Ai fini del decorso degli interessi in ipotesi di ripetizione
d’indebito oggettivo, il termine “domanda”, di cui all’art. 2033 c.c., non va inteso come riferito esclusivamente alla domanda giudiziale ma comprende, anche, gli atti stragiudiziali aventi valore di costituzione in mora, ai sensi dell’art. 1219 c.c.
FATTI DI CAUSA
Con citazione del 16.6.2006, la S.a.s. XXX & figli, di XXX,
conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Lecce il San Paolo Banco di
Napoli S.p.A. (poi Banco di Napoli S.p.A.) chiedendo la rideterminazione del saldo
relativo a due conti correnti di corrispondenza, aperti presso il Sanpaolo
I.M.I. S.p.A. ed il Banco
di Napoli, poi incorporati dal convenuto, previa
declaratoria di nullità delle clausole di determinazione del tasso d’interesse
in base agli usi praticati “su piazza” e di capitalizzazione
trimestrale degli interessi passivi ed escluse le commissioni di massimo
scoperto, non pattuite.
Chiedeva, inoltre, la condanna dell’Istituto di credito
convenuto alla restituzione delle somme indebitamente versate in ciascuno dei
due conti, con gli interessi.
Instauratosi il contraddittorio, il convenuto negava la
propria legittimazione passiva, e, nel merito, eccepiva, tra l’altro, la prescrizione
dell’azione di ripetizione, facendo presente che i contratti erano assistiti da
apertura di credito.
Espletata CTU contabile, il Tribunale adito rigettava la
domanda, ritenendo non legittimato il Banco convenuto, ma la decisione veniva riformata
dalla Corte d’Appello di Lecce, che, con sentenza resa pubblica il 24.8.2017,
condannava l’Istituto di credito al pagamento della complessiva somma di C
35.729,54, con gli interessi legali dalla domanda giudiziale al saldo;
compensava per la metà delle spese del doppio grado, per il parziale
accoglimento della domanda, ponendo a carico del Banco di Napoli S.p.A., la
restante metà.
Per quanto ancora interessa, i giudici d’appello affermavano
che l’eccezione di prescrizione era stata ritualmente sollevata dalla Banca, e,
distinguendo, in dichiarata applicazione dei principi affermati dalla sentenza
delle Sezioni Unite di questa Corte n. 24418 del 2010, tra versamenti aventi
funzione solutoria (e, cioè, effettuati in un momento in cui il conto era
scoperto, perché non erano ancora state concesse aperture di credito o perché
l’esposizione a debito era maggiore di quella autorizzata) e versamenti aventi
funzione ripristinatoria (e, cioè, compiuti durante l’operatività delle
aperture di credito e in presenza di un saldo debitorio inferiore
all’affidamento concesso), accoglievano l’eccezione di prescrizione solo con riferimento
ai primi, affermando che solo per essi il termine di prescrizione decennale era
decorso dalla data del versamento, e non dalla cessazione del rapporto, nella
specie intervenuta entro tale termine con riferimento ad entrambi i conti
correnti.
Avverso tale decisione, la xxx & Figli S.a.s. ha proposto
ricorso per cassazione, con quattro motivi. L’istituto di credito ha notificato
controricorso, ed entrambe le parti hanno depositato memorie.
All’esito dell’adunanza camerale del 18.6.2018, la Prima
Sezione di questa Corte ha emesso l’ordinanza interlocutoria n. 27680 del 30 ottobre
2018, con la quale ha rimesso la causa al Primo Presidente per l’eventuale
assegnazione alle Sezioni Unite, rilevando l’esistenza di un contrasto
interpretativo in ordine alla questione, introdotta con il primo motivo di
ricorso, relativa alle modalità con le quali deve essere formulata, per essere
ammissibile, l’eccezione di prescrizione da parte della banca.
Fissata l’udienza innanzi a questo Collegio, in vista di
essa, si è costituita la S.p.A. Intesa Sanpaolo, quale incorporante il Banco di
Napoli S.p.A., mentre la ricorrente ha depositato ulteriore memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. La questione posta all’esame delle Sezioni Unite si
incentra sulla delimitazione dell’onere di allegazione gravante sull’istituto
di credito che, convenuto in giudizio, voglia opporre l’eccezione di prescrizione
al correntista che abbia esperito l’azione di ripetizione di somme
indebitamente pagate (nella specie, per interessi passivi e commissioni di
massimo scoperte non dovuti, rispettivamente, perché pattuiti mediante clausole
nulle, e perché non concordate), nel corso del rapporto di conto corrente che
sia assistito da un apertura di credito.
L’ordinanza interlocutoria evidenzia, in particolare, che la
distinzione tra atti ripristinatori della provvista ed atti di pagamento, elaborata
“ad altri fini” e valorizzata, dalla sentenza n. 24418 del 2010 di
queste Sezioni Unite “per stabilire il momento da cui possa scaturire la
pretesa restitutoria del correntista, ai fini della decorrenza della
prescrizione”, ha generato incertezze applicative che si sono, poi, tradotte
nei diversi orientamenti giurisprudenziali che essa riassume.
2. Appare, dunque, del tutto opportuno muovere dalla menzionata
sentenza n. 24418 del 2.12.2010. Questi, in sintesi, i relativi passaggi
argomentativi, svolti in premessa generale ed in riferimento al rapporto tra
correntista e Banca:
-perché possa sorgere il diritto alla ripetizione di un
pagamento indebitamente eseguito tale pagamento deve esistere ed essere ben individuabile.
Per esistere, il pagamento deve essersi tradotto nell’esecuzione di una
prestazione da parte di un soggetto (il solvens) con conseguente spostamento
patrimoniale in favore di altro soggetto (l’accipiens). Esso può dirsi indebito
quando difetti di una idonea causa giustificativa;
-non può ipotizzarsi il decorso del termine di prescrizione
del diritto alla ripetizione se non da quando sia intervenuto un atto giuridico
definibile come pagamento, nel senso anzidetto, che l’attore affermi indebito.
