima motivazione relativamente a un punto decisivo della controversia.

Il ricorrente lamenta che, anche volendo restare sul piano della responsabilità contrattuale (per ciò che attiene alla I.), dimostrato il fatto della confessione dell’infedeltà (che, peraltro, la stessa sentenza impugnata ritiene pacifico), in assenza di prova di efficace revoca e in presenza, invece, di un’allegazione (perizia medica) che da questa confessione fa derivare un danno alla salute, la Corte d’appello non avrebbe potuto ritenere legittimo il precedente rigetto, da parte del Tribunale, della domanda risarcitoria nei confronti della convenuta e che il rigetto della domanda nei confronti di chi abbia confessato stragiudizialmente un illecito causativo di danno apparirebbe contra legem. Ciò in quanto, ai sensi dell’art. 2735 c.c., la confessione (e non già la sua ritrattazione) stragiudiziale fatta alla parte o a chi la rappresenta ha la medesima efficacia probatoria di quella giudiziale; né rileverebbe nella specie che il fatto confessato sia vero o falso, circostanza che al più avrebbe potuto rilevare nei confronti degli altri convenuti, ma non della I., responsabile di un’azione (il fatto-confessione) che, unitamente al suo contenuto, avrebbe determinato il danno lamentato dall’istante.

6. Diniego delle prove sulla violazione del dovere di fedeltà.

6. Con il sesto motivo, si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione degli artt. 2730, 2731 e 2733 c.c. e degli artt. 230 e 244 c.p.c. ovvero l’omessa ammissione di interrogatorio formale e prove testimoniali.

Il ricorrente lamenta di aver denunciato invano, nel proprio atto d’appello, l’illegittimità della pronuncia di primo grado nella parte in cui aveva negato l’ammissione di tredici capitoli di prova per interrogatorio formale e per testi.

Il ricorrente lamenta quindi che il giudizio della Corte d’appello sul punto sia stato errato tanto sotto il profilo della ammissibilità che della rilevanza.

Il ricorrente deduce pertanto che risulti contra legem il rigetto, aprioristico e cumulativo, di tutte le istanze istruttorie da parte della sentenza impugnata.

7. La condanna per responsabilità processuale aggravata.

7. Con il settimo motivo, si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione la violazione dell’art. 96 c.p.c..

Il ricorrente lamenta che l’affermazione della temerarietà della lite nei confronti dei destinatari delle azioni ex artt. 2055 e 2049 c.c. appaia ispirata a una visione contrattualistica, ossia basata sul “contratto di matrimonio”, dell’azione giudiziaria proposta dall’istante; laddove invece, nel caso di specie, per la giurisprudenza di legittimità si è in presenza di un illecito aquiliano o, al più, avente natura insieme contrattuale ed extracontrattuale.

Il ricorrente deduce pertanto l’erroneità della sentenza impugnata sia nella parte in cui ha confermato la condanna di primo grado, sia nella parte in cui ha nuovamente condannato il ricorrente per appello temerario.

8. Condanna alle spese.

8. Con l’ottavo motivo, si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c..

Il ricorrente lamenta che, in conseguenza dell’erroneo rigetto della propria domanda, sia stato condannato al pagamento delle spese di lite per entrambe le fasi di giudizio; e che, dal riconoscimento dell’erroneità di detto presupposto, dovrà conseguire la condanna degli intimati al rimborso di ogni somma a tale titolo percepita.

Al termine della esposizione dei motivi, il ricorrente reitera tutte le difese già svolte nel secondo grado di giudizio, affinché non si considerino abbandonate o non impugnate e rinnova la richiesta di cancellazione delle espressioni sconvenienti e offensive, formulata in primo grado e riproposta inutilmente in appello.

Il ricorso deve essere rigettato, in quanto la sentenza resiste alle critiche mosse con i numerosi motivi di ricorso, tra i quali è preliminare l’esame del motivo n. 3, l’infondatezza del quale rende in larga parte superfluo, per le ragioni che si diranno, l’esame degli altri.

Con il terzo motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata laddove ha escluso che la violazione del dovere di fedeltà, perpetrata dalla moglie nei suoi confronti, abbia integrato la violazione di un diritto costituzionalmente protetto e sia da considerarsi pertanto fonte di un danno risarcibile.

La sentenza impugnata muove dall’affermazione contenuta in Cass. n. 18853 del 2011, secondo la quale “I doveri che derivano ai coniugi dal matrimonio hanno natura giuridica e la loro violazione non trova necessariamente sanzione solo nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, quale l’addebito della separazione, discendendo dalla natura giuridica degli obblighi suddetti che la relativa violazione, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, possa integrare gli estremi dell’illecito civile e dare luogo ad un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 c.c., senza che la mancanza di pronuncia di addebito in sede di separazione sia a questa preclusiva”.

Da questa affermazione, pienamente condivisa (richiamata da ultimo da Cass. n. 4470 del 2018, che puntualizza che i danni alla persona, come danni conseguenza, debbano essere specificamente allegati e provati, anche a mezzo di presunzioni) ed alla quale si intende dare continuità, discendono alcune conseguenze.

La violazione dei doveri discendenti dal matrimonio rileva in primo luogo all’interno del rapporto matrimoniale stesso.

Anche nell’ambito della famiglia i diritti inviolabili della persona rimangono tali, e danno diritto alla protezione prevista dall’ordinamento, cosicché la loro lesione da parte di altro componente della famiglia può costituire presupposto di responsabilità civile.

I doveri che derivano dal matrimonio non costituiscono però in capo a ciascun coniuge e nei confronti dell’altro coniuge automaticamente altrettanti diritti, costituzionalmente protetti, la cui violazione è di per sè fonte di responsabilità aquiliana per il contravventore, ma la violazione di essi può rilevare, oltre che in ambito familiare, come presupposto di fatto della responsabilità aquiliana, qualora ne discenda la violazione di diritti costituzionalmente protetti, che si elevi oltre la soglia della tollerabilità e possa essere in tal modo fonte di danno non patrimoniale.

– La mera violazione dei doveri matrimoniali non integra quindi di per sé ed automaticamente una responsabilità risarcitoria, dovendo, in particolare, quanto ai danni non patrimoniali, riscontrarsi la concomitante esistenza di tutti i presupposti ai quali l’art. 2059 c.c. riconnette detta responsabilità, secondo i principi affermati nella sentenza 11 novembre 2008, n. 26972 delle Sezioni Unite, la quale ha ricondotto sotto la categoria e la disciplina dei danni non patrimoniali tutti i danni risarcibili non aventi contenuto economico.

Isolando, tra i vari doveri che derivano dal matrimonio, il dovere di fedeltà, del quale si assume la violazione nel caso in esame, ne discende che la violazione del dovere di fedeltà, sebbene possa indubbiamente essere causa di un dispiacere per l’altro coniuge, e possa provocare la disgregazione del nucleo familiare, non automaticamente è risarcibile, ma in quanto l’afflizione superi la soglia della tollerabilità e si traduca, per le sue modalità o per la gravità dello sconvolgimento che provoca nell’altro coniuge, nella violazione di un diritto costituzionalmente protetto, primi tra tutti il diritto alla salute o alla dignità personale e all’onore, richiamati del resto nelle stesse prospettazioni del ricorrente.

La risarcibilità di tali violazioni, si è detto altresì, esula e prescinde dall’ambito dei rimedi endofamiliari, quindi da un lato la mera violazione di tale dovere, o anche l’addebito della separazione in conseguenza della violazione di tale dovere non sono automaticamente fonte di responsabilità aquiliana (v. Cass. n. 610 del 2012, che ha escluso il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale in tesi connesso con l’infedeltà del coniuge cui la separazione per tale motivo era stata addebitata, in mancanza di prova della lesione dei diritti fondamentali e segnatamente dell’integrità psicofisica, e della conseguente ingiusta lesione di un suo diritto costituzionalmente protetto, ossia di circostanze atte ad integrare gli estremi dell’invocata tutela risarcitoria; v. anche Cass. n. 8862 del 2012), e per contro l’azione risarcitoria può essere promossa anche autonomamente ed a prescindere dal giudizio di addebito della responsabilità della separazione personale.

– L’autonomia delle due forme di tutela non implica naturalmente una impermeabilità delle circostanze eventualmente accertate in un giudizio rispetto all’altro, nel senso che i fatti che vengono in considerazione all’interno del giudizio di separazione personale, possono essere gli stessi, per la loro offensività, a rilevare nel diverso giudizio risarcitorio.

Il bene tutelato è però diverso: nel primo caso, ad essere invocate sono le conseguenze giuridiche che l’ordinamento specificamente ricollega alla pronuncia di addebito (e che sono, per il coniuge a carico del quale venga presa, l’esclusione del diritto al mantenimento -con salvezza del solo credito alimentare, ove ne ricorrano i requisiti- e la perdita della qualità di erede riservatario e di erede legittimo, con salvezza del diritto ad un assegno vitalizio in caso di godimento degli alimenti al momento dell’apertura della successione – artt. 156, 548 e 585 c.c.-); nel secondo, invece, viene in rilievo il risarcimento del pregiudizio non patrimoniale da lesione di diritti costituzionalmente garantiti.

Soprattutto, l’ordinamento non tutela il bene del mantenimento della integrità della vita familiare fino a prevedere che la sua violazione di per sé possa essere fonte di una responsabilità risarcitoria per dolo o colpa in capo a chi con la sua volontà contraria o comunque con il suo comportamento ponga fine o dia causa alla fine di tale legame. L’ammissione di una tale affermazione incondizionata di responsabilità potrebbe andare a confliggere con altri diritti costituzionalmente protetti, quali la libertà di autodeterminarsi ed anche la stessa libertà di porre fine al legame familiare, riconosciuta nel nostro ordinamento fin dal 1970.

Per contro, l’ordinamento protegge e sostiene dall’esterno il bene della vita familiare, con misure anche materiali a tutela del nucleo familiare e dei soggetti che fanno parte di tale essenziale formazione sociale.

Il dovere di fedeltà non trova il suo corrispondente quindi in un diritto alla fedeltà coniugale costituzionalmente protetto, piuttosto la sua violazione è sanzionabile civilmente quando, per le modalità dei fatti, uno dei coniugi ne riporti un danno alla propria dignità personale, o eventualmente un pregiudizio alla salute.

Nel caso di specie, la corte d’appello, attenendosi a questi principi, ha escluso in radice che la violazione del dovere di fedeltà fosse stata causa della separazione (perché la moglie avrebbe svelato al marito il suo tradimento solo mesi dopo la separazione), ed ha escluso anche che il tradimento, per le sue modalità, avesse potuto recare un apprezzabile pregiudizio all’onore e alla dignità del coniuge, in quanto non noto neppure nell’ambiente circostante e di lavoro o comunque non posto in essere con modalità tali da poter essere lesivo della dignità della persona.

Parimenti infondata è la contestazione contenuta nel sesto motivo, con la quale il L. si duole di non essere stato ammesso a provare il pregiudizio subito: la corte d’appello ha valutato, con suo apprezzamento discrezionale, e dato atto in motivazione, che i capitoli di prova erano volti a provare circostanze che, di per sé, non sarebbero state sufficienti ad integrare la prova di un rilevante pregiudizio alla dignità del L. per le caratteristiche del tradimento, e per il fatto che, anche se i testi avessero ammesso le circostanze oggetto di prova, ne sarebbe emersa la conoscenza della situazione non da parte del suo ambiente di lavoro ma di quello della moglie.

