Senza convivenza è configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia, purché la relazione abbia ingenerato l’aspettativa di un vincolo di solidarietà

(di Valeria Cianciolo – Sez. Osservatorio nazionale del Diritto di Famiglia di Bologna-)

Cass. pen. Sez. VI, Sent., 11 settembre 2019, n. 37628 – Pres. Tronci, Cons. Rel. Costanzo

Il reato di maltrattamenti in famiglia descritto dall’art. 572 c.p. non è riferito unicamente ai rapporti scaturenti dalla famiglia, ma anche ad altre situazioni non necessariamente familiari.

Nel caso di specie, gli Ermellini hanno affermato che il solo difetto di una  iniziale materiale convivenza, non esclude che la circostanza di condivisa genitorialità derivante dalla filiazione possa ammettere le condizioni per l’applicabilità dell’art. 572 c.p., se la filiazione non è stata il risultato casuale dei rapporti sessuali, qualora si sia instaurata una  relazione di carattere sentimentale, tale da ingenerare l’aspettativa di un vincolo di solidarietà personale autonoma rispetto ai vincoli giuridici derivanti dalla filiazione.

Sulla base di queste considerazioni, la Cassazione ha annullato la sentenza impugnata  con rinvio per un nuovo esame degli eventuali elementi al fine di poter affermare se prima della nascita del figlio si fosse instaurata fra l’imputato e la persona offesa una relazione tale da ingenerare l’aspettativa di un vincolo di solidarietà personale.

Maltrattamenti in famiglia – Rif. Leg. art. 572 c.p.

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRONCI Andrea – Presidente –
Dott. COSTANZO Angelo – rel. Consigliere –
Dott. GIORGI Maria Silvia – Consigliere –
Dott. ROSATI Martino – Consigliere –
Dott. SILVESTRI Pietro – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
C.C., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 19/12/2018 della CORTE APPELLO di MESSINA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. COSTANZO Angelo;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott. DE MASELLIS Mariella, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
L’avvocato B. F., del foro di MESSINA difensore di fiducia di C.C., deposita nomina, si riporta ai motivi di ricorso.

Svolgimento del processo

1. Con sentenza n. 3328/2018 la Corte d’Appello di Messina ha confermato la condanna inflitta dal Tribunale di Messina il 21/06/2017 a C.C., condannato per i reati a lui ascritti ex art. 572 c.p., comma 1, (capo A assorbito nello stesso il capo B), ex art. 61 c.p., n. 2, art. 81 c.p. e art. 614 c.p., comma 4, (capo C,), ex art. 582 c.p. (capo E, fatto del (OMISSIS)), ex art. 582 c.p. (capo F, fatto del (OMISSIS)), ex artt. 81 e 581 c.p. e art. 612 c.p., comma 1 (capo G), tutti in danno di B.O., madre del figlio comune C.A., riuniti ex art. 81 c.p., comma 2.

2. Nel ricorso presentato dal difensore del C. si chiede l’annullamento della sentenza.

2.1. Con il primo motivo si deducono inosservanza e erronea applicazione degli artt. 572 e 612 bis c.p. nel ritenere sussistente un rapporto di tipo familiare (mentre il Giudice per le indagini preliminari aveva qualificato ex art. 612 bis c.p. i fatti contestati nei capi A e B) anche sulla base dell’avvenuto concepimento del figlio, ma trascurando che C. e B. non sono mai stati conviventi e che i fatti sono avvenuti dopo la nascita del loro figlio, quando i due conducevano vite autonome, collegate solo dalla gestione del figlio, e che tutti i dati acquisiti (la dichiarazione della persona offesa, di un altro suo figlio nato da un’altra unione della B.) escludono l’esistenza di una relazione affettiva al momento dei fatti che, pertanto, dovrebbero qualificarsi ex art. 612-bis c.p..