Tale situazione non muta quando la natura indebita sia la conseguenza
dell’accertata nullità del negozio giuridico in esecuzione del quale il
pagamento è stato effettuato, diverse essendo la domanda volta alla
declaratoria di nullità di un atto, che non si prescrive affatto, e quella
volta ad ottenere la condanna alla restituzione di ciò che si è pagato,
soggetta a prescrizione in dieci anni;
-in base al disposto degli artt. 1842 e 1843 c.c.,
l’apertura di credito si attua mediante la messa a disposizione, da parte della
banca, di una somma di denaro che il cliente può utilizzare anche in più
riprese e della quale, per l’intera durata del rapporto, può ripristinare in
tutto o in parte la disponibilità, eseguendo versamenti che gli consentiranno
poi eventuali ulteriori prelevamenti entro il limite complessivo del credito
accordatogli;
-i versamenti effettuati dal correntista durante lo
svolgimento del rapporto potranno esser considerati pagamenti, tali da poter
formare oggetto di ripetizione (ove indebiti), quando abbiano avuto lo scopo e l’effetto
di uno spostamento patrimoniale in favore della banca, e cioè quando siano
stati eseguiti su un conto in passivo (o “scoperto”) cui non accede
alcuna apertura di credito a favore del correntista, o quando siano destinati a
coprire un passivo eccedente i limiti dell’accreditamento;
-per converso, quando il passivo non ha superato il limite dell’affidamento
concesso, i versamenti in conto fungono unicamente da atti ripristinatori della
provvista della quale il correntista può ancora continuare a godere, rispetto
ai quali la prescrizione decennale decorre non dalla data di annotazione in
conto di ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati, ma dalla
data di estinzione del saldo di chiusura del conto, in cui gli interessi non
dovuti sono stati registrati.
2.1. Come rammenta l’ordinanza interlocutoria, la sentenza
in esame è pervenuta a tali conclusioni, ritenendo che la distinzione tra rimessa
con funzione solutoria (in entrambi i casi di conto non assistito da apertura
di credito che presenti un saldo a debito del correntista, e di quello scoperto
a seguito di sconfinamento del fido convenzionalmente accordatogli) ovvero
semplicemente ripristinatoria della provvista, elaborata in giurisprudenza in
tema di revocabilità delle rimesse sul conto corrente dell’imprenditore poi
fallito, ex art. 67 L. Fall. (nel testo antecedente la modifica apportata dal
d.l. n. 35 del 2005), costituiva un parametro idoneo a stabilire, anche, la configurabilità
di un pagamento, asseritamente indebito, idoneo ad ingenerare una pretesa
restitutoria in favore del correntista.
2.2. Va detto che, a pochi giorni di distanza dalla
pubblicazione di detta sentenza, è stato emanato il d.l. n. 225 del 2010, art.
2, co 61, convertito in I. n. 10 del 2011, secondo cui l’art. 2935 c.c. andava interpretato
nel senso che “la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall’annotazione
sul conto inizia a decorrere dal giorno dell’annotazione”, norma che è
stata, tuttavia, dichiarata illegittima con sentenza della Corte costituzionale
n. 78 del 2012.
2.3. Il menzionato arresto, costantemente applicato dalla giurisprudenza
successiva, va qui riconfermato. Prima ancora che per la coerenza di sistema in
riferimento alle note applicazioni giurisprudenziali in tema di revocatoria di
rimesse bancarie ad opera di correntista poi fallito, l’approdo, nel comporre
l’antinomia tra i contrapposti argomenti relativi al dies a quo del decorso prescrizionale
dell’azione di ripetizione in ipotesi di domanda volta all’accertamento della
nullità del titolo in forza del quale è il pagamento, in tesi indebito, è stato
eseguito (dalla chiusura del conto o dall’annotazione di ciascun addebito in
applicazione di clausola nulla), si connota per il suo rigore logico
nell’individuazione dell’atto giuridico qualificabile come pagamento -e dunque
ripetibile ove indebito- nell’ambito dello specifico rapporto di conto corrente
bancario, in cui il saldo passivo non è immediatamente esigibile, salvo che non
ecceda l’importo dell’affidamento concesso al correntista, o in ipotesi di
conto corrente “scoperto’; non assistito da aperture di credito.
3. La distinzione tra rimesse solutorie e ripristinatorie
della provvista non ha, peraltro, dato luogo a specifici problemi interpretativi
in relazione all’onere di allegazione dovuto dal correntista nella proposizione
dell’azione di ripetizione: la questione relativa alla necessità che l’attore,
oltre all’indicazione del conto corrente, dell’eventuale apertura di credito,
della durata del relativo rapporto I
dovesse indicare partitamente i versamenti effettuati, e specificarne la
natura, o se, invece, fosse sufficiente l’allegazione di versamenti indebiti,
con la richiesta di restituzione Niuna determinata somma, è stata risolta nel
secondo senso in modo esplicito da Cass. n. 28819 del 2017, secondo cui non
compete al correntista l’allegazione della mancata effettuazione di versamenti
c.d. solutori, trattandosi di un fatto negativo estraneo alla fattispecie
costitutiva del diritto azionato; conclusione che è data per assunta nelle
sentenze n. 18581 del 2017; n. 4273 del 2018, n. 18144 del 2018, che richiamano,
anche per tale aspetto, la giurisprudenza, formatasi in materia di revocatoria
fallimentare ante L. n. 80 del 2005, ferma nel ritenere che non sia affetta da
nullità per indeterminatezza dell’oggetto o della causa petendi la citazione
contenente la domanda di revocatoria fallimentare di pagamenti costituiti da
rimesse di conto corrente bancario, seppure in mancanza d’indicazione dei
singoli versamenti solutori (cfr. in proposito, Cass. S.U. n. 8077 del 2012, che
ha, tra l’altro, affermato che l’atto di citazione per la revoca di rimesse in
conto corrente bancario non è affetto da nullità per vizio del petitum se
l’attore ha identificato una somma minima o un importo complessivo ed ha
chiesto la revoca di tutte le rimesse affluite, non essendo necessaria, per
l’individuazione della domanda, l’indicazione di ciascuna singola rimessa
revocabile).
4. I problemi interpretativi si sono invero registrati,
proprio come registra l’ordinanza interlocutoria, sulla modalità di
formulazione dell’eccezione di prescrizione da parte della banca, convenuta in ripetizione.
Posto che, secondo la menzionata sentenza n. 24418 del 2010 di queste Sezioni
Unite, la prescrizione del diritto alla restituzione ha decorrenza diversa a
seconda del tipo di versamento effettuato -solutorio o ripristinatorio- si è,
infatti, posta la questione se, nel formulare l’eccezione di prescrizione, la
banca debba necessariamente indicare il termine iniziale del decorso della prescrizione,
e cioè l’esistenza di singoli versamenti solutori, a partire dai quali
l’inerzia del titolare del diritto può venire in rilievo, o se possa limitarsi
ad opporre tale inerzia, spettando poi al giudice verificarne effettività e
durata, in base alla norma in concreto applicabile. Al quesito sono state date
soluzioni differenti, che di seguito vengono riassunte, senza pretesa di
completezza.