Il rigetto del terzo motivo porta con sé anche l’irrilevanza del quarto motivo in relazione alla posizione del B..

In proposito, è opportuno rilevare che, in sé, l’amante non è ovviamente soggetto all’obbligo di fedeltà coniugale – il quale riveste un evidente carattere personale-, e pertanto non potrebbe essere chiamato a rispondere per la violazione di tale dovere.

Laddove si alleghi, correttamente, che il diritto violato non è quello alla fedeltà coniugale, bensì il diritto alla dignità e all’onore, non può escludersi, in astratto, la configurabilità di una responsabilità a carico dell’amante. Essa, peraltro, potrà essere affermata soltanto se l’amante stesso, con il proprio comportamento e avuto riguardo alle modalità con cui è stata condotta la relazione extraconiugale, abbia leso o concorso a violare diritti inviolabili -quali la dignità e l’onore- del coniuge tradito (si pensi, per esempio, all’ipotesi in cui egli si sia vantato della propria conquista nel comune ambiente di lavoro o ne abbia diffuso le immagini), e purché risulti provato il nesso causale tra tale condotta, dolosa o colposa, e il danno prodotto. In caso contrario, infatti, il comportamento dell’amante è inidoneo a integrare gli estremi del danno ingiusto, costituente presupposto necessario del risarcimento ex art. 2043 c.c., avendo egli semplicemente esercitato il suo diritto, costituzionalmente garantito, alla libera espressione della propria personalità, diritto che può manifestarsi anche nell’intrattenere relazioni interpersonali con persone coniugate; allo stesso modo in cui, sia pure entro i limiti delineati, resta libero di autodeterminarsi ciascun coniuge.

Ciò premesso, il quarto motivo è comunque, in parte qua, irrilevante, dal momento che avrebbe potuto farsi questione dell’esclusa corresponsabilità dell’amante della controricorrente, come co-artefice della distruzione del nucleo familiare o come corresponsabile delle lesioni ai valori costituzionalmente protetti riportate dal marito, soltanto qualora la moglie stessa fosse stata ritenuta responsabile di ciò, in accoglimento del terzo motivo di ricorso, non essendo mai stata allegata una autonoma condotta denigratoria o diffamatoria del B. Quanto alla posizione delle due società, il quarto motivo è comunque infondato, in quanto non è configurabile, in ogni caso, una responsabilità (concorrente con quella del danneggiante principale) della società datrice di lavoro per non aver sorvegliato e evitato che tra i dipendenti si instaurassero relazioni personali lesive del diritto alla fedeltà coniugale; e ciò anche nel più limitato ambito della rilevanza solo indiretta della violazione di tali doveri, qualora la violazione di essi abbia dato causa alla violazione del rispetto alla dignità personale dell’altro coniuge. L’ingerenza del datore di lavoro nelle scelte di vita personali dei dipendenti integrerebbe di per sé, al contrario, la violazione di altri diritti costituzionalmente protetti, quali il diritto alla privacy nel luogo di lavoro.

Il rigetto del terzo motivo porta con sé l’irrilevanza del quinto motivo. Dalla sentenza impugnata non emerge affatto che corte d’appello abbia attribuito una scarsa rilevanza alla confessione stragiudiziale della I. in ragione della sua revoca è stato invece escluso che i fatti integranti la violazione del dovere di fedeltà, per come si erano svolti, avessero potuto comportare una violazione del diritto alla propria dignità personale del L..

Riprendendo l’esame del primo motivo, sulla omessa declaratoria di estinzione nei confronti della riconvenzionale del B., che si era costituito parte civile nel processo penale, il ricorso è eccessivamente generico.

Anche il secondo motivo è eccessivamente generico e inoltre è irrilevante, perché la finalità cui era tesa la produzione documentale richiesta e non ammessa era provare che tutti sapessero, nell’ambiente di lavoro della moglie, che la stessa avesse conseguito un avanzamento in carriera solo grazie al supporto dell’uomo col quale aveva una relazione, circostanza ritenuta irrilevante dalla corte d’appello ai fini della prova della lesione del diritto alla dignità personale del marito.

Il settimo motivo, con il quale il ricorrente lamenta di aver subito una ingiusta condanna per lite temeraria nei confronti degli appellati, è infondato: in primo luogo, è stato condannato ex art. 96 c.p.c. nei soli confronti del B., in secondo luogo, la sentenza di appello, che conferma il rigetto della sua domanda, ha valutato la sussistenza dei presupposti della responsabilità processuale aggravata per aver evocato e costretto a resistere ad una impugnazione infondata, situazione valutabile dalla parte, anch’essa avvocato. L’ottavo, con il quale si lamenta la condanna alle spese, conseguente all’esito negativo del giudizio di merito, è inammissibile perché è strumentale alla contestazione dell’esito stesso del giudizio, ed infondato laddove non c’è stata alcuna violazione delle regole di soccombenza.

Il ricorso va pertanto rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come al dispositivo. Il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, e il ricorrente risulta soccombente, pertanto egli è gravato dall’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Pone a carico del ricorrente le spese di giudizio sostenute dalle tre parti controricorrenti, che liquida in complessivi Euro 1.800,00 per ciascuno, oltre 200,00 per esborsi, oltre contributo spese generali ed accessori.

Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte de ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Corte di Cassazione, il 11 dicembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 7 marzo 2019

La determinazione dell’assegno divorzile non può limitarsi al raffronto oggettivo delle condizioni economiche patrimoniali delle parti (Tribunale di Roma, sez. I, sentenza 1 febbraio 2019)

(di Valeria Cianciolo – Sez. Ondif di Bologna)

Il giudizio avente ad oggetto la determinazione dell’assegno divorzile non può limitarsi al raffronto oggettivo delle condizioni economiche patrimoniali delle parti dovendo procedersi all’effettiva valutazione del contributo fornito dal coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio comune e alla formazione del profilo economico patrimoniale dell’altra parte anche in relazione alle potenzialità future.

Nel caso di specie, la resistente aveva sempre svolto la propria attività lavorativa, non aveva chiesto alcun assegno di mantenimento in sede di separazione consensuale e non aveva particolari oneri di mantenimento della figlia.

Sposando le indicazioni dettate dalla sentenza della Cass. Civ. Sez. Un. 18287/201, il Tribunale capitolino ha rigettato la domanda di assegno divorzile svolta dalla parte resistente, in pendenza del giudizio di divorzio.

Madre disoccupata. Invocabile lo stato di necessità nell’occupazione abusiva di edifici pubblici Nota a Tribunale Di Milano, Sez. X Penale, 10 gennaio 2019, n. 13466

di Valeria Cianciolo

Il Tribunale meneghino ha assolto perché il fatto non costituiva reato, una donna imputata del reato di invasione di edifici pubblici di cui all’art. 633 c.p., per essersi introdotta, con i suoi due figli, gravemente malati, in un immobile di proprietà ALER di Milano di Trapani.

Dagli atti è emerso che la stessa occupava l’abitazione con i suoi due figli, una volta perso il suo lavoro di colf.

Nel caso di specie, oltre al disagio desumibile dalle circostanze constatate e dalla condizione di madre, è emersa la sussistenza di una situazione di assoluta e non procrastinabile emergenza, tale da rendere inevitabile il ricorso alla occupazione dell’alloggio di proprietà pubblica.

Il Tribunale ha assolto la donna ritenendo operante la scriminante dello stato di necessità ex art. 54 c.p., considerato che la condotta è stata posta in essere non solo per soddisfare esigenze abitative, ma anche per la necessità, appunto, di tutelare i componenti della famiglia da danni gravi alla persona.

Il primo dato di fatto dal quale partire è che l’imputata ha occupato stabilmente l’immobile avendolo trasformato in loro residenza fissa.

Il secondo elemento che viene in rilievo è il dettato dell’art. 54 c.p., nella parte in cui stabilisce che, per la configurabilità dello stato di necessità (la cui prova spetta all’imputato che la invoca e che nel caso di specie è stata ampiamente data), occorre che il pericolo sia “attuale.” Non può, invero, parlarsi di attualità del pericolo in tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti, caratterizzate da cronicità, quale l’esigenza di una soluzione abitativa, considerando che l’edilizia popolare è destinata a risolvere le esigenze dei non abbienti, attraverso procedure pubbliche e regolamentate, e non certamente arbitrarie. Si può invece, affermare che agisce in stato di necessità, e non risponde del delitto di invasione di edifici, la donna in stato di indigenza economica, madre di due figli in tenera età e in stato di gravidanza, che occupi arbitrariamente un alloggio popolare essendovi costretta dalla necessità di rinvenire per sé e per i propri figli un’abitazione adeguata.

Quanto appena detto, porta, pertanto a ritenere che lo stato di necessità, nella specifica e limitata ipotesi dell’occupazione di beni altrui, può essere invocato solo per un pericolo attuale e transitorio, non certo per sopperire per condizioni di indigenza, alla necessità di trovare un alloggio al fine di risolvere, in via definitiva, la propria esigenza abitativa.

Cassazione Civ., Sez. VI, ordinanza 15 febbraio 2019 n. 4659 E’ possibile configurare l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente more uxorio verso l’altro

(di Valeria Cianciolo  – Sez. Ondif di Bologna)

L’azione generale di cui all’art. 2041 c.c. ha come presupposto la locupletazione di un soggetto a danno dell’altro che sia avvenuta senza giusta causa, sicché non è dato invocare la mancanza o l’ingiustizia della causa qualora l’arricchimento sia conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto di liberalità o dell’adempimento di un’ obbligazione naturale; sarà pertanto possibile configurare l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente more uxorio nei confronti dell’altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza, da parametrare sulle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti (Cass. sez. III, 15 maggio 2009, n. 11330).

Un’attribuzione patrimoniale a favore del convivente more uxorioconfigura l’adempimento di un’obbligazione naturale a condizione che la prestazione risulti adeguata alle circostanze e proporzionata all’entità del patrimonio e alle condizioni sociali del solvens (Cass. sez. II, 13 marzo 2003, n. 3713). Senza dimenticare che, da sempre, la giurisprudenza di legittimità ritiene che l’arricchimento senza causa non sussiste se lo squilibrio economico, a favore di una parte ed in pregiudizio dell’altra, sia voluto dagli interessati, cioè quando il trasferimento dell’utilità economica trovi giustificazione nel consenso della parte che assuma di essere danneggiata, concretizzandosi in una vera e propria attribuzione patrimoniale a fondo perduta atta ad avvantaggiare il soggetto che si presume arricchito; la volontaria prestazione esclude l’ingiusto arricchimento, quali che siano per entrambi gli interessati le conseguenze patrimoniali economiche, vantaggiose o svantaggiose, della libera e concorde determinazione della loro volontà (Cass. sez. I, 27 febbraio 1978, n. 1024).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – rel. Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18448-2017 proposto da:

C.V., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA xxxxxxx, presso lo studio dell’avvocato FM, rappresentato e difeso dall’avvocato LD;

– ricorrente –

contro

P.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE xxxxxx, presso lo studio dell’avvocato GLC, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato LMF;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 92/2017 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 17/01/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 08/11/2018 dal Consigliere Dott. SESTINI DANILO.