2.2. Con il secondo motivo di ricorso, si deduce inosservanza dell’art. 192 c.p.p., commi 1 e 2, mancando riscontri esterni che confermino e una valutazione circa la sua credibilità soggettiva e l’attendibilità del suo racconto considerata anche la conflittualità dei rapporti con l’imputato. Si evidenzia che la B. non risulta avere mai modificato il proprio sistema di vita, il che esclude che temesse C., né suo figlio ha mai riferito di aggressioni fisiche da parte dell’imputato.

Inoltre, si rileva che il reato di violazione di domicilio (capo C) viene ravvisato sulla base delle sole dichiarazioni della persona offesa e senza risolvere la questione relativa alla compatibilità, fra i reati di maltrattamenti e la violazione di domicilio dovendosi presupporre un domicilio comune.

Con riferimento ai capi E, F e G, si osserva che non è chiaro come la Corte ritenga le dichiarazioni di F.M. idonee a fornire un “pieno riscontro” alle accuse della persona offesa considerato che la teste ha escluso di avere assistito all’aggressione e di avere notato solo un arrossamento (inidoneo a configurare una lesione), mentre, se sussistessero solo percosse, la condotta andrebbe assorbita nel reato di maltrattamenti.

Con riferimento alle percosse e alle minacce (capo G), si deduce mancanza di motivazione circa l’ipotesi aggravata ex art. 612 c.p., comma 2, per cui ricorrerebbe solo una minaccia semplice per la procedibilità del quale manca la querela, mentre, comunque, la condotta descritta nel capo G non costituisce percossa perché inidonea a produrre dolore fisico.

2.3. Con il terzo motivo di ricorso, si deduce violazione degli artt. 88, 99 e 90 c.p. nel rigettare la richiesta di rinnovazione del dibattimento per valutare se lo stato di “psicolabilità strutturato” del ricorrente costituisca vizio totale o parziale di mente.

2.4. Con il quarto motivo di ricorso, si deduce erronea applicazione dell’art. 133 c.p. e art. 62 bis cod. nella determinazione della pena e nel diniego delle circostanze attenuanti generiche, non valorizzando il percorso terapeutico intrapreso e l’incensuratezza dell’imputato, così da ricondurre l’entità della sanzione a misura compatibile con la sospensione condizionale della pena.

Motivi della decisione

1. Conviene trattare, anzitutto, il secondo (composito) motivo di ricorso che risulta parzialmente fondato nei termini che seguono.

1.1. Va ribadito che le dichiarazioni della persona offesa – alle quali non si applicano le regole dettate dall’art. 192 c.p.p., comma 3, – possono essere fondamento dell’affermazione della responsabilità penale, previa verifica, più rigorosa rispetto a quella cui vanno sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto (ex multis: Sez. 2, n. 43278 del 24/09/2015, Rv. 265104; Sez. 5, n. 1666 del 08/07/2014, dep. 2015, Rv. 261730).

Nel caso in esame, la sentenza impugnata ha rilevato che le dichiarazioni della persona offesa, rese sia nelle querele sia in sede di sommarie informazioni, acquisite con il consenso delle parti, e in dibattimento sono “logiche, coerenti, circostanziate e dettagliate”, oltretutto anche confermate dalla dichiarazione di altri testi escussi e dalla documentazione medica in atti.

Invece, il ricorso non si confronta con la parte della sentenza che afferma che, a prescindere dalle dichiarazioni della persona offesa, i fatti “trovano conferma nella documentazione medica in atti” (p. 8). Pertanto, risulta, già sotto questo profilo, aspecifico, mentre, per altro verso, entra inammissibilmente nel merito delle convergenti valutazioni discrezionali del Tribunale e della Corte di appello senza evidenziarne manifeste illogicità.

1.2. Il motivo di ricorso risulta infondato anche nel contestare la sussistenza del reato di cui al capo C. La Corte indica quattro episodi sulla base delle dichiarazioni della persona offesa: tre (del (OMISSIS)) in relazione alle quali il ricorso semplicemente adduce che ” C. era andato dalla B. esclusivamente per vedere il figlio A.” e un quarto (del (OMISSIS)) relativamente al quale il ricorso non si confronta con le argomentazioni svolte dalla Corte di appello che ha considerato come sia stato lo stesso C. a preannunciare la sua condotta, chiamando la B. e minacciandola che, se non fosse tornata, avrebbe fatto a pezzi la casa. Né, per altro verso, la Corte aveva motivo di rispondere alle deduzioni circa la incompatibilità fra la convivenza e la violazione di domicilio perché la sentenza non afferma che vi fosse convivenza fra l’imputato e la persona offesa.

