Segnalo le modifiche che, secondo me, dovrebbero essere apportate per rendere più appetibile ed operativo il Superbonus 110%, correggendo, peraltro, alcune restrittive interpretazioni fatte dall’Agenzia delle Entrate, con la Circolare n. 24/E dell’08/08/2020:
• far rientrare tra le spese detraibili il compenso degli amministratori di condominio, così come riconosciuto dalla Direzione Regionale del Lazio con l’interpello n. 913-471/2020;
• consentire subito l’utilizzo del credito e la relativa compensazione, senza dover aspettare l’anno successivo a quello di sostenimento delle spese, contrariamente a quanto scritto nel Provvedimento dell’Agenzia delle Entrate (Prot. n. 283847/2020 dell’08/08/2020 – pag. 8 – punto n. 5.1);
• escludere l’obbligo dello stesso lasso di tempo dei trainanti per i lavori trainati, quando l’art. 119, comma 2, D.L. n. 34/2020 richiede soltanto la condizione che i trainati siano “eseguiti congiuntamente”, senza alcun riferimento temporale;
• riconoscere il Superbonus anche alle comunioni ed alle comproprietà di un unico edificio, così come in tema di Ecobonus è stato previsto con precedenti risposte dell’Agenzia delle Entrate (Risposte n. 137 del 22/05/2020; n. 139 del 22/05/2020; n. 293 del 22/07/2019);
• accordare gli interventi trainanti anche su singole unità immobiliari e relative pertinenze all’interno di edifici in condominio;
• chiarire che per il concetto esatto di edificio si deve fare riferimento soltanto al D.Lgs. n. 192/2005 e non al D.P.C.M. del 20/10/2016 (voce 32- allegato A, che non deve mai essere citato nei decreti ministeriali);
• concedere l’installazione e non soltanto la sostituzione degli impianti di climatizzazione invernale esistenti;
• escludere il riferimento alla “destinazione residenziale” degli edifici, perché l’art. 119 cit. non fa alcuna distinzione, in quanto il termine residenziale è contenuto solo per gli IACP (oggi ARCA);
• rendere più snella la procedura delle assemblee condominiali, anche per quanto riguarda il quorum costitutivo; consentire anche le riunioni assembleari online;
• estromettere il riferimento agli otto anni di tempo per rettificare gli indebiti utilizzi in compensazione dei crediti d’imposta;
• ridurre sensibilmente e semplificare la valanga di carte per il superbonus 110%;
• mettere in chiaro bene come devono comportarsi le multiproprietà, per evitare futuri contenziosi tributari;
• prorogare il Superbonus al 31 dicembre 2024
spiegare che:
•tutti i termini per le comunicazioni sono ordinatori e non perentori;
• la mancanza anche di un solo dei documenti richiesti o una qualsiasi formale irregolarità non fa mai decadere il diritto alla detrazione con l’avvio di un’azione di recupero da parte dell’Agenzia delle Entrate;
• si deve fare riferimento soltanto all’APE convenzionale nazionale (D.Lgs. n. 192/2005), senza tenere conto delle varie APE regionali determinate in modo autonomo;
• per le varie liti tributarie sono competenti soltanto le Commissioni Tributarie (Decreto Legislativo n. 546/92);
In conclusione:
l’agevolazione del 110% è forse la norma più efficace per creare nuove opportunità di lavoro, tenuto conto del notevole indotto che crea l’edilizia. L’auspicio è che l’Agenzia delle Entrate non penalizzi queste opportunità e riveda le sue restrittive interpretazioni.
Lunedì 27 luglio 2020 si festeggiano i 20 anni dello Statuto dei Diritti del Contribuente approvato con legge n. 212 del 27 luglio 2000.
Si tratta di una legge ordinaria, più volte derogata (basta leggere i tre decreti-legge emanati durante il periodo COVID-19), tanto è vero che da più parti si auspica, giustamente, una costituzionalizzazione dello Statuto, soprattuttoin vista della prossima generale riforma fiscale.
