SEGNALAZIONE ALLA CENTRALE RISCHI E RISARCIMENTO DEL DANNO(Tribunale di Crotone 4 marzo 2020)

ESTRATTO dalla Banca Dati DIRITTO E CONTENZIOSO BANCARIO

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO di CROTONE

PRIMA CIVILE

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Antonio Albenzio, all’esito della camera di consiglio, ha pronunciato ex art. 281 sexies c.p.c. la seguente

SENTENZA

nella causa civile iscritta al n. r.g. 636/2016 promossa da:

IL. (C.F. (oscurato)) rappresentato e difeso dall’avv. L. M. A. elettivamente domiciliato in (oscurato) presso lo studio dell’avv. L. M. A.

ATTORE/I

contro

EU. FA. (C.F. (oscurato)) quale mandataria con rappresentanza di BA. DI NA. (C.F. ) rappresentato e difeso dall’avv. C. G. elettivamente domiciliato in (oscurato) presso lo studio dell’avv. C. G.

CONVENUTO/I

Nonché

OT. LO. (CF. (oscurato)), LU. LO. (C.F.: (oscurato)) e SA. LE. (C.F.: (oscurato)) rappresentato e difeso dall’avv. L. M. A. elettivamente domiciliato in (oscurato) presso lo studio dell’avv. L. M.A.

TERZI CHIAMATI

CONCLUSIONI

Le parti hanno concluso come da verbale d’udienza del 12.02.2020.

Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione
Con atto di citazione ritualmente notificato, IL. ha convenuto in giudizio BA. DI NA. al fine di sentirla condannare alla restituzione di quanto indebitamente percepito.

Ha dedotto, in fatto, di avere concordato con l’istituto di credito convenuto un’apertura di credito regolata su contratto di conto corrente sottoscritto nel 1998.

Ha dedotto che, nel corso del rapporto contrattuale, sarebbero stati applicati tassi in misura superiore al tasso di legge pur in assenza di una pattuizione sufficientemente determinata, interessi anatocistici e commissioni di massimo scoperto in difetto di apposita e determinata pattuizione.

Ha pertanto ritenuto in diritto sussistenti i presupposti legittimanti l’azione di accertamento e di condanna alla ripetizione di quanto indebitamente versato.

Ha altresì dedotto di aver subito, in conseguenza della condotta illecita dell’istituto di credito convenuto, plurimi pregiudizi (sia patrimoniali che non), ivi compreso quello derivante dall’illegittima segnalazione nella Centrale Rischi, con conseguente fondatezza della domanda proposta.

Si è costituito in giudizio l’istituto di credito convenuto contestando quanto ex adverso dedotto.

Ha eccepito, in via preliminare, la prescrizione del credito azionato e, con specifico riferimento alle censure di parte attrice, la legittimità e la correttezza dell’operato della Banca.

Ha altresì formulato, in via riconvenzionale, domando di esatto adempimento alla luce del saldo debitorio esistente sul contratto di conto corrente in atti, con conseguente estensione della sua domanda, previa autorizzazione alla chiamata in causa dei terzi, nei confronti dei garanti.

Si sono costituiti in giudizio LU. LO., OT. LO. e SA. LE., in qualità di fideiussori di parte attrice, reiterando le deduzioni già sollevate da IL. con conseguente inesigibilità, nei suoi confronti, di ulteriori importi.

La causa è stata trattenuta in decisione in data odierna, a seguito di discussione orale ex art. 281 sexies c.p.c.

  1. Oggetto del giudizio è l’accertamento del diritto alla ripetizione delle somme indebitamente corrisposte dalla società attrice sulla base degli affidamenti concessi dall’istituto di credito convenuto, confluiti e unitariamente regolati, per come evidenziato dallo stesso CTU, su contratto di conto corrente n. (oscurato).

In tema di onere della prova nell’azione di restituzione dell’indebito, la giurisprudenza di legittimità ha stabilito che “nella ripetizione di indebito opera il normale principio dell’onere della prova a carico dell’attore il quale, quindi, è tenuto a dimostrare sia l’avvenuto pagamento sia la mancanza di una causa che lo giustifichi” (Cass. n. 30713 del 2018).

  1. Ciò chiarito, può procedersi a vagliare la fondatezza della domanda attorea, muovendo dalle eccezioni preliminari sollevate dalla convenuta.