Svolgimento del processo

che:

P.M. convenne in giudizio l’ex convivente more uxorio C.V. chiedendo che, ai sensi dell’art. 2041 c.c., fosse condannato a corrisponderle la metà del valore di un immobile intestato al solo convenuto, che era stato costruito col rilevante contributo economico dell’attrice, o al pagamento di altra somma pari agli importi investiti dalla P. nella costruzione dell’immobile;

il Tribunale di Ivrea accolse la domanda per l’importo di 80.000,00 Euro e condannò il C. al pagamento di tale somma;

in parziale accoglimento del gravame di quest’ultimo, la Corte di Appello di Torino ha ridotto la somma dovuta a 25.000,00 Euro e, rigettato l’appello incidentale della P., ha condannato il C. al pagamento delle spese dei due gradi di giudizio;

ha proposto ricorso per cassazione il C., affidandosi a tre motivi illustrati da memoria; ha resistito l’intimata con controricorso.

Motivi della decisione

che:

col primo motivo, articolato in due sotto-motivi, il ricorrente deduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 2041 c.c., ex art. 360 c.p.c., n. 3, “e/o omessa o insufficiente motivazione ai sensi dell’art. 360, n. 5”: il C. afferma (sub IA) la “inapplicabilità tout court dell’art. 2041 c.c. in ambito di convivenza more uxorio”,- dovendosi ricondurre gli esborsi effettuati in corso di convivenza all’adempimento di doveri morali e sociali ex art. 2034 c.c., e sostiene (sub IB) che la Corte ha “errato nel valutare solo l’aspetto economico”, senza considerare che i supposti trasferimenti di somme non erano privi di causa, in quanto effettuati dalla P. “nell’ottica di contribuire alla ristrutturazione della “casa coniugale””, anche al fine di provvedere alle necessità abitative del figlio allora minorenne;

premessa l’inammissibilità della censura formulata in termini di “omessa o insufficiente motivazione” (ai sensi del vecchio testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5), il primo sotto-motivo è inammissibile ex art 360 bis c.p.c., in quanto la decisione è conforme alla consolidata giurisprudenza di legittimità (da cui non v’è ragione di discostarsi), secondo cui è “possibile configurare l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente “more uxorio” nei confronti dell’altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza – il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto – e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza” (Cass. n. 11330/2009; cfr. anche Cass. n. 1277/2014 e Cass. n. 14732/2018); il secondo sotto-motivo è parimenti inammissibile perché mira a conseguire una diversa valutazione di merito circa il fatto che gli esborsi travalicassero, nello specifico, i limiti di proporzionalità e adeguatezza rispetto al mero adempimento di un’obbligazione naturale; tanto più perché il difetto di una giusta causa non va inteso – come parrebbe proporre il ricorrente- quale assenza di una ragione che abbia determinato la locupletazione in favore dell’arricchito, ma quale carenza di una ragione che consenta a quest’ultimo di trattenere quanto ricevuto;

il secondo motivo (che denuncia nuovamente la violazione o falsa applicazione dell’art. 2041 c.c. e l’omesso o erroneo esame di un fatto decisivo) è anch’esso inammissibile in quanto non contiene alcuna specifica censura in iure, limitandosi a contestare l’apprezzamento delle prove da parte della Corte e a sollecitare una lettura di segno opposto, e non individua specificamente alcun fatto effettivamente decisivo di cui la sentenza abbia omesso l’esame;

il terzo motivo (in punto di violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c.) censura la sentenza per avere condannato il C. al pagamento delle spese del grado di appello, nonostante il parziale accoglimento dell’appello principale e il rigetto dell’impugnazione incidentale;

il motivo è infondato in quanto la Corte si è attenuta al criterio della soccombenza, sulla base dell’esito complessivo della lite (cfr. Cass. 11423/2016), che ha visto accogliere seppure parzialmente- la domanda della P., e non è censurabile in sede di legittimità la scelta del giudice di merito di non avvalersi della facoltà di compensare, in tutto o in parte, le spese di lite;

al rigetto del ricorso consegue la condanna del C. al pagamento delle spese del presente giudizio;

sussistono le condizioni per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art.13, comma 1- quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite, liquidate in Euro 2.800,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, al rimborso degli esborsi (liquidati in Euro 200,00) e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 8 novembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 15 febbraio 2019

Cass. civ. Sez. II, Ord., 19 febbraio 2019, n. 4843 Ai fini dell’accettazione dell’eredità, è priva di rilevanza la richiesta di registrazione del testamento e la sua trascrizione da parte del soggetto interessato

(di Valeria Cianciolo  – Sez. Ondif di Bologna)

La Corte di cassazione ha affermato che, ai fini dell’accettazione dell’eredità, è priva di rilevanza la richiesta di registrazione del testamento e la sua trascrizione da parte del soggetto interessato, trattandosi di adempimenti aventi prevalentemente carattere fiscale, sono inidonei ad esprimere una intenzione univoca di accettare l’eredità

Gli artt. 475 e ss. Cod. civ. distinguono l’ipotesi di accettazione espressa dell’eredità, che si attua quando la volontà di acquisire la qualità di erede viene manifestata in modo diretto, con un atto formale, dall’interessato, e quella di accettazione tacita (di eredità) che si manifesta quando il chiamato all’eredità compie un atto implicante necessariamente – ed in modo inequivoco – la volontà di accettare, tale che non potrebbe essere compiuto se non nella qualità di erede.

Si ritiene sia in dottrina che in giurisprudenza che siano  presupposti fondamentali e indispensabili, ai fini di una accettazione tacita, 1. la consapevolezza, da parte del chiamato, dell’esistenza di una delazione in suo favore; 2. l’assunzione di un comportamento inequivoco del chiamato, in cui si possa riscontrare sia l’elemento intenzionale di carattere soggettivo (c.d. animus), sia il richiamato elemento oggettivo della natura dell’atto, che solo l’erede avrebbe il diritto di compiere.

La giurisprudenza si è sovente pronunciata sulla sussistenza o meno di una accettazione tacita mettendo in evidenza l’importanza che assume la valutazione della volontà del chiamato che pone in essere un comportamento incompatibile con la volontà di rinunciare o concludente e significativo della volontà di accettare.

Non costituisce accettazione tacita dell’eredità, d’altronde, la mera richiesta di informazioni circa l’esistenza di un testamento o di beni relitti del de cuius (Trib. Padova 19.1.2015). Non è stato ritenuto atto univoco la mera immissione nel possesso dei beni ereditari (Cass. 16507/2006; Cass. 20868/2005; C. 3018/2005; C. 178/1996,  come pure la semplice richiesta di registrazione del testamento e la sua trascrizione (Trib. Firenze 20.2.1993). Nemmeno determina accettazione (tacita) dell’eredità la mera partecipazione da parte del chiamato alla redazione inventario (Trib. Pescara 30.6.2016).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – rel. Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 9536/2015 proposto da:

T.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA XXXXXXX , presso lo studio dell’avvocato SG, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato CB;

– ricorrente –

contro

O.A., G.M.V., O.I., elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE xxxxxxxxx, presso lo studio dell’avvocato ADV, che li rappresenta e difende;

– controricorrenti –

avverso la sentenza emessa il n.2599/15 del TRIBUNALE di ROMA, depositata il 03/02/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 08/11/2018 dal Consigliere ANTONINO SCALISI.

Svolgimento del processo

Con due diversi atti di appello, proposti contro le sentenze del. Giudice di Pace Roma, nn. 525/11 e 1026/2011, le sig.re O.I. e G.M.V. ne chiedevano la riforma in danno del sig. T.E.. Questi, a sua volta, proponeva appello avverso la sentenza del Giudice di Pace di Roma n. 29396/2011, nei confronti del sig. O.A.. Le tre impugnazioni davano luogo, rispettivamente, ai proc. nn. 46116/2011, 46118/2011 e 18394/2012, assegnati a diversi Giudici di questa sezione, procedimenti che erano poi riuniti a quello più vecchio per essere tra loro connessi.

Trattasi di opposizioni sia ex art. 615 c.p.c., contestandosi da parte degli O.- G. il diritto del creditore procedente sig. T.E. a pretendere l’adempimento dell’obbligazione già gravante sul sig. O.G., in forza del D.I. n. 527/1999, sia ex art. 617 c.p.c., in quanto i G.- O. contestavano la validità della costituzione in giudizio dell’originario difensore del T., asserendone la carenza di potere per mancanza di valida procura alle liti, sicchè l’appellato/appellante avrebbe dovuto essere dichiarato contumace dal Giudice di Pace.

Eccepiva, altresì il difensore dei G.- O. l’illeggibilità della procura alle liti conferita dal T., in margine al ricorso per decreto ingiuntivo, prodotto in fotocopia e, conseguentemente, la impossibilità di riconoscerne la validità.

Costituitosi nei giudizi conseguenti le sentenze nn. 525 e 1026 del 2011 che gli davano ragione, il T. chiedeva il rigetto degli appelli proposti dalle sig.re G. e O.I. mentre, con l’appello proposto contro la sentenza 29396/2011 del G.d.P. che aveva accolto l’opposizione proposta dal sig. O.A., ne chiedeva la riforma.

Correttamente, quindi, i giudizi sono stati riuniti, perchè, trattandosi della medesima questione, richiedono decisione univoca.

Il giudizio è stato interrotto, a seguito di vicende riguardanti il difensore del T., in data 19.3.2014, e riassunto dalle sig.re G. e O.I., con atto del 25.3.14, atto a seguito del quale il Giudice assegnava termine per la notifica all’appellato T. sino al 5.11.2014, fissando udienza per la precisazione delle conclusioni. A sua volta, il T., munitosi di nuovi difensori, riassumeva il giudizio contro O.A., con atto dell’11.6.2014.

Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 2599 del 2015, accoglieva, parzialmente, l’appello, riconoscendo valida la procura conferita dal T. all’avv. Tralicci, rigettava, nel merito, l’appello riconoscendo che il sig. O. era privo della qualità di erede di O.G., per cui non poteva essere destinatario del precetto intimatogli. Accoglieva gli appelli spiegati dalle sigg.re O.I. e G.M.V. e, in riforma delle relative sentenze, annullava i precetti azionati, riconoscendo gli appellanti carenti di legittimazione passiva per non essere eredi di O.G.. Compensava, integralmente, le spese del giudizio.

La cassazione di questa sentenza è stata chiesta da T.E. con ricorso affidato a tre motivi. G.M.V., O.I. e O.A. hanno resistito con controricorso. In prossimità della Camera di Consiglio le parti hanno depositato memorie.

Motivi della decisione

1.- Con il primo motivo di ricorso, T.E. lamenta la violazione o falsa applicazione delle norme di diritto, ex art. 360 c.p.c., n. 3, con riguardo agli artt. 115 e 116 c.p.c., e art. 476 c.p.c. Secondo il ricorrente, la Corte distrettuale, nel ritener che O.G. (oggi eredi O.I., O.A. e G.V.) avesse rinunciato all’eredità (11 settembre 2003), non avrebbe tenuto conto che la trascrizione della denuncia di successione (del 7 ottobre 2004) attestava l’avvenuta valutazione pro quota dell’immobile oggetto di successione e la valutazione integrava gli estremi di un’accettazione tacita dell’eredità.