In ogni caso, un principio importante previsto dallo Statuto è il diritto del contribuente al contraddittorio, disciplinato dall’art. 12, comma 7, della legge n. 212 cit..
Dopo vari orientamenti giurisprudenziali, finalmente, la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con la sentenza n. 18184 del 29/07/2013, ha stabilito il seguente importante principio:
«In tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l’art. 12, comma 7, della legge 27 luglio 2000, n. 212 deve essere interpretato nel senso che l’inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento, termine decorrente dal rilascio al contribuente, nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni, determina di per sé, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, l’illegittimità dell’atto impositivo emesso “ante tempus”, poiché detto termine è posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, il quale costituisce primaria espressione dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente ed è diretto al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva.
Il vizio invalidante non consiste nella mera omessa enunciazione nell’atto dei motivi di urgenza che ne hanno determinato l’emissione anticipata, bensì nell’effettiva assenza di detto requisito (esonerativo dall’osservanza del termine), la cui ricorrenza, nella concreta fattispecie e all’epoca di tale emissione, deve essere provata dall’ufficio.».
Peraltro, la Corte di Cassazione ha avuto altresì occasione di chiarire (Cass., 30/10/2018, n. 27623) che la sanzione della illegittimità dell’avviso per il mancato rispetto del termine dilatorio dei sessanta giorni stabilito a presidio del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, espressione dei principi di collaborazione e di buona fede, non presuppone che il contribuente dimostri che il minor termine gli ha precluso di predisporre una adeguata e specifica linea difensiva, senza che tale interpretazione contrasti con il diritto comunitario, in quanto il maggior grado di tutela previsto a livello interno per i tributi non armonizzati dall’art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000, per come interpretato dal diritto vivente della Corte di Cassazione, si muove in armonia piena con il principio di massimizzazione delle tutele, che consente ad un singolo ordinamento di apprestare livelli di protezione di un diritto fondamentale, quale è sicuramente quello al contraddittorio, più ampi rispetto a quelli garantiti dal sistema eurounitario per i tributi non armonizzati.
Tanto premesso, sugli effetti della violazione del termine dilatorio di cui all’ art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000, è opportuno precisare, per quanto qui interessa, che esso è ritenuto dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione applicabile, oltre che all’ipotesi di verifica, anche a quella di accesso, concludendosi anche tale accertamento con la sottoscrizione e consegna del processo verbale delle operazioni svolte (Cass. 05/02/2014, n. 2593) ed a qualsiasi atto di accertamento o controllo con accesso o ispezione nei locali dell’impresa, ivi compresi gli atti di accesso istantanei finalizzati all’acquisizione di documentazione, sia perché la citata disposizione non prevede alcuna distinzione in ordine alla durata dell’accesso, in esito al quale comunque deve essere redatto un verbale di chiusura delle operazioni, sia perché, anche in caso di accesso breve, si verifica l’intromissione autoritativa dell’amministrazione nei luoghi di pertinenza del contribuente, che deve essere controbilanciata dalle garanzie di cui al citato articolo 12 (Cass. 21/11/2018, n. 30026; Cass. 09/07/2014, n. 15624).
Il vizio invalidante non consiste nella mera omessa enunciazione nell’atto dei motivi di urgenza che ne hanno determinato l’emissione anticipata, bensì nell’effettiva assenza di detto requisito (esonerativo dall’osservanza del termine), la cui ricorrenza, nella concreta fattispecie e all’epoca di tale emissione, deve essere provata dall’ufficio.
Va anche considerato che, in materia di garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, la scadenza del termine di decadenza dell’azione accertativa non rappresenta una ragione di urgenza tutelabile ai fini dell’inosservanza del termine dilatorio di cui all’art. 12, comma 7, della L. n. 212 del 2000 (Cass. Civ., 10 aprile 2018, n. 8749), ben potendo, invece, l’amministrazione offrire come giustificazione dell’urgenza la prova che l’esercizio nell’imminenza della scadenza del termine sia dipeso da fattori ad essa non imputabili che hanno inciso sull’attività accertativa fino al punto da rendere comunque necessaria l’attivazione dell’accertamento, a pena di vedere dissolta la finalità di recupero delle imposte ritenute non versate dal contribuente.
