Termine lungo per impugnare – dissociazione tra la data di deposito e l’inserimento nel registro cronologico della sentenza

Giuseppe Sauchella (Avv., Amministratore unico di Sannio Europa)

La Cassazione Civile, sez. VI, ord. 13/02/2020, n.3536 è una sentenza non identificabile e non può affatto essere considerata come ufficialmente depositata in quanto il provvedimento deve essere conoscibile”.

Qual è il termine lungo per impugnare

Individuare il termine per l’impugnativa è di indubbia rilevanza e la questione è stata più volte oggetto di decisioni giurisprudenziali contrastanti con particolare riferimento al caso in cui la sentenza impugnata rechi in calce due annotazioni, riportanti ciascuna una data, la prima indicata come data di deposito, la seconda come data di pubblicazione.

Il dato normativo:

Art. 133 c.p.c.

La sentenza è resa pubblica mediante deposito nella cancelleria del giudice che l’ha pronunciata.

Il cancelliere dà atto del deposito in calce alla sentenza e vi appone la data e la firma, ed entro cinque giorni, mediante biglietto contenente il testo integrale della sentenza, ne dà notizia alle parti che si sono costituite.

La comunicazione non è idonea a far decorrere i termini per le impugnazioni di cui all’ art. 325.

Art. 327 c.p.c.

Indipendentemente dalla notificazione, l’appello, il ricorso per cassazione e la revocazione per i motivi indicati nei numeri 4 e 5 dell’articolo 395 non possono proporsi dopo decorsi sei mesi dalla pubblicazione della sentenza.

Questa disposizione non si applica quando la parte contumace dimostra di non aver avuto conoscenza del processo per nullità della citazione o della notificazione di essa, e per nullità della notificazione degli atti di cui all’articolo 292.

Ci si è domandato se il termine inziale ai fini della decorrenza del termine semestrale per l’impugnativa (cd. termine lungo di impugnazione ex art. 327 c.p.c.) vada individuato nella prima o nella seconda data.

Il contrasto, oggetto di numerose decisioni non univoche giurisprudenziali, è stato “risolto” (?)dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 18569 del 22 settembre 2016.

In precedenza le stesse Sezioni Unite (sentenza n. 3501 del 1979) avevano affermato che il termine per l’impugnazione di cui all’articolo 327 c.p.c. decorresse dalla pubblicazione della sentenza, dovendosi intendere come tale il momento del suo deposito in cancelleria, a nulla rilevando il momento della comunicazione dell’avvenuto deposito della sentenza alla parte costituita.

Ancora le SS.UU. con sentenza n. 13794 del 2012 intervenivano nuovamente sul tema ribadendo che la pubblicazione della sentenza coincide con il momento in cui il cancelliere ne certifica il deposito, apponendo la data di quest’ultimo in calce alla medesima.

In sostanza veniva escluso che il cancelliere potesse attestare che una sentenza, già debitamente munita del deposito, potesse considerarsi pubblicata in una data successiva. La Suprema Corte sanciva, quindi, che, nell’ipotesi in cui fossero state apposte in calce alla sentenza due date, la prima delle quali indicata come data di deposito, solo a quest’ultima poteva farsi riferimento ai fini della decorrenza degli effetti giuridici derivanti dalla pubblicazione della sentenza, tra i quali la decorrenza del termine di impugnazione.

L’indirizzo espresso dalle Sezioni Unite non veniva, tuttavia, condiviso dalla seconda sezione civile dellaCorte di Cassazione che con ordinanza n. 26251 del 2013, rimetteva alla Corte Costituzionale il compito di verificare la compatibilità del sopra esposto approccio ermeneutico con i principi costituzionali di cui agli artt. 3 e 24 Cost..

Dichiarata l’infondatezza della questione sottopostale, con sentenza n. 3 del 2015, la Corte costituzionale dettava alcuni principi di rilievo sull’argomento.

La Corte Costituzionale in primis statuiva che il concetto di “pubblicazione della sentenza”, cui si riferisce il codice di procedura per far decorrere i termini per appellare, si riferisce alla conoscibilità che, evidentemente si realizza in corrispondenza alla data di pubblicazione (che può essere anche successiva a quella di deposito). Così facendo, secondo la Corte, la rimessione in termini diventa un ordinario strumento cui ricorrere tutte le volte in cui la data di pubblicazione sia successiva a quella di deposito.