1.1.- Il motivo è infondato.

Va qui premesso che le censure poste a fondamento del ricorso non possono risolversi nella sollecitazione di una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice di merito, o investire la ricostruzione della fattispecie concreta, o riflettere un apprezzamento dei fatti e delle prove difforme da quello dato dal giudice di merito. Nel caso in esame, il Tribunale di Roma ha correttamente valutato e validamente motivato la decisione tenendo conto dei dati processuali nonché dei fatti allegati e provati nel corso del giudizio. Infatti come afferma la sentenza impugnata “(…) a fronte della rinuncia all’eredità di O.G. dell’11 settembre 2003 la trascrizione della denuncia della successione in data 7 ottobre 2004 non ha alcuna valenza contraria (….), si tratta, per l’appunto, soltanto, di trascrizione e non di diversa e più pregnante ai fini dell’accettazione dell’eredità) richiesta di voltura (…)”.

Come appare evidente, il Tribunale ha valutato non solo la diversità delle date e, cioè, che la rinuncia all’eredità è stata posta in essere l’11 settembre 2003, mentre la trascrizione della successione risale al 7 ottobre 2004, ma, ha considerato, che risultava dai documenti acquisiti al processo, una richiesta di trascrizione e non già una richiesta di voltura dei beni.

Inconferente è, poi, la tesi sostenuta dal ricorrente secondo la quale la voltura emergerebbe dalla stessa trascrizione della denuncia di successione, perché, non tiene conto che la voltura, essendo una richiesta documentale, va provata non per presunzione, ma, con il documento con cui è stata chiesta, da dove può risultare quando, come e, soprattutto, da chi è stata chiesta.

2.- Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione delle norme di diritto, ex art. 360 c.p.c., n. 3, con riguardo agli artt. 115, 116 e 2697 c.c., e art. 214 c.p.c.. Secondo il ricorrente, il Tribunale avrebbe errato nel considerare rilevante ai fini del decidere l’omessa presentazione di un’istanza di verificazione e la non utilizzabilità per difetto di sottoscrizione di un documento (modello 311), perché non avrebbe considerato che il documento era, totalmente, irrilevante al fine di decidere (in ordine all’accettazione o meno dell’eredità) costituendo una mera richiesta di copie.

2.1.- Il motivo è inammissibile, per mancanza di interesse, posto che, ai fini assiologici pratici, non vi è differenza tra un documento irrilevante ai fini del decidere (in ordine all’accettazione o meno dell’eredità), trattandosi di una richiesta di copie, e un documento inutilizzabile ai fini del decidere, per mancata verificazione a seguito di disconoscimento della sottoscrizione da parte di O.G..

3.- Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione delle norme di diritto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con riguardo agli artt. 460 e 476 c.p.c., vizio di motivazione, ex art. 360 c.p.c., n. 5. Secondo il ricorrente, avrebbe errato il Tribunale nell’escludere l’accettazione tacita dell’eredità non avendo considerato che l’attuale ricorrente aveva eccepito un’accettazione tacita dell’eredità non semplicemente con riguardo all’istanza ex art. 495 c.p.c., ma, anche, con riguardo ad una serie di atti processuali, posti in essere dai resistenti, e che sono stati allegati al fascicolo.

3.1.- Anche questo motivo non ha ragion d’essere e non può essere accolto.

La normativa di cui all’art. 475 c.c. e ss., prevede l’ipotesi di accettazione espressa dell’eredità quando la volontà di essere erede viene manifestata in modo diretto, con un atto formale, e l’ipotesi di accettazione tacita (di eredità) che si verifica quando la persona chiamata all’eredità compie un atto che implica, necessariamente, la volontà di accettare, e che tale soggetto non potrebbe compiere se non nella sua qualità di erede. La dottrina e la giurisprudenza concordano nel ritenere che presupposti fondamentali e indispensabili ai fini di una accettazione tacita sono: la presenza della consapevolezza, da parte del chiamato, dell’esistenza di una delazione in suo favore; che il chiamato assuma un comportamento inequivoco, in cui si possa riscontrare sia l’elemento intenzionale di carattere soggettivo (c.d. animus), sia l’elemento oggettivo attinente all’atto, tale che solo chi si trovi nella qualità di erede avrebbe il diritto di compiere. Di norma, poi, vengono considerate forme di accettazione tacita di eredità: a) la proposizione da parte del chiamato dell’azione di rivendicazione, oppure, l’esperire l’azione di riduzione, l’azione, cioè, volta a far valere la qualità di legittimario leso o, comunque, pretermesso dalla sua quota; b) l’azione di risoluzione o di rescissione di un contratto; c) l’azione di divisione ereditaria, posto che può essere proposta solo da chi ha già assunto la qualità di erede; d) la riassunzione di un giudizio già intrapreso dal de cuius o la rinuncia agli effetti di una pronuncia in grado di appello; e) il pagamento da parte del chiamato dei debiti lasciati dal de cuius col patrimonio dell’eredità; f) ed infine, secondo la dottrina più attenta, anche, la voltura catastale determinerebbe un’accettazione tacita dell’eredità, nella considerazione che solo chi intenda accettare l’eredità assumerebbe l’onere di effettuare tale atto e di attuare il passaggio legale della proprietà dell’immobile dal de cuius a sè stesso.

Ora, nel caso in esame, il Tribunale ha, correttamente escluso che agli atti del processo vi fosse uno di quegli atti che abbiamo appena richiamato. Piuttosto, come correttamente ha affermato il Tribunale: “Ai fini della accettazione tacita dell’eredità sono privi di rilevanza tutti quegli atti che, attesa la loro natura e finalità, non sono idonei ad esprimere, in modo certo, l’intenzione univoca di assunzione della qualità di erede, quali la denuncia di successione, il pagamento delle relative imposte, la richiesta di registrazione del testamento e la sua trascrizione, infatti, trattandosi di adempimenti di prevalente contenuto fiscale, caratterizzati da scopi conservativi, legittimamente, può essere esclusa dal giudice del merito, a cui compete il relativo accertamento, il proposito di accettare l’eredità. Peraltro, siffatto accertamento non può limitarsi all’esecuzione di tali incombenze, ma deve estendersi al complessivo comportamento dell’erede potenziale, ed all’eventuale possesso e gestione anche solo parziale dell’eredità”. (Cass. 5275/1986, tra le altre). Chiarissimo questo autorevole supporto a quanto sostenuto, va aggiunto che, il 18.4.2011 fu proprio il T. a ricorrere al Presidente del Tribunale per ottenere la nomina di un curatore dell’eredità giacente del sig. O.G.. Ottenuto tale curatore, il T. ha chiesto e ottenuto contro di lui un decreto ingiuntivo, sicché appare del tutto contraddittoria la sua posizione laddove insiste nel considerare, contro ogni ragione, la sig.ra G. e i sig.ri O.I. e A. eredi del predetto de cuius. A chiusura, va ricordato che la sig.ra G. era comproprietaria con il marito defunto della casa di via (OMISSIS), sicché quand’anche la occupi con i figli, ciò non comporta accettazione di eredità. Nessun pregio ha la circostanza che nella procedura esecutiva n. 197/2010 sia stata richiesta la conversione del debito, ai sensi dell’art. 495 c.p.c., atteso che l’istanza, com’è noto, non comporta alcun riconoscimento di esso – meno che mai comporta accettazione di eredità, servendo solo a evitare le nefaste conseguenze dell’esecuzione (…)”.

In definitiva, il ricorso va rigettato e il ricorrente in ragione del principio di soccombenza ex art. 91 c.p.c., condannato a rimborsare a parte controricorrente le spese del presente giudizio di cassazione che vengono liquidate con il dispositivo. Il Collegio dà atto che, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rimborsare alle parti ricorrenti le spese del presente giudizio che liquida per ciascuna parte controricorrente, in Euro 1.000,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre maggiorazione per spese generali pari al 15% dei compensi ed accessori nella misura di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modif. dalla L. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile di questa Corte di Cassazione, il 8 novembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 19 febbraio 2019

Il giudice può decidere anche senza ascoltare il minore di anni 6 Nota Cass. civ. Sez. I, Ord., 13.02.2019, n. 4246

(di Valeria Cianciolo  – Sez. Ondif di Bologna)

La prima parte del 1° comma dell’art. 337 -octies c. c. dispone che Prima dell’emanazione, anche in via provvisoria, dei provvedimenti di cui all’articolo 337-ter, il giudice può assumere, ad istanza di parte o d’ufficio, mezzi di prova. Il giudice dispone, inoltre, l’ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento.

L’ascolto costituisce una modalità, tra le più rilevanti, di riconoscimento del diritto fondamentale del minore ad essere informato ed esprimere la propria opinione e le proprie opzioni nei procedimenti che lo riguardano, costituendo tale peculiare forma di partecipazione del minore alle decisioni che lo investono uno degli strumenti di maggiore incisività al fine del conseguimento dell’interesse del medesimo.

La Corte di Appello di L’Aquila con ordinanza in data 5/2/2018, ha confermava il provvedimento pronunciato dal Tribunale di L’Aquila favorevole alla istanza avanzata da Tizia di attribuire a Caietta, figlia sua e di Mevio il cognome paterno a seguito della dichiarazione giudiziale di paternità attribuita al padre con sentenza passata in giudicato.

Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso in cassazione Mevio.

il ricorrente lamentava violazione dell’art. 262 c. c. e convenzioni di New York e di Strasburgo in quanto la decisione era stata adottata in primo grado e confermata in appello senza audizione della minore.

A tal riguardo la Corte rammenta un suo precedente (sez. 1, Sentenza n. 6129 del 26/03/2015): “L’audizione dei minori, già prevista nell’art. 12 Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, è divenuta un adempimento necessario nelle procedure giudiziarie che li riguardino e in particolare in quelle relative al loro affidamento ai genitori, ai sensi dell’art. 6 Convenzione di Strasburgo 25 gennaio 1996, ratificata con la L. n. 77 del 2003, nonché dell’art. 315-bis c.c. (introdotto dalla L. n. 219 del 2012) e degli artt. 336-bis e 337-octies c. c. (inseriti dal D. Lgs. n. 154 del 2013, che ha altresì abrogato l’art. 155-sexies c. c.). Ne consegue che l’ascolto del minore di almeno dodici anni e anche di età minore ove capace di discernimento, costituisce una modalità, tra le più rilevanti, di riconoscimento del suo diritto fondamentale ad essere informato e ad esprimere le proprie opinioni nei procedimenti che lo riguardano, nonchè elemento di primaria importanza nella valutazione del suo interesse”.

Nella fattispecie tuttavia trattandosi di un minore di età inferiore a sei anni appare motivata e ragionevole la decisione del giudice di merito di ometterne l’ascolto come correttamente motivato nella sentenza che ha ritenuto, in ragione dell’età, che la minore non potesse discernere in ordine alla materia trattata quale fosse il proprio intendimento.

Il giudice ha il dovere di “non” ascoltare il minore non solo qualora quest’ultimo non abbia capacità di discernimento (vuoi per ragioni d’età, vuoi per altre cause[1], ma anche quando l’ascolto si porrebbe in contrasto con il suo stesso interesse – e questo lo si ricava(va) dallo “spirito” complessivo delle norme e, ora, anche dall’art. 336 bis, 1° comma, c. c. che esclude quest’attività anche quando appare manifestamente superflua[2].