2.1. Quanto all’eccezione di prescrizione, la decisione circa la fondatezza o meno della stessa non può prescindere dalla valutazione circa la natura “ripristinatoria” ovvero “solutoria” delle rimesse in conto. Sul punto, infatti, la giurisprudenza della Cassazione, a Sezioni Unite, ha ritenuto che “l’azione di ripetizione di indebito, proposta dal cliente di una banca, il quale lamenti la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici maturati con riguardo ad un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, è soggetta all’ordinaria prescrizione decennale, la quale decorre, nell’ipotesi in cui i versamenti abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista, non dalla data di annotazione in conto di ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati, ma dalla data di estinzione del saldo di chiusura del conto, in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati. Infatti, nell’anzidetta ipotesi ciascun versamento non configura un pagamento dal quale far decorrere, ove ritenuto indebito, il termine prescrizionale del diritto alla ripetizione, giacché il pagamento che può dar vita ad una pretesa restitutoria è esclusivamente quello che si sia tradotto nell’esecuzione di una prestazione da parte del “solvens” con conseguente spostamento patrimoniale in favore dell'”accipiens” (Cass. Sez. Un. n. 24418 del 2010).

Ad ulteriore specificazione di tali principi, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che “i versamenti eseguiti su conto corrente in corso di rapporto hanno normalmente funzione ripristinatoria della provvista e non determinano uno spostamento patrimoniale dal solvens all’accipiens. Tale funzione corrisponde allo schema causale tipico del contratto. Una diversa finalizzazione dei singoli versamenti (o di alcuni di essi) deve essere in concreto provata da parte di chi intende far decorrere la prescrizione dalle singole annotazioni delle poste relative agli interessi passivi anatocistici” (Cass. n. 4518 del 2014).

Recentemente la Corte di Cassazione (sent. 27704 del 2018) ha fornito l’esatta interpretazione da attribuire al principio espresso nella pronuncia n. 4518 del 2014, affermando che “grava sull’attore in ripetizione dimostrare la natura indebita dei versamenti e, a fronte dell’eccezione di prescrizione dell’azione proposta dalla banca, dimostrare l’esistenza di un contratto di apertura di credito idoneo a qualificare il pagamento come ripristinatorio ed a spostare l’inizio del decorso della prescrizione al momento della chiusura del conto”. Solamente una volta che si sia data prova del contratto di apertura di credito (ovvero la stipulazione di tale negozio tra le parti non sia in contestazione) opera la presunzione in merito alla natura ripristinatoria delle rimesse (Cass., sent. 20933 del 2017).

Nel caso di specie l’istruttoria ha consentito di apprezzare come il conto corrente oggetto di causa fosse affidato e che, ciò nonostante, la Banca non ha allegato né provato in che termini tale affidamento sia stato superato; ne consegue, pertanto, che l’eccezione di prescrizione va disattesa.

2.2 Meritevole di accoglimento è inoltre la doglianza di parte attrice relativa alla prospettata applicazione di interessi anatocistici sulle somme versate in base ai contratti oggetto del presente giudizio.

Le risultanze peritali in atti, infatti, hanno accertato l’illegittima capitalizzazione degli interessi attivi e passivi applicata dall’istituto di credito convenuto per il periodo antecedente la delibera C.I.C.R. del 2000 e, di contro, l’adeguamento alla stessa per la fase successiva.

Ne consegue che appare condivisibile l’operato dell’ausiliario tecnico laddove, per il periodo che va dalla stipula del contratto di conto corrente ((oscurato)) al 01.07.2000, ha accertato che “è pacifico il divieto delle clausole di capitalizzazione periodica degli interessi e pertanto tutte le competenze relative vanno depurate”; di contro, per il periodo successivo, è stato accertato che “la Banca si è adeguata alla delibera del C.I.C.R. (…) capitalizzando con la medesima periodicità gli interessi debitori e creditori”.

2.3. Risultano altresì illegittimamente addebitate dalla banca somme a titolo di commissione di massimo scoperto, per come evidenziato dallo stesso ausiliario tecnico nominato.

Ora, è noto che la prassi bancaria ha modellato due figure di commissione di massimo scoperto, di cui l’una finalizzata a compensare la banca per l’impegno assunto di porre a disposizione del cliente una determinata somma di danaro e calcolata sulla disponibilità accordatagli e l’altra che si pone quale remunerazione non della predetta disponibilità concessa, bensì della disponibilità effettivamente utilizzata.