Si legge nella citata sentenza:<<…La Corte di cassazione, seconda sezione civile, con ordinanza del 22 novembre 2013, dubita della legittimità costituzionale degli artt. 133, primo e secondo comma, e 327, primo comma, del codice di procedura civile, nel testo anteriore alla modifica introdotta dall’art. 46, comma 17, della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), come interpretati dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, con la sentenza n. 13794 del 1° agosto 2012, in riferimento agli artt. 3, secondo comma, e 24, primo e secondo comma, della Costituzione. 2.− La questione di costituzionalità sottoposta all’esame della Corte attiene alle ricadute sulla decorrenza del termine per l’impugnazione, cosiddetto lungo, nel caso in cui le attività di deposito della sentenza e di effettiva pubblicazione della stessa abbiano luogo in due momenti diversi. 3.− La Corte di cassazione a sezioni unite civili ha statuito che «la sentenza del giudice esiste giuridicamente e tutti ne hanno “scienza legale” con la pubblicazione, a cura del cancelliere», e che «la pubblicazione è effetto legale della certificazione da parte del cancelliere della consegna ufficiale della sentenza, ed in tal modo egli completa il procedimento di pubblicazione che la norma prevede senza soluzione di continuità tra la consegna ed il deposito». 5 È dunque una irregolarità, secondo la Corte di cassazione, l’“inconveniente di fatto” «che il cancelliere dapprima attesta, ai fini e per gli effetti di cui agli artt. 2699 cod. civ. e 57 cod. proc. civ., la data di deposito della sentenza, originale, completa, non necessitante di integrazione alcuna e successiva collazione; successivamente dichiara, in altra data da egli autonomamente determinata, che la sentenza “è pubblicata”». Da qui, per la Corte di cassazione a sezioni unite, l’esigenza di ricondurre ad unità il sistema: «se sulla sentenza sono state apposte due date, una di deposito, senza espressa specificazione che il documento depositato contiene la minuta della sentenza, e l’altra di pubblicazione, tutti gli effetti giuridici derivanti dalla pubblicazione della sentenza decorrono dalla data del suo deposito». Tale opzione ermeneutica, che ad avviso del rimettente deve considerarsi diritto vivente, darebbe luogo a disparità di trattamento e risulterebbe, in modo irragionevole, lesiva della pienezza e della certezza del diritto di difesa delle parti costituite in giudizio. 4.− È noto che per costante giurisprudenza di questa Corte nessuna norma di legge può essere dichiarata costituzionalmente illegittima solo perché è suscettibile di essere interpretata in senso contrastante con i precetti costituzionali, ma deve esserlo soltanto quando non sia possibile attribuirle un significato che la renda conforme a Costituzione (ex multis, sentenza n. 17 del 2010). Nella specie, la considerazione di un più articolato quadro normativo di riferimento, anche in ragione dei principi già enunciati dalla giurisprudenza costituzionale, offre la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata. 5.− La sentenza delle sezioni unite civili n. 13794 del 1° agosto 2012 è espressione di apprezzabile rigore, anche esegetico, e dello sforzo di ricondurre a legalità l’azione e insieme l’organizzazione degli uffici competenti. Come le sezioni unite pongono in rilievo, nella procedura di pubblicazione disciplinata dall’art. 133 cod. proc. civ., che si articola nel deposito della sentenza da parte del giudice (primo comma) e nella presa d’atto del cancelliere (secondo comma), l’atto fondamentale è il primo; e ciò appare corretto alla stregua, oltre che del dato letterale (“la sentenza è resa pubblica mediante deposito”), di quello sostanziale, essendo tale soluzione interpretativa l’unica coerente con il diverso ruolo del cancelliere e del giudice: come a quest’ultimo compete la chiusura del rapporto processuale con il deposito della sentenza, rendendola con ciò immodificabile, così non può non competergli un ruolo determinante nella fase di pubblicazione, ai fini dei possibili sviluppi impugnatori. La separazione temporale dei due passaggi procedimentali che viene a crearsi con l’apposizione di due date, comporta al contrario il trasferimento dell’effetto “pubblicazione” dal primo al secondo, trasferimento che giustamente le sezioni unite stigmatizzano. 