1.3. Invece, il motivo di ricorso risulta fondato nella parte in cui deduce che la condotta (una spinta) descritta nel capo G non costituisce percossa perché inidonea a produrre dolore fisico, infatti la spinta costituisce percossa solo se provoca al soggetto passivo una sensazione fisica di dolore che, dalla ricostruzione del fatto offerta dalla sentenza (p. 9) non risulta esservi stata (Sez. 5, n. 33361 del 2506/2008, non mass.), come pure non emerge quella violenta manomissione dell’altrui persona fisica che è richiesta affinché una spinta integri il reato ex art. 581 c.p. (Sez. 5, n. 51085 del 13/06/2014, Rv. 261451 Sez. 5, n. 11638, Rv. 252953; Sez. 5, n. 51085 del 13/06/2014, Rv. 261451).

Ne deriva l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente al reato di percosse di cui al capo G perché il fatto non sussiste.

1.4. Il motivo di ricorso risulta fondato con riferimento ai reati di lesioni descritti nei capi E e F. La motivazione della sentenza impugnata risulta ellittica sul punto, genericamente assumendo che le lesioni risultano dalle dichiarazioni della persona offesa e trovano conferma nella documentazione medica in atti (p. 8) e, dopo avere rilevato che trattasi di lesioni lievi, mentre correttamente esclude che queste possano qualificarsi come percosse (condizione che comporterebbe l’assorbimento sotto il reato di maltrattamenti) non motiva circa la presenza dell’intento di ledere l’integrità fisica della persona offesa, come è, invece, necessario per escludere l’assorbimento sotto il reato di maltrattamenti (Sez. 5, n. 42599 del 18/07/2018, Rv. 274010; Sez. 3, n. 50208 del 29/04/2015, Rv. 267283). Pertanto, la sentenza impugnata va annullata relativamente ai reati di lesioni personali sub E) e F), con rinvio per nuovo giudizio che sopperisca alle carenze evidenziate.

Invece, il reato di atti persecutori di cui al capo B, nel rispetto della clausola di sussidiarietà prevista dall’art. 612 bis c.p., comma 1, è assorbito in quello di maltrattamenti di cui al capo A (Sez. 5, n. 41665 del 04/05/2016, Rv. 268464; Sez. 6, n. 7369 del 13/11/2012, dep. 2013, Rv. 254026), non giustificandosi, allo stato, l’autonoma imputazione delineata nel capo B. 2. Il primo motivo di ricorso è fondato nei termini che seguono.

Il reato di maltrattamenti presuppone una relazione (tra agente e vittima) che richiede un rapporto stabile di affidamento e solidarietà, per cui le aggressioni che il soggetto attivo compie – sul fisico e sulla psiche del soggetto passivo – ledono la dignità della persona infrangendo un rapporto che dovrebbe essere ispirato a fiducia e condivisione.

In particolare, l’esistenza di una prole comune produce un sistema di obblighi e doveri che i genitori devono rispettare anche se non conviventi: l’obbligo di mantenimento, di educazione, di istruzione e in generale di assistenza morale e materiale verso i figli, ai quali i genitori sono tenuti a rapportarsi e per l’interesse dei quali devono cooperare nel reciproco rispetto.

La continuità dei contatti necessariamente connessa a questa situazione determina un ambito nel quale condotte lesive della dignità personale possono integrare il reato di maltrattamenti.

Nel confermare la sentenza di primo grado, la Corte di appello ha affermato il principio secondo cui la convivenza non è un presupposto indispensabile per configurare il reato di maltrattamenti, ritenendo sufficiente al riguardo un vincolo di solidarietà atto a generare un rapporto dotato di una certa stabilità con doveri di reciproca assistenza, connesso a una “stabile relazione discendente dal rapporto di filiazione” (p. 7).