Nella specie, viene in rilievo la seconda figura di c.m.s., avendo le parti previsto una remunerazione per la banca in ragione di un mero dato numerico sul picco più alto della somma prelevata, per come emerso dalle risultanze peritali.

La conseguenza è che la clausola in questione risulta, per un verso, priva di causa, atteso che la stessa finisce per attribuire alla banca un ulteriore e non pattuito addebito d’interessi corrispettivi rispetto a quelli già convenuti per l’utilizzazione dell’apertura di credito (cfr. Trib. Bari 24/6/2016) e, per altro verso, indeterminata nell’oggetto, attesa la mancanza di qualsiasi riferimento all’arco temporale minimo del prelevamento del picco più elevato da parte della correntista, ai fini dell’operatività della c.m.s. Ne deriva che, ai fini della rideterminazione del saldo del conto corrente, occorre espungere tutti gli importi addebitati dalla banca a titolo di c.m.c., avendo il consulente d’ufficio riscontrato l’avvenuta applicazione della commissione non sulla somma complessivamente affidata, bensì sul picco dell’utilizzato.

Ne consegue pertanto che, in tali ipotesi di mancata determinatezza, l’addebito della CMS si traduce di fatto in un’imposizione unilaterale della Banca che non trova giuridico fondamento in una valida pattuizione consensuale.

Per tali ragioni la clausola del contratto in questione, con cui è stata prevista l’esistenza della CMS, è nulla per assoluta indeterminatezza e indeterminabilità in combinato disposto con quanto prescritto dagli artt. 1346 e 1418 c.c.

Ne consegue che alcun addebito di CMS può ritenersi legittimo di talché appare corretto l’elaborato peritale del CTU che ha effettuato il ricalcolo delle poste debitorie, ritenendo non dovuta la somma addebitata a tale titolo avuto riguardo al contratto di conto corrente prodotto agli atti.

Con riferimento, di contro, al periodo post 2009, giova sinteticamente rammentare che l’art. 2-bis del D.L. n. 185 del 2008 – introdotto dalla Legge di conversione n. 2/2009 – disciplinando la materia delle commissioni di massimo scoperto, pure omettendo ogni definizione più puntuale delle stesse, ha effettuato una ricognizione dell’esistente con l’effetto sostanziale di sancire definitivamente la legittimità di siffatto onere e, per tale via, di sottrarla alle censure di legittimità sotto il profilo della mancanza di causa (in tal senso si è espressa anche Cass. 22/06/2016 n. 12965).

In questo contesto normativo, deve ritenersi legittima, contrariamente a quanto sostenuto da parte attrice, l’adeguamento alla nuova clausola di commissione massimo scoperto effettuata in forza di una modifica unilaterale del contratto, essendo minoritaria in giurisprudenza, e non condivisibile neanche dallo scrivente giudice, l’orientamento che, ai fini dell’adeguamento suddetto prescriveva la necessità di un accordo scritto ex art. 117 TUB.

Si rammenta, infatti, secondo l’orientamento consolidato in seno alle pronunce dell’ABF, che ” come questo Collegio ha già avuto occasione di affermare (…) deve in linea di massima ritenersi legittimo il ricorso alle modalità previste dall’art. 118 TUB in tema di ius variandi per adattare il contratto in essere tra le parti alla modifica legislativa in questione, posto che ciò è espressamente previsto dal 3° comma della norma sopra illustrata” (edx multis Decisioni ABF, Collegio di Milano, n. 172/10; n. 393/10; 849/10; n. 1016/10).

Ed invero, sempre secondo l’orientamento maggioritario, la modalità di adeguamento tramite modifica unilaterale del contratto “risulta conforme con il disposto del comma 3 dell’art. 2 bis, ove esplicitamente si prevede, al fine dell’adeguamento della nuova normativa, il ricorso all’istituto dello ius variandi di cui all’art. 118 TUB”.

Tanto premesso, nel caso di specie, essendo circostanza incontestata (in quanto pacificamente riconosciuta dalla stessa parte attrice) che l’adeguamento nel caso di specie sia avvenuto in forma di una modifica unilaterale del contratto nel terzo trimestre del 2009, quando ancora il terzo comma dell’art. 2-bis del D.L. n. 185 del 2008 era ancora in vigore, appare condivisibile l’operato del consulente tecnico che ha ritenuto di non epurare gli importi calcolati a titolo di commissioni disponibilità fondi “poiché calcolate in misura fissa sul fido concesso”.