6.− Peraltro non si è in presenza di una mera “irregolarità” ma di una patologia procedimentale grave per la sua rilevante incidenza sulle situazioni giuridiche degli interessati. Essa infatti è il riflesso del tardivo adempimento delle operazioni previste dall’art. 133 cod. proc. civ., nonché, in particolare, dell’inserimento nell’“elenco cronologico delle sentenze”, con l’attribuzione del relativo numero identificativo (art. 13 del d.m. 27 marzo 2000, n. 264 [Regolamento recante norme per la tenuta dei registri presso gli uffici giudiziari]; lettera A, n. 16, delle “Istruzioni per la tenuta dei registri in forma cartacea”, contenute nel d.m. 1° dicembre 2001 [Registri che devono essere tenuti presso gli uffici giudiziari]; legge 2 dicembre 1991, n. 399 [Delegificazione delle norme concernenti i registri che devono essere tenuti presso gli uffici giudiziari e l’amministrazione penitenziaria]). Né, ai fini della conoscibilità, va dimenticato il complesso di disposizioni in via di attuazione sul “processo telematico”, finalizzato alla creazione di un sistema automatico di accesso, per i soggetti qualificati, a tutti gli atti del giudizio e in particolare alla sentenza pubblicata. È solo con il compimento di queste operazioni che può dirsi realizzata quella “pubblicità”, prevista dalla norma, che rende possibile a chiunque l’acquisizione della conoscenza dei dati che ne costituiscono l’oggetto, possibilità che si traduce nella titolarità da parte dei potenziali interessati di puntuali situazioni giuridiche e in particolare del potere di prendere visione degli atti pubblicati e di estrarne copia. 7.– Pertanto, per costituire dies a quo del termine per l’impugnazione, la data apposta in calce alla sentenza dal cancelliere deve essere qualificata dalla contestuale adozione delle misure volte a garantirne la conoscibilità e solo da questo concorso di elementi consegue tale effetto, situazione che, in presenza di una seconda data, deve ritenersi di regola realizzata solo in corrispondenza di quest’ultima. 8.– Il ritardato adempimento, attestato dalla diversa data di pubblicazione, rende di fatto inoperante la dichiarazione dell’intervenuto deposito, pur se formalmente rispondente alla prescrizione normativa, e di ciò il giudice non può che prendere atto traendone le necessarie conseguenze. Qualora ciò accada, il ricorso all’istituto della rimessione in termini per causa non imputabile (art. 153 cod. proc. civ.), utilizzato dalle sezioni unite (e che pure in situazioni particolari può costituire un utile strumento di chiusura equitativa del sistema), va inteso come doveroso riconoscimento d’ufficio di uno stato di fatto contra legem che, in quanto imputabile alla sola amministrazione giudiziaria, non può in alcun modo incidere sul fondamentale diritto all’impugnazione, riducendone, talvolta anche in misura significativa, i relativi termini (specie nella prospettiva della sopravvenuta disciplina dell’istituto e in particolare della riduzione a sei mesi del termine in questione). 9.– Così interpretato il “diritto vivente”, espresso nella parte ricostruttiva dalla sentenza delle sezioni unite, possono superarsi e quindi dirsi infondati i dubbi di costituzionalità prospettati nell’ordinanza, pur apprezzabile nelle sue preoccupazioni garantiste. È parte integrante del diritto di difesa, infatti, che i soggetti interessati abbiano tempestiva conoscenza degli atti oggetto di una possibile impugnazione, in modo che siano utilizzabili nella loro interezza i termini di decadenza previsti per l’esperimento del gravame (sentenza n. 223 del 1993). 10.− La questione di legittimità costituzionale degli artt. 133, primo e secondo comma, e 327, primo comma, cod. proc. civ., nel testo anteriore alla modifica apportata dall’art. 46, comma 17, della legge n. 69 del 2009, come interpretati dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, con la sentenza n. 13794 del 1° agosto 2012, deve essere dichiarata non fondata nei termini indicati in motivazione>>.

