Mobbing e tutele giudiziarie

Carlo Cuomo (Avvocato)

1.Definizione

La parola mobbing deriva dal verbo inglese “to mob” che significa aggredire, assalire.

Nell’ordinamento italiano manca una definizione normativa del mobbing, infatti, nonostante siano stati presentati diversi progetti di legge  non è stato emanato alcun provvedimento legislativo ad hoc che definisca e disciplini le molestie sul lavoro. Trattandosi però di un fenomeno che riguarda situazioni giuridiche costituzionalmente garantite, quali il diritto alla salute e all’integrità psicofisica nonché il riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo, i riferimenti normativi per la tutela della persona  e dei comportamenti persecutori sul posto di lavoro sono tanti e numerosi, come possiamo leggere sia nella Costituzione  artt 2,3,4,32,35,36,41,42  –  che nel codice civile  – artt. 2087 c.c, 2103 c.c. 1175 e 1375 cc, 2043  .

Soltanto negli ultimi anni il mobbing è stato oggetto di studi da parte dei giuristi che hanno inteso ricondurre nell’ambito dell’ordinamento giuridico un concetto che, inizialmente, nasce  in ambito pisicologico e sociologico.  

Negli anni 80, infatti, lo psicologo Leyman iniziò a studiare il fenomeno applicando il termine mobbing ad un disturbo che aveva osservato in alcuni operai  e impiegati svedesi, sottoposti ad una serie di intensi traumi psicologici sul luogo di lavoro.

Da allora, per mobbing si intendono tutti quei comportamenti ostili e vessatori posti in essere nell’ambiente di lavoro da colleghi  o dal superiore gerarchico  ( c.d. mobber ) nei confronti di un lavoratore, protratti nel tempo e finalizzati all’estromissione di quest’ultimo mediante la progressiva marginalizzazione  del suo lavoro e la sua emarginazione dalla collettività degli altri dipendenti, per spingerlo alle dimissioni oppure per provocarne il licenziamento.

È una forma di violenza psicologica, sistematica e protratta nel tempo che determina una sofferenza mentale, psicologica e sociale. E’ un fenomeno complesso che ha inizio lentamente ed in modo subdolo, la vittima si accorge  di essere mobbizzata soltanto dopo un certo periodo di tempo, quando, purtroppo, cominciano a manifestarsi i primi sintomi psicosomatici.

Le cause che motivano il c.d mobber alla  condotta vessatoria non sono giuridicamente rilevanti, alla base del comportamento possono esserci  sentimenti di invidia, di gelosia, di competizione, invece,  ciò che rileva è l’intenzionalità della condotta mobbizzante, la frequenza e la ripetitività delle azioni.

La Suprema Corte di Cassazione nella sentenza 10037/2015 individua 7 parametri  per individuare il mobbing; parametri che la vittima, per vedere accolta la propria domanda, deve necessariamente provare e sono : l’ambiente di lavoro in cui avvengono le vessazioni, la durata, la frequenza delle vessazioni, il tipo di azioni ostili che la vittima ha subito, il livello dei protagonisti ovvero se è il superiore gerarchico ad avere comportamenti vessatori o un collega della vittima, andamento per fasi successive ( conflitto mirato, inizio del mobbing, sintomi psicosomatici, abusi, aggravamento della salute, esclusione dal mondo del lavoro), l’intento persecutorio ovvero il disegno premeditato per tormentare il dipendente.

L’elemento qualificante è certamente l’intento persecutorio che  unifica in un unico disegno gli  atti vessatori e che deve essere provato, purtroppo, da chi assume di aver subito la condotta vessatoria (Cass sez. lav 11/12/2019 n. 3881 e Cass. Ssez. Lav 27/11/2018 n. 30673).

Sul punto vi è una recente sentenza della Suprema Corte se. Lav. 25/09/2019 n. 23918 che ha, in qualche modo alleggerito l’onere della prova del mobbizzato, il quale può dare prova dell’elemento intenzionale in base alle caratteristiche oggettive dei comportamenti tenuti dal mobber, e cioè su presunzioni gravi, precise e concordanti, dai quali è possibile risalire da fatti noti ad altri ignorati. Principio che ha trovato conferma anche nel Consiglio di Stato che ha affermato che la prova può essere soddisfatta anche attraverso presunzioni tratte da elementi oggettivamente riscontrabili (Consiglio di Stato Sez. IV sent 4471 1/07/2019).

Tanto detto, non viene riconosciuto il mobbing “mancando il carattere unitariamente persecutorio nella valutazione complessiva dell’insieme delle circostanze” (Tribunale di Roma  31/10/2018 n. 8357).

Oltre l’elemento soggettivo, il mobbing è costituito dalla  molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio e dal nesso eziologico tra la condotta del mobber ed il pregiudizio all’integrità psicofisica del lavoratore ovvero il danno alla salute.