Il diritto del minore a essere ascoltato non deve mai, in altre parole, ritorcersi contro, andare a danno di chi ne è titolare, perchè si arriverebbe ad una distorsione di questo diritto. Più che un’eccezione al principio dell’ascolto, quello della non-contrarietà al suo interesse è un suo limite intrinseco, connaturato all’esistenza stessa del diritto. Cosicché, accanto al diritto del minore a essere ascoltato, trova spazio anche il suo diritto a “non” essere ascoltato (si pensi, anche, al caso in cui il figlio manifesti una volontà in tal senso, e purché il giudice se ne sia accertato).

In entrambe queste ipotesi – sia qualora il giudice escluda la capacità di discernimento di un soggetto maggiore di dodici anni o qualora la ritenga, invece, sussistente in uno più giovane, sia qualora egli decida di non procedere all’ascolto perché giudicato contrario all’interesse del minore– egli dovrà spiegare e giustificare la propria decisione.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. GENOVESE F. Antonio – Consigliere –

Dott. MELONI Marina – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso nr. 10827/2018 proposto da:

P.G., elettivamente domiciliato in Roma Via Trionfale 21 presso lo studio dell’Avv.to F. C. e rappresentato e difeso dall’Avv.to I. D.B. giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

B.L. in qualità di esercente la potestà genitoriale sulla minore B.M.V. elettivamente domiciliata in Roma Via Trionfale 21 presso lo studio dell’Avv.to F. C. e rappresentato e difeso dall’Avv.to I. D. B. giusta procura speciale in calce al ricorso;

– controricorrente –

CURATORE SPECIALE della minore B.M.V.;

PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA presso la CORTE DI APPELLO DELL’AQUILA;

avverso l’ordinanza nr. 68/2018 della CORTE DI APPELLO DI L’AQUILA in data 5/02/2018;

udita la relazione del Consigliere, Dott. Marina Meloni svolta nella camera di consiglio della prima sezione civile in data 3/12/2018;

lette le conclusioni scritte del P.G. in persona del dott. De Augustinis U., che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso ed in subordine il rigetto

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di L’Aquila con ordinanza in data 5/2/2018, ha confermato il provvedimento pronunciato dal Tribunale di L’Aquila favorevole alla istanza avanzata da B.L. di attribuire a B.M.V., figlia sua e di P.G. il cognome paterno a seguito della dichiarazione giudiziale di paternità attribuita a P.G. con sentenza passata in giudicato.

Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso in cassazione P.G. affidato a sei motivi. B.L. ha depositato controricorso.

Il P.G. ha depositato conclusioni scritte chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso ed in subordine il rigetto.

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso, il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 99 e 125 c.p.c. in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto il ricorso è stato introdotto con domanda al Giudice Tutelare incompetente.

Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta violazione degli artt. 737 e 738 c.p.c. per essere stato il procedimento trattato dal Presidente del Tribunale invece che dal Collegio.

Con il terzo motivo di ricorso il ricorrente lamenta violazione degli artt 70 e 71 c.p.c. per la mancata partecipazione del Pubblico Ministero al giudizio.

I tre motivi di ricorso sono infondati e devono essere respinti. Infatti, come correttamente dichiarato dal Giudice di merito, la mera intestazione del ricorso al Giudice Tutelare non comporta alcuna nullità sia perché, come afferma la Corte di Appello, nelle conclusioni la ricorrente ha poi esattamente investito il Tribunale dei Minorenni competente, sia perché l’istanza presentata è stata effettivamente decisa ed accolta dal Tribunale competente in composizione collegiale nel pieno rispetto del contraddittorio. Del pari infondata è la censura relativa alla trattazione del procedimento da parte del solo Presidente, davanti al quale sono state solo sentite le parti, in quanto, al contrario, risulta poi dalla sentenza impugnata che il provvedimento è stato regolarmente emesso dall’intero Collegio.

Infine per quanto riguarda il P.M. occorre osservare che il predetto era stato regolarmente posto in condizione di svolgere l’attività in giudizio del quale aveva avuto regolare comunicazione. Infatti per l’osservanza delle norme che prevedono l’intervento obbligatorio del P.M. nel processo civile è sufficiente che gli atti siano comunicati all’ufficio del P.M., per consentirgli di intervenire nel giudizio, senza che rilevi, o possa in alcun modo essere oggetto di censura o di nullità processuale, il modo dell’intervento di tale organo e l’uso fatto del potere di intervento a lui attribuito, trattandosi di modalità rimesse alla sua diligenza. (Sez. 1, Sentenza n. 1345 del 21/01/2005).

Con il quarto motivo di ricorso il ricorrente lamenta violazione dell’art. 324 c.p.c. in quanto la decisione adottata in primo grado e confermata in appello era in contrasto con il giudicato formatosi a seguito della sentenza della Corte di Cassazione 25735/2016 nella quale, dopo aver accertato la paternità, nulla era stato previsto in merito al cambio di cognome della minore. Il motivo è infondato in quanto risulta dalla sentenza impugnata che nel giudizio sopra indicato nessuna domanda era stata avanzata in ordine al cambio di cognome della minore e pertanto è agevole osservare che sul punto non si è formato alcun giudicato.

Con il quinto motivo di ricorso il ricorrente lamenta violazione dell’art. 262 c. c. e convenzioni di New York e di Strasburgo in quanto la decisione è stata adottata in primo grado e confermata in appello senza audizione della minore.

A tal riguardo questa Corte ha avuto modo di precisare che (sez. 1, Sentenza n. 6129 del 26/03/2015) “L’audizione dei minori, già prevista nell’art. 12 Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, è divenuta un adempimento necessario nelle procedure giudiziarie che li riguardino e in particolare in quelle relative al loro affidamento ai genitori, ai sensi dell’art. 6 Convenzione di Strasburgo 25 gennaio 1996, ratificata con la L. n. 77 del 2003, nonché dell’art. 315-bis c.c.(introdotto dalla L. n. 219 del 2012) e degli artt. 336-bis e 337-octies c. c. (inseriti dal D. Lgs. n. 154 del 2013, che ha altresì abrogato l’art. 155-sexies c.c.). Ne consegue che l’ascolto del minore di almeno dodici anni e anche di età minore ove capace di discernimento, costituisce una modalità, tra le più rilevanti, di riconoscimento del suo diritto fondamentale ad essere informato e ad esprimere le proprie opinioni nei procedimenti che lo riguardano, nonché elemento di primaria importanza nella valutazione del suo interesse”.

Nella fattispecie tuttavia trattandosi di un minore di età inferiore a sei anni appare motivata e ragionevole la decisione del giudice di merito di ometterne l’ascolto come correttamente motivato nella sentenza che ha ritenuto, in cagione dell’età, che la minore non potesse discernere in ordine alla materia trattata quale fosse il proprio intendimento.

Deve infine essere rigettato il sesto motivo di ricorso in quanto correttamente sono state liquidate le spese di giudizio anche nei confronti della parte vittoriosa B.L. madre della minore presente in giudizio. Infatti la condanna alle spese in favore di quest’ultima è legittima in quanto il procedimento in esame è sostanzialmente contenzioso e la madre della minore B.M.V. agisce come genitore nell’esercizio della potestà genitoriale a differenza del curatore che rappresenta la minore in giudizio ed agisce in sua rappresentanza a presidio del conflitto di interessi.

Il ricorso è pertanto infondato e deve essere respinto in ordine a tutti i motivi con condanna alle spese del giudizio di legittimità.

Non ricorrono i presupposti per l’applicazione del doppio contributo di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art.13, comma 1quater, perché il processo risulta esente.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso, condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità nei confronti del controricorrente che si liquidano in Euro 5.200 complessivamente di cui Euro 200,00 per spese oltre iva e cap come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della prima sezione della Corte di Cassazione, il 3 dicembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 13 febbraio 2019


[1]             Gullotta, Il  minore e la sua capacità di discernimento, in Contri (a cura di), Minori in giudizio. La convenzione di Strasburgo, Milano, 2012, 111 e seg.

[2]             Si pensi al caso in cui siano discussi solo motivi patrimoniali relativi ai coniugi; cfr. Trib. Milano, 20 marzo 2014 (ord.), in www.ilcaso.it.

Permanenza regolare in Italia del genitore e sviluppo psico-fisico del minore Nota a Tribunale per i Minorenni di Firenze, decr. 22 giugno 2018

(di Valeria Cianciolo  – Sez. Ondif di Bologna)

Il decreto del Tribunale per i Minorenni di Firenze ha autorizzato la permanenza in Italia ex art. 31 TUI del genitore ricorrente, il quale in seguito alla morte improvvisa della moglie aveva deciso di venire in Italia, unitamente ai figli minori e nell’interesse degli stessi, per ricongiungersi con i suoi familiari, da anni regolarmente soggiornanti su territorio italiano, in modo da poter contare sul loro appoggio nella crescita dei figli.

Come è noto, ai sensi dell’art. 31 D.Lgs. n. 286/98, il Tribunale può autorizzare l’ingresso e la permanenza di un familiare di un minore straniero per un tempo determinato per gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico e tenuto conto dell’età e delle condizioni di salute del minore che si trova sul territorio italiano, dovendosi revocare l’autorizzazione quando vengano a cessare i gravi motivi di cui sopra.

L’art. 31 citato delinea, pertanto, due distinte situazioni giuridiche soggettive[1]: da un lato, il diritto del minore ad avere l’assistenza e la cura del proprio familiare in Italia; dall’altro, il diritto del familiare a dare assistenza al minore stesso, in ragione della tutela di quel particolare bene della vita costituito dall’unità della famiglia e della reciproca assistenza tra i suoi membri.

Si tratta di due posizioni complementari, di cui quella del familiare subordinata a quella del minore, titolare di un interesse che, infatti, costituisce l’oggetto primario della tutela apprestata dalla disposizione in esame, come risulta dalla sua rubrica (“Disposizioni a favore dei minori“) e, ancor più significativamente, dall’essere la valutazione sulla sussistenza dei “gravi motivi” rimessa all’apprezzamento del Tribunale per i minorenni.

Ne deriva che l’interesse del familiare ad ottenere l’autorizzazione all’ingresso o alla permanenza nel territorio nazionale riceve tutela in via riflessa, ovvero nella misura in cui sia funzionale a salvaguardare lo sviluppo-psicofisico del minore, che è il bene giuridico protetto dalla norma nonché la ragione unica del provvedimento autorizzatorio.

La temporaneità dell’autorizzazione non esclude che essa possa essere prorogata e che, al termine del periodo previsto, permanga la sua ragione giustificativa (i “gravi motivi”), né che possa essere revocata prima della scadenza “quando vengano a cessare i gravi motivi che ne giustificavano il rilascio”, essendo la condizione psicofisica del minore, invero, una situazione naturalmente suscettibile di mutare ed evolversi nel tempo.