La Corte ha definito “una patologia procedimentale grave” quella di apporre in calce alla sentenza civile due date diverse: ciò in ragione, non solo, della rilevante incidenza sulle posizioni giuridiche degli interessati ma, soprattutto, in quanto determinante ambiguità e dubbi in un momento processuale, quale quello dell’impugnazione, di massima importanza.

Esposti i diversi orientamenti caratterizzanti il panorama giurisprudenziale in materia, le Sezioni Unite, nel 2016, analizzano il contenuto dell’articolo 133 c.p.c., il quale, com’è noto, stabilisce che la pubblicazione della sentenza si effettua mediante il deposito nella cancelleria del giudice che l’ha pronunciata.

Sostengono le SS.UU. che già da un approccio meramente letterale, la pubblicazione non costituisce uno stadio susseguente rispetto al deposito della sentenza, bensì si identifica con esso, rappresentando il deposito il mezzo attraverso il quale la sentenza viene resa pubblica, di talché non sarebbe ipotizzabile che il cancelliere possa autonomamente pubblicare la sentenza in una data diversa e successiva da quella del deposito.

La scelta legislativa di identificare il momento della pubblicazione della sentenza con quello del suo deposito si spiega, secondo gli Ermellini, alla luce dell’esigenza di far dipendere importanti conseguenze collegate alla pubblicazione della sentenza quali la decorrenza dei termini di impugnazione e di formazione del giudicato, nonché di certificare definitivamente la volizione del giudice, che si identifica nella scelta di depositare la sentenza in cancelleria, alla luce della ritenuta completezza della medesima.

Tale meccanismo, si evidenzia, garantisce la pubblicità necessaria alla conoscibilità della sentenza, in quanto il deposito in cancelleria consiste non in una traditio brevi manu della sentenza attestata dal cancelliere, bensì nell’inserimento di quest’ultima nell’elenco cronologico delle sentenze esistente presso la cancelleria, accompagnato dall’assegnazione alla sentenza di un numero identificativo. E’ da tale momento che la sentenza “esiste” a tutti gli effetti e comincia a decorrere il cd. termine lungo per la sua impugnazione.

Ciò posto, le Sezioni Unite concludono nel ritenere che, nell’ipotesi in cui il cancelliere apponga in calce alla sentenza due date diverse (una di deposito, l’altra di pubblicazione), il giudice, al fine di determinare il dies a quo del termine lungo di impugnazione e, di conseguenza, stabilire la tempestività nonché l’ammissibilità dell’impugnazione, dovrà accertare il momento in cui è avvenuto l’inserimento della sentenza nell’elenco cronologico delle sentenze e l’attribuzione del relativo numero identificazione.

È in tale momento, infatti, che si verifica il deposito ufficiale della sentenza e, dunque, la pubblicazione della sentenza.

Tale verifica potrà essere svolta in diversi modi: in primo luogo mediante un’istruttoria documentale, consistente nel richiedere alla cancelleria del giudice a quo un’attestazione della data di iscrizione della sentenza nell’elenco cronologico; in secondo luogo, in difetto di prova documentale, il giudice potrà ricorrere alla presunzione semplice di cui all’articolo 2729 c.c.; in terzo luogo, potrà trovare applicazione la regola di giudizio di cui all’articolo 2697 c.c., attribuendo all’impugnante l’onere di provare la tempestività della propria impugnazione.

Nonostante il dictum delle SS.UU. sia pienamente condivisibile in quanto conforme al dato normativo costituito dagli artt. agli artt. 133 e 327 c.p.c. ed agli stessi principi più volte enunciati dalla Corte Costituzionale sulla conoscibilità del provvedimento ai fini della decorrenza dei termini, alcuni giudici di merito, con una interpretazione formale non costituzionalmente orientata hanno sostenuto che non fosse rilevante il riferimento alla certificazione attestante la data successiva di inserimento della sentenza nel registro cronologico (Trib. di Benevento sent. n° 354/2018 depositata il 19.02.2018).

E’ dovuta quindi intervenire di nuovo la Suprema Corte, questa volta la Sesta Sezione, che con ordinanza del 10.10.2019 n° 3536/2020, dep. il 13.02.2020, ha cassato la sentenza del Giudice di merito che aveva ritenuto inammissibile per tardività l’appello proposto avverso la sentenza del Giudice di Pace.