4.1. Hanno aderito alla prima soluzione:
– Cass. n. 4518 del 2014, secondo cui i versamenti eseguiti
in conto corrente hanno normalmente funzione ripristinatoria della provvista e
non determinano uno spostamento patrimoniale dal solvens all’accipiens,
rispondendo allo schema causale tipico del contratto, sicchè una diversa
finalizzazione dei singoli versamenti (o di alcuni di essi) deve essere in
concreto provata da parte di chi intende far decorrere la prescrizione da una
data diversa e anteriore rispetto a quella della chiusura del conto (in quel
caso, la banca non aveva mai dedotto né allegato tale diversa destinazione dei versamenti
in deroga all’ordinaria utilizzazione dello strumento contrattuale);
– Cass n. 20933 del 2017, secondo cui la natura
ripristinatoria delle rimesse è presunta: spetta dunque alla banca che
eccepisce la prescrizione di allegare e di provare quali sono le rimesse che
hanno, invece, avuto natura solutoria, con la conseguenza che, a fronte della formulazione
generica dell’eccezione, indistintamente riferita a tutti i versamenti
intervenuti sul conto in data anteriore al decennio decorrente a ritroso dalla
data di proposizione della domanda, il giudice non può supplire all’omesso
assolvimento di tale onere, individuando d’ufficio i versamenti solutori;
– Cass. n. 28819 del 2017 cit., secondo cui incombe sulla
banca, quando eccepisce la prescrizione del credito, l’onere di far valere l’avvenuta
effettuazione di rimesse solutorie in pendenza di rapporto, non essendo
configurabile, in mancanza di tali versamenti, l’inerzia del creditore, che
rappresenta il fatto costitutivo dell’eccezione;
– Cass. n. 17998 del 2018, secondo cui il fatto costitutivo dell’eccezione
di prescrizione (ossia la finalizzazione del versamento da parte del
correntista a una funzione diversa da quella ripristinatoria della provvista)
deve essere allegato e provato dalla Banca, e pertanto l’eccezione di
prescrizione non può considerarsi validamente proposta, quando non sono stati
allegati i fatti che ne costituiscono il fondamento, sicchè “la
prescrizione va fatta decorrere dalla chiusura del conto” (in quel caso
neppure verificatasi);
– Cass. n. 18479 del 2018, che ha riaffermato il principio secondo
cui la natura ripristinatoria delle rimesse deve presumersi, spettando, dunque,
alla banca di indicare specificamente i versamenti solutori rispetto ai quali è
intervenuta la prescrizione. In particolare, la sentenza ha aggiunto che il
principio, secondo cui l’eccezione di prescrizione è validamente proposta
quando la parte ne abbia allegato il fatto costitutivo, ossia l’inerzia del
titolare, senza che rilevi l’erronea individuazione del termine applicabile,
ovvero del momento iniziale o finale di esso, trattandosi di questione di
diritto sulla quale il giudice non è vincolato dalle allegazioni di parte, deve
esser coniugato con quello secondo cui quando, come nella specie, si è in presenza
di pluralità di rimesse affluite sul conto corrente, ognuna delle quali
costituisce un distinto credito, è necessario che l’elemento costitutivo
dell’eccezione sia specificato, dovendo il convenuto precisare, appunto, il
momento iniziale dell’inerzia in relazione a ciascuno dei diritti azionati;
– Cass. n. 33320 del 2018, che ha ribadito esser onere della
banca, che ha eccepito la prescrizione, fornire la prova della decorrenza e
quindi della natura solutoria delle rimesse.
4.2. Hanno aderito alla seconda soluzione:
– Cass. n. 2308 del 2017, che ha ritenuto fondata, e così implicitamente
ammissibile, l’eccezione di prescrizione formulata dall’istituto di credito,
con riferimento alla richiesta di restituzione di tutte le rimesse,
evidenziando che la Corte territoriale correttamente si è limitata ad
accoglierla solo in parte, distinguendo, tramite l’ausilio del tecnico
nominato, tra rimesse aventi funzione solutoria e rimesse aventi funzione
ripristinatoria;
– Cass. n. 18581 del 2017 cit., secondo cui, in un quadro processuale
definito dalla presenza degli estratti conto, non compete alla banca convenuta
fornire specifica indicazione delle rimesse solutorie cui è applicabile la
prescrizione, essendo tale incombente estraneo alla disciplina positiva
dell’eccezione, che è validamente proposta quando la parte ne abbia allegato il
fatto costitutivo, e cioè l’inerzia del titolare, e manifestato la volontà di
avvalersene. La decisione ha ritenuto, in particolare, che un’allegazione nel
senso indicato non cessa di esser tale ove la parte interessata correli quell’inerzia
anche ad atti (id est, versamenti ripristinatori) che non spieghino incidenza
sul diritto fatto valere dell’attore, evidenziando che, così come, ai fini
della valida proposizione della domanda di ripetizione, non si richiede che il
correntista specifichi una ad una le rimesse, da lui eseguite, che, in quanto
solutorie, si siano tradotte in pagamenti indebiti a norma dell’art. 2033 c.c,
non si vede, in conseguenza, perché debba essere la banca, che eccepisca la prescrizione,
ad essere gravata dell’onere di indicare i detti versamenti solutori (su cui la
prescrizione possa, poi, in concreto operare);
– Cass. n. 4372 del 2018 cit., del medesimo tenore. Nel ribadire
che l’eccezione di prescrizione è validamente proposta quando la parte ne abbia
allegato il fatto costitutivo, e cioè l’inerzia del titolare, e manifestato la
volontà di avvalersene, specifica come la natura ripristinatoria o solutoria
dei singoli versamenti emerga dagli estratti conto che il correntista, attore
nell’azione di ripetizione, ha l’onere di produrre in giudizio. Riafferma che
non sussistono ragioni per distinguere l’onere di allegazione del correntista
da quello della banca, richiamando, al riguardo, la giurisprudenza di
legittimità formatasi sull’azione revocatoria in tema di rimesse bancarie
riferita alla disciplina anteriore alla riforma della legge fallimentare (di
cui si è sopra dato conto al § 3.). La decisione conclude affermando che il carattere
solutorio o ripristinatorio delle singole rimesse non incide sul contenuto
dell’eccezione, che rimane lo stesso, indipendentemente dalla natura
dei singoli versamenti: semplicemente, la distinzione
concettuale esistente tra le diverse tipologie di versamento imporrà al
giudice, anche con l’ausilio del consulente tecnico, di selezionare giuridicamente
le rimesse che assumano concreta rilevanza ai fini della ripetizione
dell’indebito e della prescrizione;
– Cass. n. 5571 del 2018, che, nel cassare la decisione
d’appello che aveva ritenuto inammissibile l’eccezione di prescrizione,
afferma, che per principio consolidato, l’eccezione di prescrizione è validamente
proposta quando la parte ne abbia allegato il fatto costitutivo, ossia
l’inerzia del titolare, senza che rilevi l’erronea individuazione del termine
applicabile, ovvero del momento iniziale o finale di esso, trattandosi di
questione di diritto sulla quale il giudice non è vincolato dalle allegazioni
di parte;
– Cass. n. 18144 del 2018, che ripercorre gli argomenti
svolti dalle sentenze n. 18581 del 2017 e n. 4372 del 2018, rilevando che in un