Come si configura il mobbing? ipotesi

Il mobbing non va confuso con lo stress. Entrambi nascono nell’ambiente lavorativo e possono dare luogo ai medesimi  effetti sulla salute del lavoratore ma mentre lo stress può causare malattie psico somatiche, il mobbing può costituire causa di stress e non viceversa. Non esiste un criterio a priori per individuare il mobbing, la sua configurazione deve essere valutata, necessariamente, caso per caso e come detto è necessario valutare la condotta dell’agente nel suo complesso per poter distinguere il mobbing da una mera situazione di conflitto sul posto di lavoro o da una violazione contrattuale; infatti anche un insieme di azioni lecite, considerate singolarmente, possono costituire mobbing nel loro complesso.

La giurisprudenza ha individuato alcuni comportamenti vessatori ed  i più significativi sono:

  • di impedire al lavoratore di comunicare, isolarlo privandolo dei mezzi di comunicazione, estrometterlo dalle decisioni, trasferirlo in luoghi isolati  o lontani dalla sede principale, sottoporlo a controlli ossessivi;
  •  attaccare le relazioni sociali non rivolgendogli più la parola o proibendo ai colleghi di parlare con lui, trasferendolo in un ufficio lontano dagli altri colleghi, comportandosi come se non esistesse, screditare lui ed il suo lavoro con attacchi alla sua reputazione, umiliarlo, ridicolizzarlo, calunniarlo;
  • ridurre l’autostima del lavoratore non attribuendogli incarichi o attribuendogli incarichi superiori alle sue competenze, criticando continuamente il suo operato o le sue capacità professionali, compiendo a suo danno attività di sabotaggio, escluderlo reiteratamente da iniziative formative o di aggiornamento o addirittura  demansionarlo.  Sul punto la Corte di Cassazione, con pronuncia del 2/4/2013 n. 7985 ha affermato che “per la ricorrenza del mobbing non basta ipotizzare un semplice svuotamento di mansioni dovendo il lavoratore dimostrare che il datore di lavoro ha realizzato un insieme di azioni coordinate per emarginarlo”;
  • compromettere il suo stato di salute negandogli periodi di ferie o di congedo, assegnandogli mansioni rischiose o turni particolarmente gravosi.

2.Conseguenza del mobbing

Gli effetti che derivano dalle situazioni mobbizzanti sono osservabili sulla salute del lavoratore. I comportamenti del vessatore, posti in essere in modo sistematico e protratto nel tempo, possono ledere  il diritto alla salute in senso stretto del lavoratore, causando l’insorgenza della malattia o possono arrecare pregiudizio alla  personalità morale ad esempio causando una  alterazione dello stato del benessere o, ancora, arrecare danno alla sua professionalità.

I segnali sulla salute del lavoratore sono psicosomatici come cefalee, tachicardia o emozionali, come stati di ansia, disturbo del sonno o, ancora, comportamentali come anoressia, farmacodipendenza.

Certo è che la condotta del mobber può produrre danni, patrimoniali o  non patrimoniali imputabili al datore di lavoro a titolo di responsabilità contrattuale (art. 2087 c.c) e/o extracontrattuale (art. 2043 c.c) .

Diverse, infatti, sono le fattispecie di danno da considerare. In primis:

il danno patrimoniale ovvero  il pregiudizio che il lavoratore subisce alla sua idoneità a produrre reddito –

tra i danni non patrimoniali  particolare rilevanza rivestono il danno biologico, ovvero, il danno inteso come la menomazione dell’integrità psicofisica della persona in sé e per sé considerata, incidente sul valore di uomo  in tutta la sua dimensione (Cass s13/01/1993 n. 357 e 29/05/1996 n. 4991);

il danno morale ovvero i patimenti e le sofferenze subite dal lavoratore in conseguenza del reato che, a differenza del danno biologico accertabile con diagnosi medico legale in quanto presupponente una patologia psichica, per la sua natura  può essere risarcito in via equitativa o secondo equità;.

il danno esistenziale, fondamentalmente diverso dal danno biologico in quanto non presuppone una lesione fisica o psichica né una compromissione della salute della persona, è ricollegato ad un peggioramento della qualità della vita del danneggiato con mutamento delle sue abitudini, dei suoi rapporti personali e familiari (Cass pen sez. IV 22/01/2004 n. 2050). Per certi versi è il tipico danno da mobbing, ricorrente “ogni qualvolta  il lavoratore viene aggredito nella sfera della dignità sena che tale aggressione offra sbocchi per altra qualificazione risarcitoria” (Trib. Forlì 15/03/2001 riv.it. Dir. Lav II 728);

il danno alla professionalità si realizza per lo più a seguito di demansionamento o dequalificazione. Ai fini della sua risarcibilità, secondo un orientamento non univoco, non è indispensabile per il lavoratore fornire la prova dell’intento persecutorio, in quanto il danno alla professionalità sarebbe in re ipsa alla violazione del divieto di cui all’art. 2103 c.c. , anche in mancanza di qualsiasi prova da parte del danneggiato. Il giudice potrebbe desumere l’esistenza del danno in base agli elementi di fatto e valutare il danno patrimoniale in via equitativa ( Cass ze. Lav. 26/06/2004 n.10157; Cass. Sez. lav 29/04/2004 n.8271).

Secondo altra giurisprudenza, invece, il lavoratore deve fornire la prova dell’esistenza del danno alla professionalità, per poter essere risarcito, anche facendo ricorso a presunzioni.

