La PAS (Parental Alienation Syndrome).

(di Valeria Cianciolo – Ondif Sez. Bologna)

 Tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l’altro genitore, a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità ed alla crescita equilibrata e serena.

La teoria della PAS (Parental Alienation Syndrome) è stata introdotta in Italia nel 1997 con la traduzione dell’articolo di un medico americano, il dott. Richard Alan Gardner, pubblicato nel 1985 sulla rivista Academy Forum.

La sindrome è a tutt’oggi una ipotetica e controversa dinamica psicologica disfunzionale che, secondo le teorie dello statunitense Richard Gardner, si attiverebbe sui figli minori coinvolti in contesti di separazione o divorzio conflittuale dei genitori, non adeguatamente mediati. Gardner definisce la PAS come un disturbo, effetto di una supposta programmazione, quando non vera e propria manipolazione, del bambino da parte di un genitore cosiddetto “alienante”.

Secondo Gardner, la PAS è riconoscibile da otto sintomi:

1. campagna di denigrazione verso il genitore rifiutato, e che comprende false accuse di violenza intrafamiliare o di abusi sessuali e incestuosi;
2. motivazioni futili per giustificare il rifiuto: il bambino motiva il suo disagio verso il genitore che rifiuta adducendo motivazioni insensate o prive di logica o meramente superficiali;
3. mancanza di ambivalenza: il genitore rifiutato è visto dal bambino come “completamente negativo”, l’altro come “completamente positivo”;
4. fenomeno del pensatore indipendente: la determinazione del bambino ad affermare di saper ragionare senza influenze esterne;
5. sostegno al genitore alienante: il bambino prende posizione sempre e soltanto a favore del genitore “alienante”;
6. assenza di senso di colpa verso il genitore alienato: tutte le espressioni di rifiuto, di disprezzo, di accusa verso il genitore rifiutato o “alienato” sono secondo il bambino una sorta di “giusta punizione” e sono meritate;
7. presenza di sceneggiature prese a prestito: ciò che il bambino riferisce su quello che gli ha fatto il genitore rifiutato;
8. animosità verso la famiglia e gli amici del genitore alienato.

Il rimedio a tale “sindrome” consisterebbe nel “resettare” il bambino dalla manipolazione subita con l’allontanamento dal genitore alienante; ciò significa che, in caso di perdurante rifiuto nei confronti dell’altro genitore, il bambino dev’essere collocato provvisoriamente in una comunità etero-familiare. Tale rimedio è stato definito da più parti “terapia della minaccia“.

La Corte EDU ha più volte affermato che godere della reciproca presenza, di quotidianità o, comunque, di continuità ed assiduità di relazione, costituisce per figli e genitori un aspetto importante del diritto alla vita familiare alla luce dell’art. 8 della Convenzione.

l’allontanamento di un minore dalla sua famiglia, la sua istituzionalizzazione e ogni misura limitativa, sospensiva o ablativa della potestà genitoriale che gravino in modo decisivo su tale aspetto fondamentale, debbano essere assunti con estrema prudenza ed esatta ponderazione degli interessi pubblici e privati in gioco.

In caso contrario, si attuerebbe, infatti, un’indebita ingerenza della pubblica autorità nella vita privata e familiare che è obiettivo primario dell’art. 8 della Convenzione evitare.

Lo Stato non ha però solo l’obbligo di astensione da tali indebite ingerenze: sussistono per le pubbliche autorità anche obblighi positivi, tra i quali certamente quello di implementare e di proteggere i rapporti e le relazioni tra i componenti della famiglia e di renderli effettivi.

 Anche l’affidamento del minore alla pubblica autorità deve avere come obiettivo finale la ricostituzione dell’unione familiare e questo obiettivo deve effettuarsi attraverso un equo bilanciamento tra l’interesse del minore a rimanere lontano dai genitori e quello dei genitori a vedersi riuniti ai propri figli, posto che l’interesse del minore deve sempre prevalere su quello dei genitori. Poiché criterio determinante è l’interesse del minore, la decisione di prolungare l’affidamento al servizio sociale può non essere in contrasto con lo stesso e, quindi, non violare l’articolo 8 della Convenzione. Perché ciò si verifichi, debbono però sussistere circostanze eccezionali o esigenze di particolare importanza[1].


[1] CEDU, sent. 8 giugno 2010 def. 8 settembre 2010, ric. n. 67/04 Dolhamre c. Svezia, la Corte EDU ha considerato come i genitori non avessero anteposto l’interesse dei figli minori al loro, dal momento che avevano rifiutato i programmi del Servizio Sociale volti alla ricostituzione dell’unione familiare, attraverso incontri in modalità protetta e, nel corso dei contatti anche telefonici coi due figli più piccoli, avevano provocato in loro gravi traumi. Pertanto, la Corte EDU ha ritenuto che prolungare l’affidamento alla pubblica autorità e limitare visite e contatti fossero misure giustificate e aderenti all’interesse del minore e non sussistesse violazione dell’art. 8.