La Corte, nel ricostruire sapientemente la vicenda della chiusura dell’ufficio del Giudice di Pace con l’accorpamento ad altro Ufficio, rammenta che proprio le Sezioni Unite con sentenza n. 18659 del 22/9/2016, rv. 641078-01 – dopo aver affermato in via generale che “il deposito e la pubblicazione della sentenza coincidono e si realizzano nel momento in cui il deposito ufficiale in cancelleria determina l’inserimento della sentenza nell’elenco cronologico, con attribuzione del numero identificativo e conseguente conoscibilità per gli interessati, dovendosi identificare tale momento con quello di venuta ad esistenza della sentenza a tutti gli effetti, inclusa la decorrenza del termine lungo per la sua impugnazione – hanno avuto modo di precisare che: “Qualora, peraltro, tali momenti risultino impropriamente scissi mediante apposizione in calce alla sentenza di due diverse date, ai fini della verifica della tempestività dell’impugnazione, il giudice deve accertare attraverso istruttoria documentale, ovvero ricorrendo a presunzioni semplici o, infine, alla regola di cui all’art. 2697 c.c., alla stregua della quale spetta all’impugnante provare la tempestività della propria impugnazione – quando la sentenza sia divenuta conoscibile attraverso il deposito ufficiale in cancelleria ed il suo inserimento nell’elenco cronologico con attribuzione del relativo numero identificativo”.

Di tale principio di diritto aggiunge la Suprema Corte nella citata ordinanza non ha tenuto conto il Tribunale, che ha erroneamente ritenuto in un unico momento il deposito e la pubblicazione della sentenza.

Dando continuità al dictum contenuto nella sopramenzionata sentenza delle Sezioni Unite, precisa sempre nell’ordinanza la Corte, occorre precisare che una sentenza può dirsi depositata soltanto a seguito del suo inserimento nell’elenco cronologico delle sentenze, esistente presso la Cancelleria di ogni Ufficio giudiziario, con conseguente assegnazione del relativo numero identificativo: invero, una sentenza non identificabile non può affatto essere considerata come ufficialmente depositata.

La Sesta sezione della Corte, nel dare costanza, a quanto statuito dalle SS.UU. e dal Giudice delle Leggi, sembra aver definitivamente messo un punto fermo sulla questione.

Delle ulteriori resistenze giurisprudenziali (di merito) si sono però verificate successivamente, in quanto il medesimo Tribunale di Benevento, in diversa composizione, con la recente sentenza n. 273/2021,pubbl. il 10/02/2021, in un caso addirittura gemello a quello deciso con la citata ordinanza della Cass. del 2020, è andato di contrario avviso, ritenendo che “ai fini del decorso del termine lungo, in base al combinato disposto dagli artt. 133 e 327 c.p.c. l’unica data a cui l’art. 327 c.p.c. si riferisce ai fini del decorso del termine è quello della pubblicazione della sentenza, che ai sensi dell’art. 133 c.p.c. è resa pubblica esclusivamente mediante deposito in cancelleria del giudice che l’ha pronunciata; data di deposito che viene certificata dal cancelliere mediante l’apposizione in calce alla sentenza della firma e della data” (Corte appello Bari sez. II, 04/10/2018, n.1686)sostenendo ancora che “che non è pertanto, nella specie, rilevante il riferimento in ricorso alla certificazione attestante la data di inserimento della sentenza nel registro cronologico”.

Il giudice di merito quindi disattende il pacifico orientamento della Suprema Corte non ponendosi acriticamente problema relativo alla conoscibilità della decisione, data esclusivamente dall’inserimento nell’elenco cronologico delle sentenze, esistente presso la Cancelleria di ogni Ufficio giudiziario, con conseguente assegnazione del relativo numero identificativo, adempimento senza il quale la sentenza non può ritenersi giuridicamente depositata.

Invero per costituire dies a quo del termine per l’impugnazione, la data apposta in calce alla sentenza dal cancelliere deve essere qualificata dalla contestuale adozione delle misure volte a garantirne la conoscibilità e solo da questo concorso di elementi consegue tale effetto, situazione che, in presenza di una seconda data, deve ritenersi di regola realizzata solo in corrispondenza di quest’ultima ed il ritardato adempimento, attestato dalla diversa data di pubblicazione, rende di fatto inoperante la dichiarazione dell’intervenuto deposito, pur se formalmente rispondente alla prescrizione normativa, e di ciò il giudice non può che prendere atto traendone le necessarie conseguenze (Cort. Cost. 3/2015).

L’inserimento nell’elenco cronologico delle sentenze rappresenta il “mezzo” attraverso il quale si realizza ufficialmente il “deposito in cancelleria” della sentenza e, al contempo, la pubblicità necessaria alla conoscibilità della stessa.