quadro processuale definito dagli estratti conto non compete alla banca
convenuta fornire specifica indicazione delle rimesse solutorie cui è
applicabile la prescrizione, e che, una volta che la parte convenuta abbia
formulato l’eccezione di prescrizione, compete al giudice verificare quali
rimesse, per essere ripristinatorie, siano irrilevanti ai fini della decorrenza
della prescrizione nel corso del rapporto, non potendosi considerare quali
pagamenti;
– Cass. n. 30885 del 2018, che, nel rigettare il motivo di
ricorso del correntista, secondo cui la Corte del merito avrebbe eluso gli
oneri delle parti attribuendo la ricerca ufficiosa del thema decidendum al CTU anziché
alla parte, che aveva genericamente eccepito la prescrizione decennale dei
presunti pagamenti indebiti, ha ricondotto la questione nell’ambito della
qualificazione dei fatti rilevati e riepilogati in chiave ricostruttiva dal
CTU, affermando che l’accertamento della natura dei versamenti era dipeso dalla
condivisione da parte del giudice dell’affermazione svolta dal CTU, circa la
mancanza di un’apposita convenzione di affidamento di credito bancario e
l’esclusione della natura ripristinatoria dei versamenti con applicazione della
prescrizione, solo, con riferimento ai “pagamenti” effettuati nel
decennio anteriore alla domanda giudiziale;
– Cass. n. 2660 del 2019, che, nel ricostruire il modo in
cui si atteggia l’onere della prova nei giudizi in esame, ha affermato che, nel
formulare l’eccezione di prescrizione, l’istituto di credito ha l’onere di
dedurre l’inerzia, il tempo del pagamento ed il tipo di prescrizione invocata,
aggiungendo che l’eccezione è comunque validamente proposta, quando la parte ne
abbia allegato il fatto costitutivo, e cioè l’inerzia del titolare, e
manifestato la volontà di avvalersene.
4.3. Si colloca in una posizione intermedia Cass. n. 12977
del 2018, che l’ordinanza interlocutoria menziona tra quelle adesive alla prima
soluzione. Tale sentenza condivide, in effetti, il presupposto da cui muovono
quelle decisioni (che peraltro vengono richiamate), secondo cui, in costanza di
rapporto, i versamenti eseguiti sul conto corrente hanno normalmente funzione
ripristinatoria della provvista e non determinano uno spostamento patrimoniale
dal solvens all’accipiens sicchè una diversa finalizzazione dei versamenti deve
essere in concreto provata da parte di chi intende far decorrere la prescrizione,
quale fondamento del fatto estintivo della pretesa azionata in giudizio ex
adverso. La decisione conclude affermando che grava sulla banca, a fronte di un
rapporto di conto corrente con apertura di credito, l’onere di allegare, ai
fini dell’ammissibilità dell’eccezione di prescrizione -e poi di provare, ai
fini della fondatezza dell’eccezione- non solo il mero decorso del tempo, ma
anche l’ulteriore circostanza dell’avvenuto superamento, ad opera del cliente,
del limite dell’affidamento. Tale attività di allegazione, per quanto
“attenuata” nella relativa deduzione e, cioè, senza la necessità di
un’allegazione analitica delle rimesse ritenute solutorie, deve, però, recare
un grado di specificità tale da consentire alla controparte un adeguato
esercizio di difesa sul punto, e, in mancanza, la relativa eccezione deve
essere respinta, in quanto genericamente formulata (prima che infondata), non
potendo il giudice supplire all’omesso assolvimento di tali oneri, individuando
d’ufficio i versamenti solutori. Diversamente, in caso di conto non
“affidato”, tutte le rimesse devono automaticamente reputarsi solutorie,
con conseguente inesistenza di alcun onere in capo alla banca di individuarle specificamente.
5. Per la composizione del contrasto, il Collegio ritiene
opportuno ricordare che, in generale, la nozione di allegazione “in senso proprio”,
che è quella che qui rileva, si identifica con l’affermazione dei fatti
processualmente rilevanti, posti a base dell’azione o dell’eccezione: essa
individua i fatti costitutivi, impeditivi, modificativi o estintivi dei diritti
fatti valere in giudizio, sinteticamente definiti come fatti principali (per
distinguerli dai c.d. fatti secondari, dedotti in funzione di prova di quelli
principali). E’, poi, necessario precisare che non rientra nell’ambito
dell’onere di allegazione la qualificazione dei fatti allegati, che
costituisce, invece, attività riservata al giudice, che, nel provvedere al
riguardo, non è vincolato da quella eventualmente offerta dalle parti.
5.1. L’art. 163 n. 4 c.p.c. impone all’attore l’allegazione
dei fatti costituenti le ragioni della domanda, e ne sanziona con la nullità,
ex art. 164, co 4, c.p.c., l’omessa esposizione. Secondo la giurisprudenza di questa
Corte, la relativa indagine va compiuta caso per caso, tenuto conto che
l’adempimento dell’onere di allegazione può mutare in relazione alle
caratteristiche degli elementi costitutivi della domanda (cfr. SU n. 26242 del
2014 in tema di diritti autodeterminati ed eterodeterminati), e che
l’incertezza dei fatti costitutivi della domanda deve essere vagliata in
coerenza con la ragione ispiratrice della norma, che risiede, principalmente, nell’esigenza
di porre immediatamente il convenuto nelle condizioni di apprestare adeguate e
puntuali difese, oltre che di offrire al giudice l’immediata contezza del thema
decidendum (Cass. n. 11751 del 2013; n. 29241 del 2008). La giurisprudenza,
sopra menzionata, in tema di allegazioni dovute dal correntista, che agisca in
ripetizione di versamenti asseritamente indebiti, costituisce specifica
applicazione di tale principio.
5.2. L’onere di allegazione del convenuto va distinto a
seconda che si sia in presenza di eccezioni in senso stretto, o eccezioni in senso
lato: nel primo caso, i fatti estintivi, modificativi o impeditivi, possono
esser introdotti nel processo solo dalla parte, mentre nel secondo sussiste il
potere-dovere di rilievo da parte dell’Ufficio. Tale distinzione è stata posta
in evidenza da queste Sezioni Unite, con la sentenza n. 1099 del 1998
(successivamente seguita dalla giurisprudenza di legittimità), che, nell’ambito
della contestazione del convenuto, ha, appunto, differenziato il potere di
allegazione da quello di rilevazione, nel senso che il primo compete
esclusivamente alla parte e va esercitato nei tempi e nei modi previsti dal
rito in concreto applicabile (soggiacendo, pertanto, alle relative preclusioni
e decadenze), mentre il secondo compete alla parte (e soggiace perciò alle
preclusioni previste per le attività di parte) solo nei casi in cui la manifestazione
della volontà della parte sia strutturalmente prevista quale elemento
integrativo della fattispecie difensiva (come nel caso di eccezioni
corrispondenti alla titolarità di un’azione costitutiva), ovvero quando singole
disposizioni espressamente prevedano come indispensabile l’iniziativa di parte,
dovendosi, in ogni altro caso ritenere la rilevabilità d’ufficio dei fatti
modificativi, impeditivi o estintivi risultanti dal materiale probatorio
legittimamente acquisito al processo e provati alla stregua della specifica
disciplina processuale in concreto applicabile.