La condivisibile giurisprudenza di questa Corte ha riconosciuto il reato di maltrattamenti anche in relazione a situazioni di non convivenza, ma in quanto succedute a precedente convivenza e, quindi, non nel senso di assenza di convivenza ma di cessata convivenza.

Ha affermato che il reato di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche al di fuori della famiglia legittima, in presenza di un rapporto di stabile convivenza, come tale suscettibile di determinare obblighi di solidarietà e di mutua assistenza, senza che sia richiesto che tale convivenza abbia una certa durata, quanto – piuttosto – che sia stata istituita in una prospettiva di stabilità, quale che sia stato poi in concreto l’esito di tale comune decisione (Sez. 6, n. 20647 del 29/01/2008, Rv. 239726; Sez. 3, n. 44262 dell’8/11/2005, Rv. 232904; Sez. 6, n. 21329 del 24/01/2007, Rv. 236757; Sez. 3, n. 44262 del 08/11/2005, Rv. 232904). In particolare, ha ritenuto che pur mancando vincoli nascenti dal coniugio, il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile nei confronti di persona non più convivente more uxorio con l’agente purché questi conservi con la vittima una stabilità di rapporti dipendente dai doveri connessi alla filiazione (Sez. 6, n. 25498 del 20/04/2017, Rv. 270673). Sez. 6, n. 33882 del 08/07/2014, Rv. 262078). Anche in presenza di una relazione sentimentale, che abbia comportato un’assidua frequentazione della abitazione della persona offesa tale da far sorgere sentimenti di solidarietà e doveri di assistenza morale e materiale (Sez. 5, n. 24688 del 17/03/2010, Rv. 248312) o di un rapporto familiare di mero fatto in assenza di una stabile convivenza ma con un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà e assistenza si è riconosciuto il reato di maltrattamenti (Sez. 6, n. 22915 del 07/05/2013, Rv. 25562; Sez. 6, n. 23830 del 07/05/2013, Rv. 256607).

In questa linea, deve ritenersi che, l’assenza di una anche solo iniziale materiale convivenza, non escluda che la situazione di condivisa genitorialità derivante dalla filiazione possa produrre le condizioni per l’applicabilità dell’art. 572 c.p., se la filiazione non è stata un esito occasionale dei rapporti sessuali ma – almeno nella fase iniziale del rapporto – si è instaurata una significativa relazione di carattere sentimentale, tale da ingenerare l’aspettativa di un vincolo di solidarietà personale autonoma rispetto ai vincoli giuridici derivanti dalla filiazione.

Su queste basi, la sentenza impugnata va annullata con rinvio per un nuovo esame degli eventuali elementi che consentano di affermare se prima della nascita del figlio (avvenuta nel 2014, mentre il reato è contestato “dal 2013”)) si era instaurata fra l’imputato e la persona offesa una relazione tale da ingenerare l’aspettativa di un vincolo di solidarietà personale.

3. Il terzo motivo di ricorso è inammissibile perché il ricorrente non si confronta con le argomentazioni a sostegno della sentenza impugnata secondo cui è infondata la richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, in quanto, già il Giudice in primo grado aveva evidenziato che la documentazione medica prodotta dalla difesa attestare solo uno stato ansioso e agitato dell’imputato, che non vale a escludere la punibilità.

4. Sulla base di quanto precede, perde rilevanza attuale il quarto motivo di ricorso concernente il diniego delle circostanze attenuanti generiche.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato di percosse di cui al capo G) perché il fatto non sussiste.

Annulla la sentenza impugnata, relativamente al reato di maltrattamenti, ivi assorbito quello di cui al capo B) della rubrica, ed ai reati di lesioni personali sub E) ed F) e rinvia per nuovo giudizio su tali capi alla Corte di appello di Reggio Calabria.

Così deciso in Roma, il 25 giugno 2019.

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