2.4. Con riferimento all’asserita usurarietà degli interessi praticati, non meritevole di accoglimento, per come accertato dal CTU, appare la predetta censura sollevata da parte attrice.

Premesso che, contrariamente a quanto sostenuto da quest’ultima, risulta, per come accertato dall’ausiliario tecnico, la pattuizione dei tassi applicati “dai contratti di apertura di credito e concessione fido succedutisi nel corso del rapporto”, occorre brevemente soffermarsi sulla corretta formula da applicare per la determinazione del tasso soglia.

Si rammenta infatti che, con la L. n. 108 del 1996 si è modificato l’art. 644 c.p. in materia di usura prevedendo che il limite usurario del tasso di interesse si determina raffrontando il tasso fissato dai contraenti al c.d. tasso soglia, la cui rilevazione è rimessa con cadenza trimestrale al Ministro del Tesoro, di concerto con la B.D. e l’Ufficio italiano dei cambi (art. 2, L. n. 108 del 1996).

Ed invero, per come avallato dall’orientamento giurisprudenziale consolidato, “Le Istruzioni della B.D. in materia di rilevazione del Tasso Effettivo Globale, oltre a rispondere alla elementare esigenza logica e metodologica di avere a disposizione dati omogenei al fine di poterli raffrontare, hanno anche natura di norme tecniche autorizzate” (Tribunale di Milano, 03.06.2014 n. 7234).

Anche in sede penale si è affermato che “in tema di reato di usura, il giudice è tenuto ad accertare motivatamente la natura usuraria degli interessi mediante specifico riferimento ai valori determinati dal decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze vigente all’epoca della pattuizione onde raggiungere il tasso soglia, ai sensi dell’art. 2 L. n. 108 del 1996″(Cass. pen. n. 8353/2013).

Ne consegue, pertanto, a supporto di quanto testé dedotto, che “l’individuazione del fatto tipico ricadente nella previsione incriminatrice dell’art. 644 c.p. deve essere operata esclusivamente in base alla determinazione dei tassi trimestralmente pubblicati sulla G.U. con decreto del Ministro del Tesoro. Ogni operazione ermeneutica “additiva” di elementi estranei a quelli presi in considerazione dal c.d. legislatore amministrativo si risolverebbe nella creazione – da parte dell’interprete o del tecnico – di una diversa fattispecie incriminatrice, in aperta violazione del dettato di cui agli artt. 25, co. 2, Cost. e 1″ (T LE., 6.3.2008).

Orbene, tanto premesso, con riferimento ai contratti conclusi prima del 1.1.2010, la CMS non era originariamente calcolata nelle rilevazioni del tasso effettivo globale medio per espressa previsione contenuta nelle Istruzioni impartite dalla B.D. per l’attuazione dell’art. 2 L. n. 108 del 1996.

Ed invero, solo nell’agosto 2009 la B.D., recependo le indicazioni normative provenienti dall’art. 2 bis, co. 2, D.L. 29 novembre 2008, n. 185, conv. nella L. 28 gennaio 2009, n. 2, ha emanato le nuove “Istruzioni per la rilevazione dei tassi effettivi globali medi ai sensi della legge sull’usura”, il cui paragrafo “C4. Trattamento degli oneri e delle spese nel calcolo del TEG” stabilisce ora espressamente che il calcolo del tasso include, fra l’altro, la commissione di massimo scoperto laddove applicabile secondo le disposizioni di legge vigenti.

Dunque, ai fini della determinazione del tasso effettivo globale per l’accertamento del carattere usurario del tasso di interesse applicato, deve tenersi conto della commissione di massimo scoperto ai sensi dell’art. 2 bis, 2 comma, L. 28 gennaio 2009, n. 2 e delle successive Istruzioni della B.D. dell’agosto 2009 soltanto a far data dall’entrata in vigore di quest’ultima normativa (ossia a partire dall’anno 2010), restando viceversa la c.m.s. esclusa dal calcolo nel periodo antecedente e in quello transitorio, come risulta dall’art. 2 bis, co. 2 e 3 L. n. 2 del 2009.