La normale coincidenza tra deposito e pubblicazione comporta la necessità che le attività di deposito (consegna della sentenza in cancelleria da parte del giudice e recepimento di essa da parte del cancelliere mediante inserimento nell’elenco cronologico e relativa attestazione) intervengano senza soluzione di continuità.

E se anche situazioni contingenti non lo rendessero possibile, le suddette operazioni dovrebbero tuttavia sempre essere completate in breve tempo e comunque in un unico contesto soggettivo-temporale, in mancanza, il termine ex. art. 327 c.p.c. non può che decorrere dalla effettiva pubblicazione della sentenza costituita dall’inserimento del registro cronologico.

Di conseguenza, il giudice che ha dato impulso al procedimento di deposito non può disinteressarsene finché il completamento dello stesso non venga attestato e deve pertanto assicurarsi che tale completamento intervenga al più presto e risulti certificato dall’apposizione della relativa (unica) data in calce alla sentenza.

In tal modo, a partire dal deposito della sentenza, è assicurata la conoscibilità della sentenza (requisito costituzionale minimo), nel senso che il difensore, recandosi periodicamente in cancelleria per informarsi sull’esito di una causa, potrebbe, a partire dal momento del deposito, stante l’annotazione nell’elenco cronologico, venirne a conoscenza ed estrarne copia.

Certamente con l’introduzione del processo telematico per le sentenze redatte in formato elettronico, il problema non si pone.

Con ordinanza n. 9029 del 2019 la Corte di Cassazione Sezione Lavoro ha deciso una interessante questione relativa all’individuazione della data corretta di decorrenza del termine lungo per l’impugnativa differenziando l’ipotesi di redazione in formato elettronico da quella del deposito in forma cartacea.

Nel caso deciso veniva infatti eccepita la tardività del ricorso ex art. 327 c.p.c. perché avviato alla notifica il 13 gennaio 2017, oltre il termine di sei mesi (scaduto l’11 gennaio 2017) e decorrente dalla data di pubblicazione della sentenza gravata, avvenuta l’11 luglio 2016 mediante deposito in cancelleria.

La Corte ha prima di tutto evidenziato che la sentenza impugnata non era stata redatta in formato elettronico, ma bensì in formato cartaceo e dunque depositata in cancelleria in data 11 luglio 2016, come da attestazione del cancelliere apposta in calce al provvedimento.

Secondo i Giudici di legittimità la data rilevante è soltanto l’attestazione dell’avvenuto deposito da parte del Cancelliere e non quella diversa della successiva comunicazione di cancelleria avvenuta via PEC.

La Suprema Corte specifica che, nel caso oggetto di decisione, non può trovare applicazione la disciplina dettata per le sentenze redatte in formato elettronico, in cui è dal momento della trasmissione del provvedimento per via telematica mediante PEC che il procedimento decisionale è completato e si esterna, divenendo il provvedimento, dalla relativa data, irretrattabile dal giudice che l’ha pronunciato e legalmente noto a tutti, con decorrenza del termine lungo di decadenza per le impugnazioni ex art. 327 c.p.c. (Cass. n. 17278 del 2016).

Infatti, nel caso di redazione della sentenza in formato elettronico, la relativa data di pubblicazione, ai fini del decorso del termine cd. “lungo” di impugnazione, coincide non già con quella della sua trasmissione alla cancelleria da parte del giudice, bensì con quella dell’attestazione del cancelliere, giacché è solo da tale momento che la sentenza diviene ostensibile agli interessati (Cass. n. 24891 del 2018).Al contrario, nel caso in esame, trattandosi di sentenza redatta in formato cartaceo, il momento in cui la sentenza viene ad esistenza coincide con la sua pubblicazione ossia con l’attestazione del cancelliere del suo deposito ufficiale in cancelleria.

In definitiva il nodo resta sostanzialmente per i procedimenti non telematici, come quelli innanzi al Giudice di Pace, ove la dissociazione temporale tra deposito e pubblicazione con inserimento nel registro cronologico delle sentenze, potrebbe effettivamente verificarsi in casi contingenti come per es. nell’attuale periodo emergenziale covid con uffici parzialmente chiusi, smartworking ecc..