Secondo il recente orientamento della giurisprudenza bisogna intendere i “gravi motivi” quali motivi legati allo sviluppo del minore, da valutare nel caso concreto secondo età e condizioni di salute del minore che non devono essere necessariamente caratterizzati dall’eccezionalità. Quindi, si deve trattare di un grave danno subito dal minore, secondo una valutazione di tipo prognostico sulle conseguenze negative e peggiorative delle sue condizioni di vita a cui verrebbe esposto se il genitore venisse allontanato o se egli dovesse essere sradicato dal proprio ambiente in ipotesi di espulsione del genitore stesso. E’ evidente quindi che tali motivi non possono essere catalogati e standardizzati, bensì valutati necessariamente in relazione al caso concreto, guardando i parametri richiamati riguardanti la vita del minore ed orientando la decisione anche e soprattutto al profilo che riguarda il suo radicamento nel territorio italiano.

Nel 2018[2] il Palazzaccio ha confermato e consolidato il principio secondo cui, la temporanea autorizzazione alla permanenza in Italia del familiare del minore, (prevista dall’art. 31 del D.Lgs. n. 286 del 1998) in presenza di gravi motivi connessi al suo sviluppo psico-fisico, non richiede necessariamente l’esistenza di situazioni di emergenza o di circostanze contingenti ed eccezionali strettamente collegate alla sua salute, ma può comprendere qualsiasi danno effettivo, concreto, percepibile ed obiettivamente grave che, in considerazione dell’età o delle condizioni di salute ricollegabili al complessivo equilibrio psico-fisico, deriva o deriverà certamente al minore dall’allontanamento del familiare o dal suo definitivo sradicamento dall’ambiente in cui è cresciuto.

Deve trattarsi, peraltro, di situazioni di non lunga o indeterminabile durata e non caratterizzate da tendenziale stabilità che, pur non prestandosi ad essere catalogate o standardizzate, si concretino in eventi traumatici e non prevedibili che trascendano il normale disagio dovuto al proprio rimpatrio o a quello di un familiare.

Il succinto provvedimento fiorentino sposa questo orientamento nel pieno rispetto del “best interest child” ed offre una lettura dell’art. 31 del  Testo Unico sull’immigrazione, seguendo la traccia già fornita da alcune recenti pronunce precedenti ed al contempo consolidandone la portata nel rinforzare, ancora una volta, il parametro del superiore interesse del minore, come criterio guida di ogni decisione che lo riguarda.


[1] L’art. 31 D. Lgs. n. 286/98 prevede, altresì, due ulteriori fattispecie di revoca dell’autorizzazione, dovute ad attività del familiare incompatibili “con le esigenze del minore … o con la permanenza in Italia”.

Ne consegue che comportamenti dell’adulto richiedente, incompatibili con le esigenze del minore, condurranno il Tribunale a negare il rilascio dell’autorizzazione (o a revocarla in caso di condotte sopravvenute), essendo una valutazione necessariamente implicita in quella concernente la sussistenza dei “gravi motivi” e non scindibile da essa.

[2] Cassazione civile, sez. I, sentenza 21 febbraio 2018, n. 4197

La Pas nella giurisprudenza della Cassazione

(di Valeria Cianciolo – Ondif Sez. Bologna)

L’espressione alienazione genitoriale compare per la prima volta nelle sentenze della Corte di cassazione civile nel 2012[1].

Nel 2013 il Palazzaccio con una sentenza che ha fatto grande clamore[2] affermava il principio utopistico: spetta al giudice, ricorrendo alle proprie cognizioni, ovvero avvalendosi di idonei esperti, verificare il fondamento, sul piano scientifico, di una consulenza che presenti aspetti difformi dagli orientamenti tradizionali, talvolta criticati e comunque non da tutti condivisi, come nel caso della sindrome di alienazione genitoriale.

Dal 2016 gli Ermellini hanno sposato una tesi che si può definire “realistica”.

La decisione che ha impresso questa svolta realistica, è la Cass. civ. Sez. I, 8 aprile 2016, n. 6919 nella quale si chiarisce che “non compete a questa Corte dare giudizi sulla validità o invalidità delle teorie scientifiche e, nella specie, della controversa PAS”. Compete invece, al giudice provare la eventuale alienazione genitoriale, prescindendo dalla verifica della validità scientifica o meno della sindrome, affermando che qualora il genitore non affidatario o collocatario, per conseguire la modifica delle modalità di affidamento del figlio minore, denunci l’allontanamento morale e materiale di quest’ultimo, attribuendolo a condotte dell’altro genitore, a suo dire espressive di una Pas (sindrome di alienazione parentale), il giudice di merito (prescindendo dalla validità o invalidità teorica di detta patologia) è tenuto ad accertare, in concreto, la sussistenza di tali condotte, alla stregua dei mezzi di prova propri della materia, quali l’ascolto del minore, nonché le presunzioni, ad esempio desumendo elementi anche dalla eventuale presenza di un legame simbiotico e patologico tra il figlio ed il genitore collocatario, motivando quindi adeguatamente sulla richiesta di modifica, tenendo conto che, a tale fine, e a tutela del diritto del minore alla bigenitorialità ed alla crescita equilibrata e serena, tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali del figlio con l’altro genitore, al di là di egoistiche considerazioni di rivalsa su quest’ultimo 

Con questa sentenza del 2016 alla quale sembra ispirarsi il decreto del TM di Brescia in epigrafe, la Cassazione ha enunciato il seguente principio: “In tema di affidamento di figli minori, qualora un genitore denunci comportamenti dell’altro genitore, affidatario o collocatario, di allontanamento morale e materiale del figlio da sé, indicati come significativi di una PAS (sindrome di alienazione parentale), ai fini della modifica delle modalità di affidamento, il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità in fatto dei suddetti comportamenti, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia, incluse le presunzioni, ed a motivare adeguatamente, a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia, tenuto conto che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l’altro genitore, a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità e alla crescita equilibrata e serena.”


[1] Cass. civ. Sez. I, 14 maggio 2012, n. 7452. In questa sentenza la madre della minore ricorreva per cassazione lamentando che la diagnosi di alienazione genitoriale non solo era stata recepita acriticamente dal giudice, ma era stata effettuata da una psicologa (e non da uno psichiatra) la quale non aveva tenuto in considerazione i rilievi critici del suo consulente di parte. La madre della minore lamentava anche che la sindrome da alienazione parentale, allorché sussiste, deriva da una situazione di grave conflittualità fra i genitori, onde le relative responsabilità vanno ascritte a entrambi e non a uno solo di essi. La Corte di cassazione rigettava il ricorso affermando che nessuna norma impone di affidare a medici piuttosto che a psicologi le consulenze tecniche riguardanti disturbi psicologici essendo la verifica della concreta qualificazione dell’esperto chiamato a rendere la consulenza compito esclusivo del giudice di merito il quale peraltro, nella sua decisione, ben può motivare per relationem richiamando il contenuto della consulenza tecnica di ufficio. (cfr. G. Dosi, Lessico di diritto di Famiglia, voce Alienazione Parentale).

[2] Cass. civ. Sez. I, 20 marzo 2013, n. 7041

La PAS (Parental Alienation Syndrome).

(di Valeria Cianciolo – Ondif Sez. Bologna)

 Tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l’altro genitore, a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità ed alla crescita equilibrata e serena.

La teoria della PAS (Parental Alienation Syndrome) è stata introdotta in Italia nel 1997 con la traduzione dell’articolo di un medico americano, il dott. Richard Alan Gardner, pubblicato nel 1985 sulla rivista Academy Forum.

La sindrome è a tutt’oggi una ipotetica e controversa dinamica psicologica disfunzionale che, secondo le teorie dello statunitense Richard Gardner, si attiverebbe sui figli minori coinvolti in contesti di separazione o divorzio conflittuale dei genitori, non adeguatamente mediati. Gardner definisce la PAS come un disturbo, effetto di una supposta programmazione, quando non vera e propria manipolazione, del bambino da parte di un genitore cosiddetto “alienante”.

Secondo Gardner, la PAS è riconoscibile da otto sintomi:

1. campagna di denigrazione verso il genitore rifiutato, e che comprende false accuse di violenza intrafamiliare o di abusi sessuali e incestuosi;
2. motivazioni futili per giustificare il rifiuto: il bambino motiva il suo disagio verso il genitore che rifiuta adducendo motivazioni insensate o prive di logica o meramente superficiali;
3. mancanza di ambivalenza: il genitore rifiutato è visto dal bambino come “completamente negativo”, l’altro come “completamente positivo”;
4. fenomeno del pensatore indipendente: la determinazione del bambino ad affermare di saper ragionare senza influenze esterne;
5. sostegno al genitore alienante: il bambino prende posizione sempre e soltanto a favore del genitore “alienante”;
6. assenza di senso di colpa verso il genitore alienato: tutte le espressioni di rifiuto, di disprezzo, di accusa verso il genitore rifiutato o “alienato” sono secondo il bambino una sorta di “giusta punizione” e sono meritate;
7. presenza di sceneggiature prese a prestito: ciò che il bambino riferisce su quello che gli ha fatto il genitore rifiutato;
8. animosità verso la famiglia e gli amici del genitore alienato.

Il rimedio a tale “sindrome” consisterebbe nel “resettare” il bambino dalla manipolazione subita con l’allontanamento dal genitore alienante; ciò significa che, in caso di perdurante rifiuto nei confronti dell’altro genitore, il bambino dev’essere collocato provvisoriamente in una comunità etero-familiare. Tale rimedio è stato definito da più parti “terapia della minaccia“.

La Corte EDU ha più volte affermato che godere della reciproca presenza, di quotidianità o, comunque, di continuità ed assiduità di relazione, costituisce per figli e genitori un aspetto importante del diritto alla vita familiare alla luce dell’art. 8 della Convenzione.

l’allontanamento di un minore dalla sua famiglia, la sua istituzionalizzazione e ogni misura limitativa, sospensiva o ablativa della potestà genitoriale che gravino in modo decisivo su tale aspetto fondamentale, debbano essere assunti con estrema prudenza ed esatta ponderazione degli interessi pubblici e privati in gioco.

In caso contrario, si attuerebbe, infatti, un’indebita ingerenza della pubblica autorità nella vita privata e familiare che è obiettivo primario dell’art. 8 della Convenzione evitare.

Lo Stato non ha però solo l’obbligo di astensione da tali indebite ingerenze: sussistono per le pubbliche autorità anche obblighi positivi, tra i quali certamente quello di implementare e di proteggere i rapporti e le relazioni tra i componenti della famiglia e di renderli effettivi.

 Anche l’affidamento del minore alla pubblica autorità deve avere come obiettivo finale la ricostituzione dell’unione familiare e questo obiettivo deve effettuarsi attraverso un equo bilanciamento tra l’interesse del minore a rimanere lontano dai genitori e quello dei genitori a vedersi riuniti ai propri figli, posto che l’interesse del minore deve sempre prevalere su quello dei genitori. Poiché criterio determinante è l’interesse del minore, la decisione di prolungare l’affidamento al servizio sociale può non essere in contrasto con lo stesso e, quindi, non violare l’articolo 8 della Convenzione. Perché ciò si verifichi, debbono però sussistere circostanze eccezionali o esigenze di particolare importanza[1].