5.3. E’, quindi, necessario rimarcare che, pur nella loro indiscutibile
connessione, l’onere di allegazione è concettualmente distinto dall’onere della
prova, attenendo il primo alla delimitazione del thema decidendum mentre il
secondo, attenendo alla verifica della fondatezza della domanda o
dell’eccezione, costituisce per il giudice regola di definizione del processo.
Non è ozioso, infatti, rilevare che l’aver assolto all’onere di allegazione non
significa avere proposto una domanda o un’eccezione fondata, in quanto
l’allegazione deve, poi, esser provata dalla parte cui, per legge, incombe il
relativo onere, e le risultanze probatorie devono, infine, esser valutate, in
fatto e in diritto, dal giudice.
6. Nello specifico tema della prescrizione estintiva,
oggetto della presente disamina, queste Sezioni Unite, con la sentenza n. 10955
del 2002 -anch’essa menzionata nell’ordinanza interlocutoria- hanno chiarito
che il relativo elemento costitutivo è rappresentato dall’inerzia del titolare
del diritto fatto valere in giudizio, mentre la determinazione della durata di
detta inerzia, necessaria per il verificarsi dell’effetto estintivo, si
configura come una quaestio iuris concernente l’identificazione del diritto e
del regime prescrizionale per esso previsto dalla legge. Ne consegue che la
riserva alla parte del potere di sollevare l’eccezione -che, com’è noto,
costituisce una tipica eccezione in senso stretto- implica che ad essa sia
fatto onere soltanto di allegare il menzionato elemento costitutivo e di manifestare
la volontà di profittare di quell’effetto, e non anche di indicare direttamente
o indirettamente (cioè attraverso specifica menzione della durata dell’inerzia)
le norme applicabili al caso di specie, l’identificazione delle quali spetta al
giudice, che -previa attivazione del contraddittorio sulla relativa questione-
potrà applicare una norma di previsione di un termine diverso. In particolare,
analizzando la struttura nella fattispecie estintiva delineata dall’art. 2934
c.c. secondo cui “ogni diritto si estingue quando il titolare non lo
esercita per il tempo determinato dalla legge”, la sentenza n. 10955 in
esame, chiamata a dirimere il contrasto esistente circa la necessità che la
parte che formuli tale eccezione debba o meno specificare il lasso di tempo a
ciò necessario, è pervenuta alla esposta conclusione, evidenziando che l’identificazione
della fattispecie estintiva cui corrisponde l’eccezione di prescrizione, va
correttamente compiuta alla stregua del “fatto principale” e che tale
fatto va individuato nell’inerzia del titolare; laddove il tempo è configurato
soltanto come la dimensione del fatto principale, una circostanza ad esso
inerente, che non ha valore costitutivo di un corrispondente tipo di
prescrizione. Si è, pertanto, precisato che non esistono tanti tipi di
prescrizione in relazione al tempo del suo maturarsi, e correlativamente, con
l’indicazione di un termine o di un altro non si formula una nuova eccezione
“fermo restando, in ogni caso, che l’eccezione stessa è correttamente formulata
anche quando la parte siasi limitata ad invocare l’effetto estintivo
dell’inerzia del titolare, senza alcuna indicazione espressa della durata a tal
fine sufficiente”.
7. In linea con gli esposti principi in tema di onere di
allegazione, in generale, e di onere di allegazione riferito alla specifica
eccezione di prescrizione, la soluzione del contrasto va, dunque, risolta nel senso
della non necessarietà dell’indicazione, da parte della banca, del dies a quo
del decorso della prescrizione, secondo la giurisprudenza indicata al § 4.2. Deve,
infatti, ribadirsi che l’elemento qualificante dell’eccezione di prescrizione è
l’allegazione dell’inerzia del titolare del diritto, che costituisce, appunto,
il fatto principale, nei sensi di cui si è detto, al quale la legge riconnette
l’invocato effetto estintivo. Se ciò è vero, pare al Collegio che richiedere al
convenuto, ai fini della valutazione di ammissibilità dell’eccezione, che tale
inerzia sia “particolarmente connotata” in riferimento al termine
iniziale della stessa (in tesi individuando e specificando diverse rimesse
solutorie) comporti l’introduzione, sia pur indiretta, di una nuova
tipizzazione delle diverse forme di prescrizione, che queste Sezioni Unite,
nella condivisa pronuncia n. 10955 del 2002, hanno voluto espressamente escludere.
Del resto, la giurisprudenza, che ha ritenuto necessaria l’indicazione delle
rimesse solutorie, fa leva su di un argomento -e cioè la presunta natura
ripristinatoria dei versamenti, secondo un andamento fisiologico del rapporto-
che, riferendosi allo schema delle presunzioni, attiene al profilo probatorio
(art. 2727 e segg. c.c.), che, come si è detto, va distinto dal profilo
allegatorio, che è, appunto, quello rilevante ai fini dell’ammissibilità
dell’eccezione.
Merita, ancora, condivisione la considerazione che esalta la
simmetria che, in base a tale ricostruzione, viene richiesta alle parti ai fini
della validità della domanda di ripetizione e dell’ammissibilità dell’eccezione
di prescrizione: il correntista, come si è esposto al § 3., potrà limitarsi ad
indicare l’esistenza di versamenti indebiti e chiederne la restituzione in
riferimento ad un dato conto e ad un tempo determinato, e la Banca, dal canto
suo, potrà limitarsi ad allegare l’inerzia dell’attore in ripetizione, e
dichiarare di volerne profittare. Resta da aggiungere che il problema della
specifica indicazione delle rimesse solutorie non viene eliminato, ma
semplicemente si sposta dal piano delle allegazioni a quello della prova, sicché
il giudice valuterà la fondatezza delle contrapposte tesi al lume del riparto dell’onere
probatorio, se del caso avvalendosi di una consulenza tecnica a carattere
percipiente.