La linea guida da seguire, ad avviso di chi scrive, resta quella della conoscibilità del provvedimento, criterio già ampiamente utilizzato dal legislatore processuale in altri ambiti come nel caso di vizio della notificazione ove la giurisprudenza ha osservato come non tutti i vizi di nullità della notificazione provochino lo stesso vulnus del contraddittorio. Ci sono dei casi di nullità della notificazione che obiettivamente non inducono conseguenze speciali sulla conoscibilità del processo: basti pensare al caso in cui la notificazione sia afflitta da incompetenza dell’agente, cosa che certo non compromette la conoscenza del processo; e ciò diversamente dal caso in cui la notifica sia effettuata, anziché nel luogo di residenza attuale del convenuto secondo la certificazione anagrafica, in quello dove aveva dimorato anni addietro. Un’interpretazione coerente vuole che, se la nullità della notificazione non ha impedito la conoscenza del processo, il giudice d’appello non deve restituire la causa al primo giudice, perché in tali casi il convenuto si è reso contumace volontariamente, e dunque non meritevole della protezione dell’art. 354c.p.c.

Che l’elemento discriminante sia la conoscenza del processo, e non della causa, lo si ricava proprio dall’art. 327 co. 2, norma che il legislatore mette a presidio della formazione della cosa giudicata. La cosa giudicata si forma a prescindere dalla conoscenza effettiva che una parte abbia della sentenza: se la sentenza è depositata e pubblicata, passati 6mesi, subentra il giudicato, che le parti ne abbiano conoscenza o meno ai sensi dell’art.327 co. 1.Questa disposizione non si applica, co. 2, nonostante sia decorso il termine semestrale dalla pubblicazione, quando la parte contumace dimostra di non aver avuto conoscenza del processo per nullità della citazione o nullità della sua notificazione, e per nullità della notificazione di uno degli atti di cui all’art. 292 c.p.c.

Da tale norma si evince che l’elemento discriminante, per chi intendesse far valere un’impugnazione dopo che sia trascorso il termine lungo, è dato dall’allegazione e la dimostrazione di ignoranza del deposito della sentenza in dipendenza della nullità della citazione o della sua notifica, tali da impedire la conoscenza del processo. Posto che appare inverosimile che la nullità della citazione possa determinare ignoranza persino della pendenza del processo, l’altra ipotesi censita rivela come fonti di nullità alcuni accidenti, suscettibili di impedire la stessa notizia del processo; in tali casi, non si può neanche applicare il dies a quo del termine di formazione della cosa giudicata. Nonostante la sentenza sia apparentemente res iudicata, essa rimane esposta, solo per il contumace che non abbia avuto conoscenza del processo, all’ulteriore possibilità dell’impugnazione.

Ed ancora sul tema viene in rilievo la disciplina dell’interruzione automatica del processo come quella causata dalla morte del procuratore della parte costituita, che per es. interviene il giorno prima della scadenza del secondo termine ex art. 183c.6 cioè il termine per la deduzione delle prove in giudizio.

La parte che ovviamente vedesse non istantaneamente e non automaticamente attivata la protezione della stasi del processo, vedrebbe in realtà opposta a se la scadenza di un termine perentorio irrecuperabile per via di un accidente non rimediato e quindi qui la soluzione che il codice adotta è una soluzione del tutto conforme alla ratio seguita per la parte non ancora costituita: l’art. 301 dice se la parte è costituita il processo è interrotto dal giorno della morte, radiazione o sospensione del procuratore stesso cioè tutti quegli eventi che impediscono l’effettivo svolgimento della difesa della parte.

La fattispecie interruttiva è perciò immediata, senza l’addendo della dichiarazione o dell’accidente ulteriore, litispendenza + morte = interruzione; il provvedimento che eventualmente lo dichiarasse meramente ricognitivo e retroattivo all’accidente della norma e non bisognoso di elementi integrativi che ovviamente avrebbero anche spostato in avanti la decorrenza della protezione determinata dall’interruzione.

Il sistema è un sistema in cui si apre una stasi che è destinata a durare di regola tre mesi per la possibilità di proseguirlo ma a certe condizioni, perché nel nostro sistema “se non avviene la prosecuzione del processo a norma dell’articolo precedente” il processo si estingue.