[1] CEDU, sent. 8 giugno 2010 def. 8 settembre 2010, ric. n. 67/04 Dolhamre c. Svezia, la Corte EDU ha considerato come i genitori non avessero anteposto l’interesse dei figli minori al loro, dal momento che avevano rifiutato i programmi del Servizio Sociale volti alla ricostituzione dell’unione familiare, attraverso incontri in modalità protetta e, nel corso dei contatti anche telefonici coi due figli più piccoli, avevano provocato in loro gravi traumi. Pertanto, la Corte EDU ha ritenuto che prolungare l’affidamento alla pubblica autorità e limitare visite e contatti fossero misure giustificate e aderenti all’interesse del minore e non sussistesse violazione dell’art. 8.

PAS (Parental Alienation Syndrome). Il caso di un padre fortemente ostacolante agli incontri fra la figlia adolescente e la madre Nota a Tribunale per i Minori di Brescia, decreto 26 luglio 2018

(di Valeria Cianciolo – Ondif Sez. Bologna)

Ben articolato il decreto del Tribunale per i Minorenni di Brescia

Il Tribunale per i Minorenni di Brescia riscontrato il progressivo deterioramento del rapporto genitoriale materno con la figlia adolescente, ha attribuito ogni responsabilità al padre mettendo in rilievo la criticità dell’idoneità genitoriale di quest’ultimo, e decidendo per l’affido a terzi della minore.

Il caso.

La figlia di una coppia divorziata era stata affidata ad entrambi genitori con collocamento prevalente presso la madre. La stessa si era recata presso l’abitazione paterna per trascorrere il fine settimana, ma il padre non l’aveva più riaccompagnata dalla madre e da quel momento, aveva ostacolato qualsiasi rapporto tra la figlia e l’ex moglie, negando qualsiasi tipo di contatto.

Il padre aveva allontanato la ragazzina non soltanto dalla dimora materna, ma gli aveva impedito di andare a scuola e di continuare le sue attività sportive e musicali. La madre faceva ricorso al giudice tutelare che sentiva oltre che i genitori anche la minore, la quale in quella sede dichiarava che la madre, quando aveva saputo che non aveva fatto i compiti, le aveva dato un ceffone e le aveva rotto il telefono cellulare.

Il tribunale disponeva che la minore venisse collocata presso il padre e che tornasse a frequentare la scuola nel luogo in cui viveva con il padre, anche con il dissenso della madre.

La madre chiedeva che venisse disposta C.T.U. Il tribunale disponeva che i servizi sociali organizzassero con urgenza incontri settimanali madre /figlia, inizialmente in forma vigilata.

Dalla relazione dei servizi sociali emergeva che la ragazzina si rifiutava di vedere la madre.

Il tribunale autorizzava il C.T.U. ad avvalersi di uno psichiatra per sottoporre i genitori della minore a una valutazione psicodiagnostica. Dall’elaborato peritale depositato, si segnalava la necessità del collocamento urgente della bambina in un contesto diverso da quello paterno, ravvisando nell’adolescente una forte dipendenza dalla figura paterna che non faceva nulla per favorire il riavvicinamento alla madre.

Venivano svolti con esito fallimentare, diversi colloqui di sostegno alla genitorialità.

Durante questo lungo e faticoso percorso, se da un lato continuava l’atteggiamento fortemente ostativo del padre, dall’altro la madre faceva di tutto per riconquistare l’amore della figlia. Durante uno degli incontri della madre con la figlia, la prima aveva risposto che aveva capito che lei voleva vivere con il padre, ma che al tempo stesso non voleva perderla desiderando di avere un rapporto con lei e passare del tempo durante fine settimana. La ragazza aveva risposto alla madre che non credeva nelle sue parole ed aveva comunicato agli operatori sociali una crescente fatica nel continuare ad incontrare la madre.

Alla luce di queste considerazioni, il tribunale arriva all’amara considerazione che il caso presenti una situazione di sindrome da alienazione parentale. D’altro canto, lo stesso C.T.U. aveva affermato che il padre esercitava un forte carisma sulla minore la quale sentiva di non poterlo deludere tanto da arrivare ad inibire emozioni e stati d’animo per evitare eventuale disapprovazione paterna.

Per quanto riguarda la figura paterna, la C.T.U. aveva rilevato che l’uomo presentava importanti tratti narcisistici che tu non connotando si in senso psicopatologico rappresentavano un aspetto per pervasivo della sua personalità che tale funzionamento ostacolava la sua capacità di sintonizzarsi con i bisogni più autentici della figlia. Il C.T.U. avere evidenziato che il padre della ragazza non era in grado di ottemperare neppure minima parte il criterio dell’accesso nella figlia verso l’altro genitore. La relazione peritale concludeva nel senso che la collocazione della ragazzina presso il padre rappresentava un fattore di rischio significativo per il suo benessere psicologico e aveva suggerito che la stessa fosse temporaneamente affidato ai servizi sociali è collocata provvisoriamente preso la zia materna con la quale aveva sempre avuto un buon legame al fine di riavvicinarla alla madre evitando così che venisse inserita in comunità.

Anche questo tentativo fallisce.

Il tribunale per i minorenni di Brescia, dopo svariati tentativi di conciliazione durati circa tre anno,  ha disposto che la minore venisse affidata ai servizi sociali che l’avrebbero collocata in un idoneo contesto etero familiare e che la stessa frequentasse la scuola in località prossima a quella a dove sarebbe stata collocata attivando al contempo, un percorso psicoterapico ed incontri vigilati con ciascuno dei genitori.

Risponde di violenza sessuale a titolo di causalità omissiva di cui all’art. 40 cpv. cod. pen., il genitore che non impedisce la violenza sulla figlia minore

di Valeria Cianciolo

Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 28-09-2018) 15-01-2019, n. 1650

Per giurisprudenza consolidata, la moglie ha l’obbligo di impedire al marito di abusare sessualmente della prole. La norma di riferimento è costituita dall’art. 40, co. 2° c.p., in forza del quale, “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. E tale obbligo viene fatto discendere dall’art. 30 della Costituzione secondo il quale “è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio”, e dall’art. 147 c.c.  in forza del quale “il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli”.

Il genitore esercente la responsabilità genitoriale sui figli minori, come tale investito, a norma dell’art. 147 cod. civ., di una posizione di garanzia in ordine alla tutela dell’integrità psico – fisica dei medesimi, risponde, a titolo di causalità omissiva di cui all’art. 40 cpv. cod. pen., degli atti di violenza sessuale compiuti dal coniuge sui figli allorquando sussistano le condizioni rappresentate: a) dalla conoscenza o conoscibilità dell’evento; b) dalla conoscenza o riconoscibilità dell’azione doverosa incombente sul “garante”; c) dalla possibilità oggettiva di impedire l’evento.

Pertanto, si è sostenuto che, in applicazione della regola dettata dall’art. 40 c.p. cpv., secondo cui il non impedire un evento che si abbia l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo, deve ritenersi responsabile di concorso nel reato di violenza sessuale continuata commesso da un padre nei confronti della figlia minore la madre di quest’ultima, la quale, benché resa compiutamente edotta dei fatti, abbia sistematicamente omesso di denunciarli e di chiedere l’intervento dell’autorità, limitandosi invece ad esortare la vittima alla sopportazione ed al perdono (Cass. Pen., Sez. III, 2 ottobre 2001, Sabella, in Riv. pen., 2002, 129).

Gli Ermellini ribadiscono sostanzialmente quanto già espresso in altre occasioni, ossia, che in capo al genitore incombe un’indiscussa posizione di garanzia, che lo rende responsabile dell’omesso impedimento degli atti di violenza sessuale ai danni del figlio minore, «purché sia a conoscenza dell’evento o in grado di conoscerlo, ed ancora, sia a conoscenza dell’azione doverosa su di lui incombente ed abbia la possibilità oggettiva di impedire l’evento» (ex multis, Cass. Pen., Sez. III, 11 ottobre 2011, n. 1369, dep. 17 gennaio 2012).

Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 28-09-2018) 15-01-2019, n. 1650

Svolgimento del processo

1. – Con sentenza del 23 novembre 2017 la Corte d’appello di Milano ha parzialmente riformato la sentenza emessa il 10 marzo 2014 dal Tribunale di Milano, che aveva condannato l’imputata per i reati di cui a) all’art. 81 c.p., art. 40 c.p., comma 2, art. 609 bis c.p., art. 609 ter c.p., n. 5, perché, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, quale genitore della minore C.F.C., aveva omesso di impedire gli atti di violenza sessuale posti in essere a danno della figlia dal padre della stessa, C.R.; b) agli artt. 110 e 572 cod. pen., perché, in concorso con il marito C.R., quale genitore esercente la potestà nei confronti di C.F.C., aveva maltrattato la predetta con condotte reiterate e abituali, cagionandole pessime condizioni di vita.

La Corte d’appello di Milano ha dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione nei confronti dell’imputata per il reato di cui agli artt. 110 e 572 cod. pen. e ha confermato nel resto la sentenza impugnata.

2. – Avverso la sentenza l’imputata ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.