8. A soluzione del contrasto, va, in conclusione, posto il
seguente principio di diritto: “l’onere di allegazione gravante
sull’istituto di credito che, convenuto in giudizio, voglia opporre l’eccezione
di prescrizione al correntista che abbia esperito l’azione di ripetizione di somme
indebitamente pagate nel corso del rapporto di conto corrente assistito da un
apertura di credito, è soddisfatto con l’affermazione dell’inerzia del titolare
del diritto, e la dichiarazione di volerne profittare, senza che sia anche
necessaria l’indicazione di specifiche rimesse solutorie”.
9. Procedendo, quindi, allo scrutinio dei motivi, il primo,
con cui la Società ricorrente ha denunciato la violazione e la falsa applicazione
degli artt. 2938, 2697 e 2727 c.c., per esser stata ritenuta ammissibile
l’eccezione di prescrizione formulata ex adverso, nonostante fosse
genericamente riferita a tutti i versamenti eseguiti, senza alcuna indicazione
delle rimesse solutorie, va, in conseguenza rigettato.
9.1. La tesi propugnata dalla ricorrente si fonda, infatti sull’orientamento,
che è stato qui disatteso, che afferma inammissibile l’eccezione di
prescrizione della Banca, che ometta di indicare le rimesse solutorie. Va,
ancora, rilevato che gli argomenti trattati dalla ricorrente nella seconda
memoria del 13 maggio 2019 e svolti, anche, in sede di discussione -relativi
alla necessità di accertare la copertura del conto con riferimento al saldo
disponibile e non anche al saldo contabile o al saldo per valuta- sono estranei
al dibattito processuale: di tale tema d’indagine, infatti, non vi è traccia in
seno al ricorso, che, senza nulla dedurre circa il criterio di riconoscimento
dei versamenti solutori e della relativa data, si è limitato a criticare, nei
sensi di cui si è detto, la formulazione dell’eccezione avversaria. 9.2.
Peraltro, anche per tale verso, la questione potrebbe rilevare ai fini della
fondatezza dell’eccezione di prescrizione (in tesi, da riferire all’epoca di
effettiva esecuzione di incassi ed erogazioni e da provare mediante opportuna produzione
documentale), ma nulla sposterebbe in termini di onere di allegazione
dell’eccezione stessa, oggetto della censura.
10. Col secondo motivo, la ricorrente lamenta la violazione dell’art.
2697 c.c., per non esser stato considerato idoneo atto interruttivo della
prescrizione la prodotta missiva del 29.5.2005 annoverata tra gli allegati
della perizia contabile, di determinazione del saldo, a firma della dott. S. V.
In particolare, la ricorrente afferma che, in base a tale missiva, il periodo
non prescritto retroagisce di circa un anno, rispetto al periodo considerato dal
CTU e fatto proprio dalla Corte territoriale.
10.1. Il motivo è inammissibile. Il tema dell’apprezzamento
di un atto interruttivo della prescrizione è stato affrontato da queste Sezioni
Unite, con la sentenza n. 15661 del 2005, che, richiamata la precedente
pronuncia n. 1099 del 1998, sopra citata al § 5.2., hanno affermato il
principio secondo cui l’eccezione di interruzione della prescrizione integra
un’eccezione in senso lato e, pertanto, può essere rilevata d’ufficio dal
giudice sulla base di elementi probatori ritualmente acquisiti agli atti. Con
la successiva ordinanza n. 10531 del 2013 è stato, inoltre, chiarito che il
rilievo d’ufficio delle eccezioni in senso lato non è subordinato alla
specifica e tempestiva allegazione della parte ed è ammissibile anche in
appello, dovendosi ritenere sufficiente che i fatti risultino documentati ex
actis, in funzione del valore primario del processo, costituito dalla giustizia
della decisione.
10.2. Alla stregua di tali condivisi principi, ed al di là
dell’eccepita carenza di autosufficienza del motivo, la questione della
valutazione in termini di idoneo atto interruttivo della prescrizione si
risolve non nel supposto malgoverno della disposizione dell’art. 2697 c.c., in tema
di riparto dell’onere della prova, ma, direttamente, nell’erroneo o, al limite,
nel mancato apprezzamento del contenuto di tale missiva. La critica attiene
dunque o ad una valutazione di merito, qui insindacabile, circa il mancato
riconoscimento degli effetti della missiva nei termini sperati, implicito
nell’individuazione di un termine diverso, o nella totale mancata
considerazione della missiva stessa. Ma, anche in tale secondo senso, il motivo
che svolge una violazione di legge, non è formulato ammissibilmente, potendo al
più esser dedotta, ma ciò non è stato fatto, la violazione del numero 5
dell’art. 360, comma 1, che, secondo parte della giurisprudenza di legittimità (Cass.
n. 16812 del 2018; n. 19150 del 2016), consente di censurare il mancato esame
di un documento, quando abbia determinato l’omissione della motivazione su un
punto decisivo della controversia.
11. Con il terzo motivo, la ricorrente deduce la violazione
dell’art. 2033 c.c., per esser gli interessi legali stati fatti decorrere dalla
domanda invece che dai precedenti atti di costituzione in mora. In proposito,
la ricorrente afferma di aver depositato, oltre che la missiva citata nel
precedente motivo, anche due raccomandate a.r. del 9.3.2006, riferite ai due
c/c, con le quali aveva richiesto la restituzione di importi, specificamente
indicati, per ciascuno di essi, e sostiene che, secondo una pregevole
giurisprudenza, che supera il tradizionale indirizzo, la disposizione di cui
all’art. 2033 c.c., secondo cui chi ha ricevuto in buona fede un pagamento
indebito è tenuto a restituire i frutti e gli interessi dal giorno della
domanda, va interpretata nel senso di domanda amministrativa di messa in mora e
non di domanda giudiziale
11.1. Contrariamente a quanto eccepito dalla Banca, il
motivo è ammissibile. La Società non aveva, infatti, l’onere di contestare con l’appello
la mancata considerazione di dette raccomandate, da parte del CTU, essendo
stata soccombente in prime cure sulla questione pregiudiziale della
legittimazione; né la censura può dirsi generica, in quanto contiene un
sintetico resoconto del contenuto di tali missive, la specifica indicazione del
luogo in cui ne è avvenuta la produzione – pure nuovamente depositate insieme
al ricorso-, in osservanza dei precetti di cui all’art. 366, n. 6, e 369, co 2,
n. 4, c.p.c. (Cass. SU n. 22726 del 2011); peraltro, come riferisce il
ricorrente ed è riconosciuto ex adverso (cfr. memoria in vista dell’adunanza
del 18.6.2018), il computo a ritroso del CTU, recepito dalla Corte del merito,
muove da un atto di costituzione in mora, interruttivo della prescrizione, del
15.5.2006, mentre gli interessi sono stati riconosciuti a decorrere dalla
domanda giudiziale del 16.6.2006, talché la questione di diritto, posta con la
censura, andrebbe, comunque, affrontata.