Le patologie da mobbing non rientrano tra le malattie professionali, ovvero tra quelle tabellate allegate al D.P.R 30/06/1965 n. 1124.

Se, però, il lavoratore riesce a dimostrare l’origine professionale della malattia ovvero se riesce a provare di aver contratto una malattia a seguito di condotte mobbizzanti potrà essere indennizzato se prova che la patologia è stata causata dalle particolari condizioni nelle quali è stata prestata l’attività lavorativa (Il Mobbing. Responsabilità e danni di La  Peccerella e Romeo), non dovendo dimostrare l’intento persecutorio.

Alcuna coincidenza c’è tra la tutela risarcitoria delle conseguenze del mobbing e la tutela sociale riconosciute per le malattie professionali dallo stesso causate, stante la diversità di funzione tra le due tutele, l’una di risarcimento del danno l’altra di indennizzo.

3.Tutele e responsabilità

Il nostro ordinamento riconosce tutele piene ed esaustive dell’integrità psicofisica, della personalità e della dignità del lavoratore contro ogni tipo di pregiudizio.

La tutela minima prevista è certamente quella risarcitoria.

La prima norma da considerare per il risarcimento dei danni causati da mobbing è l’art 2043 c.c che sancisce il principio generale del neminen laedere “qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”. Principio ribadito dalle Sezioni Unite della Cassazione, secondo cui la tutela risarcitoria è assicurata solo in relazione all’ingiustizia del danno, che costituisce fattispecie autonoma “contrassegnata dalla lesione di un diritto giuridicamente rilevate” (Cassa Civ. Sez. Un 22/7/1999 n 500).

La norma che costituisce fondamentale presidio della tutela civilistica contro il mobbing è, però, l’art. 2087 c.c. secondo il cui dettato “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutela l’integrità psicofisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

La predetta norma pone a carico del datore di lavoro non solo l’obbligo di controllo ma anche di prevenzione nell’organizzazione del lavoro, per evitare l’insorgenza di situazioni di pericolo per i lavoratori, come appunto i danni da mobbing. Così, secondo un consolidato orientamento della Suprema Corte, l’art. 2087 c.c. comporta per il datore di lavoro il divieto di porre in essere qualsivoglia comportamento lesivo del diritto all’integrità psico fisica del lavoratore e di vigilare anche sulle condotte degli altri dipendenti (Cass Civ. Sez. Lav. 17/7/1995 n.7768 ).

Dalla lettura dell’art. 2087 c.c. si evince che la responsabilità del datore di lavoro è duplice, ovvero, diretta se è l’autore delle vessazioni, indiretta quando le vessazioni vengono da un preposto o da un collega della vittima. Ed è chiaro che l’art. 2087 c.c., nel disporre che il datore di lavoro deve adottare tutte le misure finalizzate alla tutela dei dipendenti, lo obbliga a prevenire il mobbing nella propria azienda. La violazione della predetta norma è una omissione di comportamenti dovuti e sarà il lavoratore o la vittima mobbizzata a dover provare l’esistenza dell’obbligazione e l’inadempimento del soggetto obbligato, con la conseguenza che il datore di lavoro potrebbe andare esente da responsabilità se riesce a provare che l’inadempimento è dipeso da causa a lui non imputabile.

La giurisprudenza consolidata inquadra il mobbing nell’ambito della responsabilità contrattuale ai sensi dell’art. 2087 c.c. ed extracontrattuale ai sensi dell’art. 2043.

La qualificazione della responsabilità in concreto è, comunque, rimessa al giudice del lavoro che dovrà avere riguardo al petitum sostanziale, ai fatti allegati (cass Sez. Un. 4/05/2004 n. 8438.

Così, se un lavoratore agisce per il risarcimento del danni conseguenti alla lesione dell’immagine professionale e dell’integrità fisica la responsabilità ravvisabile è quella extracontrattuale (Cass Civ Sez. Un. 23/01/2004 1248).

La qualificazione della responsabilità evocata nella propria domanda giurisdizionale ai fini dell’accoglimento della domanda risarcitoria ha notevole rilevanza. Se viene richiesto l’accertamento della responsabilità contrattuale  il diritto al risarcimento del danno ha una prescrizione decennale e la vittima da mobbing è esonerata dalla prova della colpa del danneggiante dovendo allegare e provare i comportamenti del datore di lavoro posti in violazione dell’art. 2087 c.c. – con la conseguenza, come detto che il datore di lavoro potrebbe dimostrare che l’inadempimento non è a lui imputabile andando esente da responsabilità – .

Se, invece, viene evocata la responsabilità extracontrattuale il termine prescrizionale è di 5 anni e la vittima da mobbing deve provare la colpa e o il dolo del vessatore.

Nel caso di mobbing realizzato da colleghi ovvero da persone diverse dal datore di lavoro è configurabile nei confronti del mobber la sola responsabilità extracontrattuale, non essendoci tra vittima e mobber un vincolo contrattuale e non essendo tali soggetti destinatari degli obblighi di cui all’art 2087 c.c.