Tale orientamento ha trovato definitiva consacrazione anche in quanto statuito dalla Suprema Corte che, con riferimento alla commissione di massimo scoperto e al rilievo di usura, si è così pronunciata: “ribadito che l’art. 1815, co. 2, cod. civ., come novellato dalla L. n. 108 del 1996, è norma applicabile a tutti i contratti bancari, compresa l’apertura di credito in conto corrente e che è nulla, per contrarietà a norme imperative, la clausola ivi contenuta che preveda l’applicazione di un tasso sugli interessi con fluttuazione tendenzialmente aperta, da correggere con mera automatica riduzione in caso di superamento della soglia usuraria, cioè solo mediante l’astratta affermazione del diritto alla restituzione del supero in capo al correntista, a sua volta la commissione di massimo scoperto, applicata fino all’entrata in vigore dell’art. 2-bis D.L. n. 185 del 2008, deve ritenersi in thesi legittima, almeno fino al termine del periodo transitorio fissato al 31 dicembre 2009, posto che i decreti ministeriali che hanno rilevato il TEGM – dal 1997 al dicembre del 2009 – sulla base delle istruzioni diramate dalla B.D., non ne hanno tenuto conto al fine di determinare il tasso soglia usurario, dato atto che ciò è avvenuto solo dal 1 gennaio 2010, nelle rilevazioni trimestrali del TEGM; ne consegue che l’art. 2-bis del D.L. n. 185 del 2008, introdotto con la legge di conversione n. 2 del 2009, non è norma di interpretazione autentica dell’art. 644, co. 3, cod. pen., bensì disposizione con portata innovativa dell’ordinamento, intervenuta a modificare -per il futuro- la complessa disciplina anche regolamentare (richiamata dall’art. 644, co.4, cod. pen.) tesa a stabilire il limite oltre il quale gli interessi sono presuntivamente sempre usurari, derivandone… che per i rapporti bancari esauritisi prima del 1 gennaio 2010, allo scopo di valutare il superamento del tasso soglia nel periodo rilevante, non debba tenersi conto delle CMS applicate dalla banca ed invece essendo tenuto il giudice a procedere ad un apprezzamento nel medesimo contesto di elementi omogenei della remunerazione bancaria, al fine di pervenire alla ricostruzione del tasso-soglia usurario…” (Cass. 12965/2016).

Ne consegue, pertanto, che non è possibile considerare la c.m.s. nel TEG prima dell’entrata in vigore della L. n. 2 del 2009, non avendone i decreti ministeriali emanati fino al dicembre 2009 tenuto conto nel determinare il tasso-soglia per l’accertamento dell’usura

Dunque, conformemente al quesito formulato dal Giudice, il c.t.u. ha proceduto, con metodologia condivisibile e ragionamento esente da vizi, a ricalcolare il saldo finale del conto, mediante esclusione, per il periodo anteriore alla delibera CICR del 2000, degli importi addebitati a titolo di Commissione di Massimo scoperto, utilizzando altresì, per il ricalcolo in oggetto, i tassi convenzionali vigenti tempo per tempo, “in stretta aderenza alle istruzioni per la rilevazione dei tassi effettivi globali medi ai sensi della legge sull’usura fornite dalla Banca d’Italia”.

2.5. Sotto il profilo del quantum, alla luce di tutto quanto testé dedotto e tenuto conto dell’irrilevanza dell’eccezione di prescrizione, appaiono condivisibili le conclusioni dell’ausiliario tecnico secondo cui “il totale a favore di parte attrice è pari ad euro 74.773,06. Pertanto, essendo il conto corrente in esame, chiuso con un saldo negativo a favore della banca pari ad euro – 81.237,63, si rileva una differenza dovuta da parte attrice a parte convenuta pari ad euro 6.500,57”.

Ne consegue che la domanda riconvenzionale di esatto adempimento, formulata dall’odierno convenuto, è meritevole di accoglimento nei limiti testé indicati.

  1. Le considerazioni sopra riportate, in punto di accertata esistenza di un saldo debitorio comunque esistente a carico della società attrice, non consentono di ritenere fondate le domande risarcitorie formulate.

Ad abundantiam, in ogni caso, si rileva come, nel caso di specie, quanto preteso sia a titolo di danno patrimoniale che a titolo di danno non patrimoniale (per asserita illegittima segnalazione alla Centrale Rischi) sia destituito del benché minimo fondamento giuridico.