11.2. Il motivo è anche fondato. Queste le ragioni.
11.3. Come rammenta la Società, secondo la giurisprudenza tradizionale
e maggioritaria (tra le tante, Cass. 3912 del 2018; n. 10161 del 2016; n. 9934
del 2016; n. 4436 del 2014; n. 17558 del 2006; n. 4745 del 2005; n. 1581 del
2004; n. 11969 del 1992), nella ripetizione dell’indebito oggettivo ex art.
2033 c.c., il debito dell’accipiens, che non sia in mala fede, produce
interessi solo a seguito della proposizione dell’apposita domanda giudiziale,
non essendo sufficiente un qualsiasi atto di costituzione in mora, e ciò in quanto
all’indebito si ritiene applicabile la tutela prevista per il possessore in
buona fede in senso soggettivo dell’art. 1148 c.c., a norma del quale questi è
obbligato a restituire i frutti soltanto della domanda giudiziale, secondo il
principio per il quale gli effetti della sentenza retroagiscono al momento
della proposizione della domanda. Si è anche posto in evidenza che, pur avendo
ad oggetto una somma di danaro liquida ed esigibile, l’art. 2033 c.c. è,
perciò, norma parzialmente derogatoria rispetto sia all’art. 1282 c.c. che all’art.
1224 c.c.
11.4. Queste Sezioni Unite hanno affrontato il tema della decorrenza
degli interessi in ipotesi di ripetizione d’indebito, con la sentenza n. 7269
del 1994, in tema di domanda restitutoria di somme indebitamente versate per
contributi assicurativi dal datore di lavoro all’I.N.P.S. Dopo aver ricordato
lo stato della giurisprudenza di legittimità, nei sensi appena esposti, la
decisione ha evidenziato che in materia previdenziale, in forza della
specialità della normativa, la domanda giudiziale deve esser preceduta dalla
domanda amministrativa (che costituisce una condizione di proponibilità della prima),
ed ha concluso affermando che gli interessi decorrono non già dalla domanda
giudiziale ma dalla precedente domanda amministrativa, che non può esser
considerata come una mera richiesta di restituzione -avendo caratteristiche del
tutto analoghe alla domanda giudiziale sia per la certezza del dies a quo sia
per l’idoneità a rendere consapevole l’accipiens dell’indebito nel quale versa-
e tenuto conto che, un’interpretazione restrittiva del termine “domanda”
nel senso tecnico-giuridico di domanda giudiziale determinerebbe conseguenze
pregiudizievoli per i diritti del solvens e quindi dubbi di legittimità
costituzionale della citata norma in relazione agli artt. 3 e 24 della
Costituzione.
Con le successive sentenze n. 5624 del 2009 e n. 14886 del 2009,
rese in ipotesi di condanna alla restituzione di somme di denaro versate in
esecuzione di un accordo sull’indennità di espropriazione, divenuto inefficace
in seguito all’interruzione del procedimento ablativo, queste Sezioni Unite
hanno ritenuto, con la prima, costituire jus receptum l’affermazione secondo
cui il termine “domanda” contenuto nell’art. 2033 c.c. si riferisce
alla domanda giudiziale,
sicchè gli interessi (compensativi) decorrono “dal
momento della domanda giudiziale (e mai comunque da quello della messa in
mora), salva la dimostrazione della mala fede dell’accipiens”; e, con la seconda,
si sono limitate a dare seguito all’orientamento sopra esposto, richiamandolo
espressamente. 11.5. Il fondamento dell’obbligo dell’accipiens in buona fede di
corrispondere gli interessi, ricostruito in riferimento ai principi in tema di
possesso, è stato sconfessato con la sentenza n. 7526 del 2011, citata dalla
ricorrente. Tale decisione ha posto in evidenza che la formula letterale
dell’art. 2033 c.c. riconosce all’attore in ripetizione il diritto agli
interessi dalla “domanda” senza alcuna connotazione e che la sua
qualificazione in termini di “domanda giudiziale” si basa su di un
fondamento storico non più corrispondente all’attuale sistema del codice
civile: il codice del 1865 includeva la restituzione dell’indebito (riprendendo
l’art. 1377 del codice francese) nella sezione dei quasi contratti e
disciplinava, all’art. 1147 c.c., il solo caso della ricezione in mala fede
facendo decorrere gli interessi “dal giorno del pagamento”, mentre,
per l’ipotesi, in quel codice non prevista, della ricezione in buona fede,
l’accipiens veniva considerato non già come debitore per la restituzione ma
come possessore della somma altrui, con conseguente suo obbligo di restituzione
dei frutti pervenutigli “dopo la domanda giudiziale” (art. 703 c.c.
del 1865, corrispondente all’attuale art. 1148 c.c.). E ciò non perché la
domanda giudiziale faceva venir meno lo stato di buona fede (la mala fede
sopravvenuta non nuoceva al possessore), ma in virtù del principio secondo cui
la durata del processo non può danneggiare la parte vittoriosa. L’attuale
disciplina codicistica, prosegue la decisione in esame, ha inserito l’istituto
della ripetizione dell’indebito nel libro delle obbligazioni, sicché l’incongruenza
circa il fondamento legale della decorrenza degli interessi (la cui natura si
afferma non chiaramente definita) va superata portando la materia per intero
nel diritto delle obbligazioni, e cioè intendendo la “domanda” di cui
all’art. 2033 come atto di costituzione in mora, anche stragiudiziale (art.
1219, co 1 c.c.).
A tale principio, pure di sfuggita affermato con la sentenza
n. 16657 del 2014, si è dichiaratamente riferita la sentenza n. 22852 del 2015,
in tema di applicabilità dei principi dell’indebito in ipotesi di pagamento
dell’indennità di espropriazione concordata, e della successiva revoca della
dichiarazione di pubblica utilità per ragioni di pubblico interesse. Tale
decisione, richiamate le menzionate sentenze Cass. S.U. n. 5624 e n. 14886 del
2009 (trattandosi della medesima questione), ha, infatti, ritenuto che, in tema
di ripetizione d’indebito oggettivo, l’espressione “domanda” di cui
all’art. 2033 c.c. non va intesa come riferita esclusivamente alla domanda
giudiziale, ma comprende anche gli atti stragiudiziali aventi valore di
costituzione in mora, ai sensi dell’art. 1219 c.c., dovendosi considerare
l’accipiens (in buona fede) quale debitore e non come possessore, con
conseguente applicazione dei principi generali in materia di obbligazioni e non
di quelli relativi alla tutela del possesso ex art. 1148 c.c. Agli argomenti svolti
nella precedente decisione n. 7526 del 2011, la sentenza ne ha aggiunto uno
letterale, a dimostrazione della diversità della disciplina del possesso
rispetto a quella delle obbligazioni, ed un altro desunto dalla comparazione
giuridica con l’ordinamento tedesco.