2.1. – Con un primo motivo di doglianza, si censurano il vizio di motivazione e la violazione di legge in ordine alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo del reato. Secondo la difesa, il collegio del gravame sarebbe pervenuto ad una conferma della penale responsabilità, muovendo da una valutazione giudiziale delle risultanze processuali affetta da vizi logico-giuridici, da travisamenti di prova e dal ricorso ad elementi presuntivi, quanto ad alcuni aspetti di rilievo decisivo. In primo luogo, la difesa ritiene che la Corte distrettuale, facendo ampio richiamo alla sentenza di primo grado, non si sia confrontata adeguatamente con le doglianze proposte nell’atto di appello, volte a rilevare il travisamento delle risultanze probatorie, dalle quali sarebbe emerso che la S. non si era rappresentata il fatto di reato e, conseguentemente, non aveva avuto consapevolezza degli abusi perpetrati dal coniuge ai danni della figlia. Più in particolare, sarebbe erroneo ritenere che la persona offesa, dopo aver raccontato alla madre degli abusi subiti da parte del padre, era stata costretta a ritrattare tutto perché la S., dopo essersi confrontata con il marito, le aveva dato della bugiarda e aveva smesso di credere a quanto da lei riferito. Secondo la prospettazione difensiva, i fatti sarebbero andati in modo diverso: la S. – nonostante le peculiari modalità di esordio del racconto, effettuato dopo che la madre aveva accusato la minore di intraprendere una relazione con un uomo molto più grande di lei – avrebbe pacificamente creduto a quanto riferito dalla figlia, soffrendo con lei per l’accaduto e promettendo di proteggerla. La ricorrente avrebbe poi cambiato opinione, non – come erroneamente ritenuto dai giudici del merito – dopo essersi confrontata. con il marito, ma dopo che la stessa figlia, costretta dal padre senza che la madre sapesse nulla, aveva ritrattato la sua versione, affermando di essersi inventata tutto e di aver intrapreso la relazione con un proprio coetaneo. Solo a seguito di questa apparentemente convincente ritrattazione, l’imputata avrebbe smesso di credere alla figlia, dandole della bugiarda, accusandola di voler immotivatamente rovinare la famiglia e schernendola con frasi poco confacenti al suo ruolo di madre. A tale conclusione, secondo la difesa, si sarebbe dovuti pervenire sulla base di plurimi elementi probatori: intanto la genesi del racconto e la reazione positiva della madre sarebbe stata descritta in tal modo dalla vittima sentita in udienza, e la stessa sarebbe stata confermata anche da S.L., sorella dell’imputata. A tale proposito, infatti, i giudici di merito avrebbero errato nel fare riferimento ad una sola telefonata intercorsa tra le sorelle durante la quale l’imputata, a fronte delle preoccupazioni espresse dalla sorella che era venuta a conoscenza da Francesca degli abusi subiti dal padre, l’aveva tranquillizzata riferendole che in realtà la minore aveva intrapreso una relazione con un suo coetaneo e non certo con il padre. Per la difesa, tra le due sorelle sarebbero intercorse due telefonate, e solo nella seconda, avvenuta dopo che la minore aveva ritrattato con convinzione quanto da lei raccontato e dunque la madre aveva smesso di crederle, la S. aveva tranquillizzato la sorella smentendo quanto riferitole dalla stessa minore. I giudici del merito avrebbero, dunque, operato un palese travisamento probatorio, da un lato considerando un’unica telefonata (invece di due) e dall’altro collocando erroneamente tale unica telefonata, in cui la S. smentiva il racconto della persona offesa, prima della ritrattazione della minore e non in un momento successivo ad essa. Sarebbe stata la stessa S.L. a dichiarare in udienza che la seconda conversione era avvenuta dopo la ritrattazione della minore, che aveva addirittura giurato sulla la falsità di quanto da lei affermato. Ancora, secondo la difesa, a provare in modo decisivo il fatto che l’imputata avesse smesso di credere alla figlia solo dopo la sua ritrattazione contribuirebbero le dichiarazioni rese in udienza dalla stessa persona offesa, che aveva confermato di aver addirittura indicato alla madre il coetaneo con cui aveva rapporti sessuali e aveva precisato che il mutamento di atteggiamento da parte della madre, che l’aveva accusata di essere una bugiarda e di avere rovinato una famiglia, era avvenuto solo dopo la sua ritrattazione. In ogni caso, il fatto che l’imputata non volesse credere al marito al mero scopo di non alterare le proprie abitudini familiari, sarebbe anche dimostrato dagli atteggiamenti “di controllo” che la donna aveva iniziato a porre in essere nonostante la ritrattazione. Non si sarebbe considerato, sul punto, che la stessa persona offesa aveva dichiarato che la madre tentava di raccogliere elementi (soprattutto controllava cosa il padre e la minore facessero insieme e comunque soleva non lasciarli più soli) che potessero tranquillizzarla in merito al fatto che il convincimento da lei maturato dopo la ritrattazione della figlia fosse quello corretto. La minore avrebbe, altresì, aggiunto di avere tentato di lasciare in casa delle “prove” (in particolare cassette pornografiche) che potessero far ricredere la madre, la quale, tuttavia, non le aveva mai trovate a causa delle precauzioni adottate dal marito e, per questa ragione, era rimasta ferma nel suo convincimento. Proprio le attenzioni rivolte dalla S. agli incontri tra padre e figlia, se pure finalizzati solamente ad ottenere prove del proprio convincimento negativo avrebbero comunque determinato – secondo la difesa – la riduzione dei fenomeni d’abuso, come dichiarato dalla stessa persona offesa. I giudici del merito avrebbero dunque operato una scorretta e arbitraria ricostruzione dei fatti, disancorata rispetto a qualsivoglia risultanza processuale, giungendo ad affermare, al solo scopo di affermare la penale responsabilità dell’imputata, che il mutamento di convincimento della S. era avvenuto dopo il confronto con il marito, con cui aveva deciso di allearsi al fine di non mutare le proprie abitudini di vita. La difesa sostiene che la convinzione dell’imputata circa l’insussistenza delle violenze acquista centralità rispetto al complessivo impianto argomentativo, con riferimento all’elemento soggettivo. Lamenta, cioè, che i giudici di secondo grado avrebbero attribuito la penale responsabilità all’imputato sulla base della mera conoscibilità dell’evento e non dell’effettiva conoscenza dello stesso, laddove la fattispecie di cui all’art. 40 c.p., comma 1, imporrebbe di modulare il requisito della conoscibilità-conoscenza del presupposto di fatto che fonda l’azione doverosa in funzione della natura rispettivamente colposa o dolosa della contestazione che ne costituisce l’oggetto, sicché, in caso di contestazione di natura dolosa, la mera conoscibilità dell’evento non costituirebbe presupposto dell’obbligo di attivarsi.

2.2. – Con un secondo motivo di ricorso, si censurano il vizio di motivazione e la violazione dell’art. 62 bis cod. pen., con riferimento alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche sulla base della sola gravità del reato posto in essere; elemento che di per sé non sarebbe ostativo. Al contrario, il collegio del gravame avrebbe dovuto considerare gli elementi addotti dalla difesa, quali: il fatto che anche l’imputata come riferito dalla stessa persona offesa e dai testi S., M. e So., era a sua volta vittima delle vessazioni e dei maltrattamenti posti in essere dal marito; il fatto che la stessa era stata ritenuta dalla psicologa incaricata dal Tribunale per i minorenni incapace di revisionare criticamente i fatti di causa, “dissociata e negazionista”, a causa del quadro patologico da attribuire al proprio vissuto traumatico; lo stato di incensuratezza dell’imputata.

2.3. – La difesa ha depositato memoria, con la quale insiste in quanto già dedotto, allegando il verbale dell’audizione della persona offesa.

Motivi della decisione

3. – Il ricorso è inammissibile.

3.1. – il primo motivo – con cui si censura la riconosciuta sussistenza dell’elemento soggettivo del reato contestato – è inammissibile, perché, oltre a riproporre questioni già sollevate e correttamente disattese dai giudici del merito, si basa su una mera ricostruzione alternativa dei fatti, che non trova fondamento concreto in nessuno degli elementi probatori raccolti e, anzi, contrasta con le attendibili dichiarazioni rese dalla persona offesa, così come riscontrate dalle plurime testimonianze acquisite in dibattimento.

In particolare, deve rilevarsi che il principale elemento evidenziato dalla difesa per sostenere la mancata rappresentazione dei fatti da parte dell’imputata risulta frutto di una mera congettura: non è vero, infatti, che dal separato procedimento a carico di Roberto C., padre della minore, era emerso che questa aveva ritrattato la propria confessione perché da lui “minacciata in separata sede”. Al contrario, anche la pronuncia in esame – in perfetta sintonia con le statuizioni di primo e secondo grado a carico dell’odierna ricorrente – ha descritto un clima negativo, nel quale la madre, una volta informata dalla figlia di quanto da essa subito, spinta dalla volontà di non mutare la propria situazione familiare, aveva preferito prendere le parti del marito, insultando e schernendo la minore e, soprattutto, costringendo la stessa a ritrattare – con la complicità del coniuge – quanto da essa raccontato. Dai plurimi elementi raccolti – come correttamente evidenziato da entrambe le pronunce di merito – emerge, dunque, che la persona offesa ha ritrattato la sua tragica confessione non perché segretamente costretta dal padre, ma perché sollecitata e pressata da entrambi i genitori, tra loro saldamente alleati contro la verità emergente dal racconto della minore. Tale approdo è, altresì, confermato dalla stessa persona offesa – ritenuta pienamente attendibile in entrambi i processi – che ha giustificato la propria ritrattazione sulla base della frustrazione provata per il fatto di non essere creduta e per il timore di coinvolgere nella spiacevole vicenda la persona con cui intratteneva una relazione sentimentale. La medesima conclusione non è smentita neppure dalla ricostruzione delle telefonate intercorse tra l’odierna imputata e la sorella S.L.. Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, infatti, la testimone non ha mai saputo spiegare compiutamente da chi avesse appresso degli abusi, né il momento esatto – se prima o dopo la ritrattazione – in cui aveva ricevuto la smentita dei fatti da parte della S.. Lei stessa, inoltre, ha indirettamente dato conto delle pressioni esercitate dalla madre sulla minore per forzarla a ritrattare, riferendo espressamente l’episodio in cui l’imputata l’aveva condotta in chiesa e l’aveva costretta a giurare di essersi completamente inventata quanto raccontato. Approdi non dissimili si raggiungono attraverso l’analisi – correttamente valorizzata dai giudici del gravame – delle ulteriori testimonianze, tutte concordi nel riferire che la minore subiva passivamente le vessazioni dei genitori, ovvero particolare le condotte sessuali del padre abusante e il comportamento negazionista della madre che, sebbene informata dell’accaduto, non la proteggeva in alcun modo.

A ciò, deve in ultimo aggiungersi che, ai fini della formazione del libero convincimento del giudice, sussiste un effettivo contrasto fra le opposte versioni rese dall’imputato e dalla persona offesa, oggetto di valutazione da parte del giudice anche al fine di verificare l’attendibilità di quest’ultima, solo nel caso in cui sia l’imputato personalmente ad aver fornito la contrastante versione dei fatti, non essendo sufficiente invece una mera prospettazione da parte del suo difensore (ex multis Sez. 3, n. 20884 del 22/11/2016). E nel caso di specie l’imputata non ha mai sostenuto in prima persona la propria versione difensiva, non essendosi sottoposta all’esame. Come ben evidenziato dai giudici di merito, il comportamento dell’imputata integra, dunque, i requisiti della conoscenza dell’abuso, della riconoscibilità dell’azione doverosa su di sè incombente, della volontaria omissione del comportamento impeditivo dell’evento, richiesti dalla giurisprudenza per configurare la fattispecie emergente dal combinato disposto di cui all’art. 40 c.p., comma 2 e art. 609 bis cod. pen (ex plurimis Sez. 3, n. 19603 del 28/02/2017; Sez. 3, n. 4730 del 14/12/2007).

3.2. – Parimenti inammissibile è il secondo motivo di ricorso, volto a contestare la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62 bis cod. pen..

A tale proposito, deve ricordarsi che, ai fini del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, può essere valutato il medesimo elemento considerato ai fini della gradazione della pena, ben potendo un dato polivalente essere utilizzato più volte sotto differenti profili senza lesione del principio del ne bis in idem (ex plurimis Sez. 5, n. 24995 del 14/05/2015; Sez. 6, n. 45623 del 23/10/2013). Parimenti, deve rilevarsi che in tema di diniego della concessione delle attenuanti generiche, la ratio della disposizione di cui all’art. 62 bis cod. pen. non impone al giudice di merito di esprimere una valutazione circa ogni singola deduzione difensiva, essendo, invece, sufficiente l’indicazione degli elementi di preponderante rilevanza ritenuti ostativi alla concessione delle predette attenuanti (ex plurimis Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017; Sez. 2, n. 3896 del 20/01/2016). Facendo corretta applicazione di tali principi, la Corte d’appello ha valorizzato in senso negativo la grave condotta dell’imputata, consistita nell’omissione della vigilanza sull’operato del coniuge e nella accettazione delle sue condotte delinquenziali. Per contro, ha evidenziato la completa inconsistenza degli elementi positivi addotti dalla difesa, in quanto contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso – l’imputata non poteva ritenersi essa stessa vittima del coniuge, dal momento che conduceva una vita parallela esterna al nucleo familiare tramite la forzata collaborazione della figli, a la quale – attraverso ricatto e minaccia – era costretta ad inventare menzogne per nascondere al padre le svariate relazioni extraconiugali intrattenute dalla madre, nonché a gestire la casa e il fratellino minore, per il disinteresse di entrambi i genitori.

4. – Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile.

Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 2.000,00.

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003 art. 52 in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 28 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 15 gennaio 2019