Ai fini della risarcibilità del danno ex art. 1223 c.c., in relazione all’art. 1218 c.c. o agli artt. 2043 e 2056 c.c., il creditore o il preteso danneggiato deve infatti allegare, in relazione a specifici fatti concreti di cui deve essere fornita la prova, non solo l’altrui inadempimento ovvero allegare e provare l’altrui fatto illecito, ma in entrambi i casi deve pur sempre allegare e provare l’esistenza di una lesione, cioè della riduzione del bene della vita (patrimonio, salute, immagine, ecc.) di cui chiede il ristoro, e la riconducibilità della lesione al fatto del debitore o del danneggiante: in ciò appunto consiste il danno risarcibile, che è un quid pluris rispetto alla condotta asseritamente inadempiente o illecita; in difetto di tale allegazione e prova la domanda risarcitoria mancherebbe di oggetto (cfr. Cass. 5960/2005).

In adesione al principio ermeneutico basato sul concetto di danno-conseguenza in contrapposizione a quello di danno-evento ed escludendo l’ipotizzabilità di un risarcimento automatico e di un danno in re ipsa, così da coincidere con l’evento, appare quindi evidente che la domanda risarcitoria deve essere provata, sia pure ricorrendo a presunzioni, sulla base di conferente allegazione: non si può invero provare ciò che non è stato oggetto di rituale ed adeguata allegazione (cfr. Cass. SU 26972/2008).

Nel caso di specie, a prescindere da ogni altra considerazione, manca la prova del danno patrimoniale e non patrimoniale in ipotesi sofferto dalla società attrice, oltre che del nesso causale fra la condotta della banca, altrettanto in ipotesi inadempiente o illecita, ed il danno, altrettanto in ipotesi sofferto dalla società attrice, non essendo infatti sufficienti mere formule di stile.

Le superiori considerazioni valgono appunto tanto nell’ipotesi di pretesi danni di natura patrimoniale, quanto nell’ipotesi di quelli di natura non patrimoniale.

3.1. Con riferimento al danno patrimoniale, nel caso di specie, lo si ripete, non è stato in alcun modo provato il nesso di derivazione causale dell’asserita contrazione dei redditi e del volume di affari dell’odierna attrice con l’asserita illegittima chiusura dei conti non essendo in alcun modo provato che gli asseriti importi illegittimamente sottratti sarebbero stati impiegati nel ciclo produttivo della società e, soprattutto, in che modo sarebbero stati impiegati.

3.2. Parimenti risulta del tutto sfornita di allegazione e prova l’effettiva esistenza e la sua derivazione causale dalla condotta asseritamente illecita della banca, dell’altrettanto generica allegazione dei lamentati danni non patrimoniali, sotto i plurimi (e spesso sovrapponibili) profili indicati da parte attrice.

Si rammenta, infatti, che la lesione di un diritto inviolabile, anche laddove integri gli estremi di un reato, non comporta la sussistenza di un danno non patrimoniale in re ipsa, essendo comunque necessaria l’allegazione e la prova del pregiudizio concretamente ed effettivamente patito e della sua entità materiale; tali elementi, per come sopra detto, risultano del tutto carenti nel caso di specie.

Rispetto a quest’ultima ipotesi, inoltre, deve ritenersi superato, alla luce dei principi sopra esposti, l’orientamento giurisprudenziale invocato da parte attrice anche in punto di danni da asserita illegittima segnalazione alla Centrale Rischi, per come da ultimo ribadito dalla Suprema Corte laddove ha statuito che “in tema di responsabilità civile, il danno all’immagine ed alla reputazione (nella specie, “per illegittima segnalazione alla Centrale Rischi”), in quanto costituente “danno conseguenza”, non può ritenersi sussistente “in re ipsa”, dovendo essere allegato e provato da chi ne domanda il risarcimento” (Cass. 7594/2018)

Ne consegue l’infondatezza della domanda risarcitoria proposta.

  1. La reciproca soccombenza delle parti in giudizio, giustifica la compensazione delle spese di lite.

P.Q.M.
il Tribunale di Crotone, sezione civile, definitivamente pronunciando, così provvede:

  • in parziale accoglimento delle reciproche pretese, condanna IL., in solido con LU. LO., OT. LO. e SA. LE., al pagamento, in favore di BA. DI NA., della somma di euro 6.500,57, oltre interessi al tasso contrattualmente pattuito dal 24.06.2016 fino al soddisfo.
  • rigetta ogni residua domanda o eccezione.
  • spese compensate.
  • pone le spese di CTU definitivamente a carico delle parti, ciascuno nella misura del 50% dell’importo complessivamente liquidato.

Sentenza resa ex articolo 281 sexies c.p.c., pubblicata mediante lettura in udienza ed allegazione al verbale.

Crotone, 4 marzo 2020

Il Giudice

dott. Antonio Albenzio