12. Il Collegio ritiene di aderire a tale seconda esegesi
dell’art. 2033 c.c. Oltre al superamento delle ragioni storiche sopra esposte (per
la specifica previsione della spettanza degli interessi in ipotesi d’indebito
oggettivo ricevuto in buona fede), idonee a dar conto della genesi della
considerazione dell’accipiens come possessore piuttosto che come debitore, onde
escludere la correttezza della tesi che sovrappone dette situazioni giuridiche
milita, anzitutto, il dato normativo.
12.1. L’art. 2033 c.c. stabilisce, infatti, che chi ha
eseguito un pagamento non dovuto ha diritto agli interessi “dal giorno
della domanda”, laddove l’art. 1148 c.c. dispone che il possessore in
buona fede fa suoi i frutti naturali separati e i frutti civili “fino al
giorno della domanda giudiziale”. La circostanza che la domanda -indicata
quale dies a quo della decorrenza degli interessi dovuti dall’accipiens in buona
fede- non sia ulteriormente connotata in termini di “giudiziale” non
è fatto in sé neutro e consente, già in prima battuta, di affermare che,
riferendosi alla “domanda”, il legislatore non abbia voluto unicamente
riferirsi alla notificazione dell’atto con cui si inizia un giudizio, come
invece ha fatto, a proposito dell’interruzione della prescrizione, nel primo
comma dell’art. 2943 (che al secondo menziona la “domanda proposta nel
corso di un giudizio”). Del resto, con la sentenza n. 8491 del 2011,
queste Sezioni Unite, nell’affermare che il termine “ricorso”
contenuto nell’art. 1137 c.c. (nel testo antecedente la modifica di cui
all’art. 15 della L. n. 220 del 2012) non vale ad identificare la forma che
deve assumere l’atto introduttivo dei giudizi d’impugnativa delle delibere
condominiali, hanno già evidenziato che il riferimento a nozioni processuali
che, come nella specie, sia inserito in un contesto normativo – il codice civile
– destinato alla configurazione dei diritti e all’apprestamento delle relative
azioni sotto il profilo sostanziale, può avere carattere generico.
12.2. Da un punto di vista sistematico, va, poi, rilevato
che il possessore, in virtù dell’apparenza di verità che è data al suo titolo dalla
buona fede (che si presume), non cessa di esser tale né diventa mero detentore
per il solo fatto che un terzo rivendichi il bene, seppure con una richiesta
formale, in tesi analoga a quella idonea alla costituzione in mora: gli effetti
della sentenza retroagiscono, infatti, alla “domanda giudiziale”, di
cui parla l’art. 1148 c.c., non perché la relativa proposizione produca
l’effetto della costituzione in mora, ma perché lo status di possessore in
buona fede e la connessa tutela possono cessare solo con la sentenza che
accolga la rivendica, mentre, com’è noto, i tempi del processo non possono
gravare sulla parte rimasta vittoriosa. In caso d’indebito oggettivo, invece,
il legislatore, come affermato da accorta dottrina, non si preoccupa di
qualificare la situazione che lo determina, e non prende neppure posizione sul problema
se il pagamento non dovuto trasferisca la proprietà della cosa pagata oppure ne
trasferisca il solo possesso: si limita più semplicemente a prendere atto che
manca un presupposto legale affinché la prestazione corrisposta possa esser
mantenuta, e concede alla parte che ha effettuato il pagamento il diritto di
riprendersi quanto pagato. Il principio ha avuto l’avallo di queste Sezioni
Unite (n. 14828 del 2012), che hanno affermato che qualora venga acclarata la
mancanza di una causa adquirendi, ed in qualsiasi calcio in cui venga meno il
vincolo originariamente esistente, l’azione accordata dalla legge per ottenere
la restituzione di quanto prestato in esecuzione del titolo invalido è quella
di ripetizione di indebito oggettivo.
12.3. Il Collegio ritiene, pertanto, di dover superare la
propria giurisprudenza, che, nelle decisioni del 2009, ha fatto proprio l’indirizzo
tradizionale qualificandolo come jus receptum, ma senza alcuna specifica
argomentazione, mentre con la decisione del 1994 ha mostrato un’apertura, sia
pur settoriale e riferita al valore della domanda amministrativa nelle cause
previdenziali, e di dover affermare che i principi che governano l’indebito
devono individuarsi solo in quelli che regolano le obbligazioni, nel cui ambito
l’istituto trova, appunto, la sua sedes materiae. Il che comporta che, in base
ai principi generali, l’obbligo della corresponsione degli interessi da parte
dell’accipiens in buona fede, quale debitore dell’indebito percepito) può decorrere da data antecedente a quella
dell’instaurazione del giudizio, ove sia stata preceduta da uno specifico atto
di costituzione in mora, dovendo il termine “domanda” di cui all’art.
2033 c.c. esser inteso come riferito non esclusivamente alla domanda giudiziale
ma, anche, 0,gli atti stragiudiziali di cui all’art. 1219 c.c. Il regime della
disposizione in esame, che si riferisce, comunque, ad una domanda per il
sorgere del debito per interessi consente, sotto altro profilo, di confermare
che l’art. 2033 c.c. è norma parzialmente derogatoria rispetto all’art. 1282
c.c., costituendo eccezione -che la disposizione in esame, appunto, ammette- al
principio secondo cui i crediti liquidi ed esigibili di una somma di danaro
producono interessi (corrispettivi) di pieno diritto, e ciò in ragione del
fatto che la legge considera legittima l’utilizzazione del denaro da parte
dell’accipiens in buona fede prima della “domanda” nel senso qui
specificato.
12.4. Va, in conclusione, affermato il seguente principio di
diritto: “Ai fini del decorso degli interessi in ipotesi di ripetizione d’indebito
oggettivo, il termine “domanda”, di cui all’art. 2033 c.c., non va
inteso come riferito esclusivamente alla domanda giudiziale ma comprende,
anche, gli atti stragiudiziali aventi valore di costituzione in mora, ai sensi
dell’art. 1219 c.c.”
13. La sentenza va dunque, cassata con rinvio, per i
necessari accertamenti, restando in conseguenza assorbito quarto motivo, con cui
si è censurata la statuizione di compensazione delle spese, per la ritenuta
reciproca soccombenza. Il giudice del rinvio, che si designa nella Corte
d’Appello di Lecce in diversa composizione, provvederà, anche, a regolare le
spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Rigetta il primo motivo, inammissibile il secondo, accoglie
il terzo, assorbito il quarto, cassa e rinvia, anche per le spese, alla Corte
d’Appello di Lecce in diversa composizione.
Così deciso in Roma il 21 maggio 2019.