La prosecuzione del processo è quell’attività che compete alla parte colpita dall’evento, è quell’atto di impulso della parte colpita dall’evento e quella parte colpita in realtà nell’ipotesi di parte non costituita dovrebbe essere la vera e propria costituzione.

Dice l’art. 307 che il processo si estingue qualora le parti alle quali spetta di proseguire, riassumere, non vi abbiano provveduto entro il termine perentorio stabilito dalla legge o dal giudice che dalla legge sia autorizzato a fissarlo; quando la legge autorizza il giudice a fissare il termine questo non può essere inferiore ad un mese né superiore a tre mesi.

Il problema che ha attanagliato la giurisprudenza ha riguardato il meccanismo dell’interruzione del processo legato al fatto che la parte interessata vede da questo evento generarsi un onere, non coltivando il quale, viene sanzionata con l’estinzione del processo.

Di questo tema si è dovuta occupare diverse volte la Corte Costituzionale, perché il sistema ha ipoteticamente posto a carico della parte un onere che dava luogo alla possibilità di cosiddette estinzioni misteriose od incolpevoli: cioè che la parte finiva per subire l’estinzione di un processo senza neppure avvedersi dell’evento che si stava realizzando. Allora la Corte Costituzionale è intervenuta dettando il principio secondo cui il dies a quo di quest’onere di riassunzione deve essere caratterizzato dalla conoscenza dell’evento interruttivo dal quale decorre il dies a quo; non solo, la conoscenza deve essere la conoscenza legale che è determinata soltanto dalla partecipazione di atti qualificati.

Identica questione è sorta anche in relazione all’art. 43, comma 3, L. fall., secondo cui «l’apertura del fallimento determina l’interruzione del processo». V’è dunque, un altro caso di interruzione automatica del giudizio in corso, e, come di consueto per casi simili, si è posto il problema del dies a quo per la riassunzione o prosecuzione, non potendosi anche qui applicare secondo il suo tenore letterale l’art. 305 c.p.c. che, altrimenti, rischierebbe di condurre a estinzione “misteriosa” del processo in violazione dell’art. 24 Cost. Problema talmente pacifico e per tante altre occasioni già investigato dal Giudice delle leggi, che, quando espressamente rimesso alla Sua attenzione, è stato risolto con provvedimento di inammissibilità per non potersi ormai la norma del codice di procedura civile applicarsi alla lettera nelle ipotesi di interruzione automatica.

Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 12154 del 7 maggio 2021, si sono pronunciate proprio sulla spinosa questione dell’individuazione del dies a quo al quale ancorare il decorso del termine di 3 mesi, individuato ai sensi dell’art. 305 c.p.c., per la riassunzione o per la prosecuzione del processo interrotto (ipso jure ai sensi dell’art. 43, comma 3, L.Fall. introdotto dal d. lgs. 5/2006) conseguentemente al fallimento di una delle parti in causa, enunciando il seguente principio di diritto: “ in caso di apertura del fallimento, ferma l’automatica interruzione del processo (con oggetto i rapporti di diritto patrimoniale) che ne deriva ai sensi della L.Fall., art. 43, comma 3, il termine per la relativa riassunzione o prosecuzione, per evitare gli effetti di estinzione di cui all’art. 305 c.p.c. e al di fuori delle ipotesi di improcedibilità ai sensi della L.Fall., artt. 52 e 93 per le domande di credito, decorre da quando la dichiarazione giudiziale dell’interruzione stessa sia portata a conoscenza di ciascuna parte; tale dichiarazione, ove già non conosciuta nei casi di pronuncia in udienza ai sensi dell’art. 176 c.p.c., comma 2, va direttamente notificata alle parti o al curatore da ogni altro interessato ovvero comunicata – ai predetti fini – anche dall’ufficio giudiziario, potendo inoltre il giudice pronunciarla altresì d’ufficio, allorché gli risulti, in qualunque modo, l’avvenuta dichiarazione di fallimento medesima”.

In definitiva, anche a seguito di tale breve deviazione dal tema iniziale trattato, emerge di tutta evidenza che il nostro sistema elevava discriminante del trattamento di tutte fattispecie innanzi descritte la conoscenza del provvedimento, intesa come conoscenza legale che deve costituire il criterio guida soprattutto degli operatori del diritto processuale nel solco degli irrinunziabili diritti tutelati dagli articoli 24 e 111 Cost..