Non è, quindi, l’imminenza della scadenza del termine ad integrare l’urgenza, ma, semmai, l’insorgenza di fatti concreti e precisi che possono rendere giustificata l’attivazione dell’ufficio quando non può più essere rispettato il termine dilatorio a pena di vedere decaduta l’amministrazione (per esempio in caso di reiterate violazioni delle leggi tributarie aventi rilevanza penale oppure per la partecipazione del contribuente ad una frode fiscale come da Cass. Civ., Sez. 6-5, 2 luglio 2018, n. 17211).
Né la sanzione della illegittimità dell’avviso per il mancato rispetto del termine dilatorio dei sessanta giorni può essere irrogata solo qualora il contribuente dimostri che il minor termine gli ha precluso di predisporre una adeguata e specifica linea difensiva.
Tale termine deve essere, infatti, rispettato a prescindere dalla allegazione da parte del contribuente di avere subìto uno specifico nocumento alla propria difesa, non avendo potuto produrre nel ristretto lasso temporale concesso, osservazioni, memorie e documenti.
Il termine è, infatti, stabilito a presidio del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, espressione dei principi di collaborazione e di buona fede (Cassazione, Sez. Tributaria, ordinanze n. 27623/2018 e 16971/2019).
L’art. 12, comma 7, della legge 212/2000, dunque, non prevede, per le verifiche svolte nei locali del contribuente, la c.d. prova di resistenza al fine di rendere operante l’invalidità dell’atto emesso senza il rispetto del termine dilatorio di sessanta giorni.
In materia tributaria si ricorre spesso ai decreti-legge, come avvenuto durante il periodo di pandemia da COVID-19 con il:
decreto legge n. 18 del 17/03/2020, convertito con modifiche dalla Legge n. 27 del 24 aprile 2020 (Decreto CURA ITALIA di 127 articoli);
decreto legge n. 23 dell’08/04/2020, convertito con modifiche dalla Legge n. 40 del 05 giugno 2020 (Decreto LIQUIDITA’ di 44 articoli);
decreto-legge n. 34 del 19/05/2020, convertito con modifiche dalla Legge di conversione approvata con la fiducia dal Senato giovedì 16/07/2020 (Decreto RILANCIO di 266 articoli e 971 pagine; servono 155 decreti attuativi).
A questo punto, è opportuno controllare se il decreto-legge ha scrupolosamente rispettato le condizioni previste dalla legge, soprattutto alla luce dei principi giuridici dettati dalla Corte Costituzionale.
L’art. 77, secondo comma, della Costituzione stabilisce che:
“Quando, in casi straordinari di necessità e d’urgenza, il Governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni”.
La Corte Costituzionale, con le sentenze che commenteremo, ha stabilito che il decreto-legge, per essere legittimo, deve rispettare le tassative condizioni della necessità ed urgenza e della omogeneità degli argomenti trattati.
Inoltre, la Corte Costituzionale, mutando un precedente orientamento, con le sentenze n. 116 del 2006, n. 171 del 2007, n. 128 del 2008 e n. 355 del 2010, ha precisato che la legge di conversione non ha efficacia sanante di eventuali vizi del decreto-legge e che le disposizioni della legge di conversione in quanto tali non possono essere valutate, sotto il profilo della legittimità costituzionale, autonomamente da quelle del decreto stesso.
Inoltre, seguendo il più recente orientamento della Corte Costituzionale, va ulteriormente precisato che la valutazione in termini di necessità e di urgenza deve essere indirettamente effettuata per quelle norme, aggiunte dalla legge di conversione del decreto-legge, che non siano del tutto estranee rispetto al contenuto della decretazione d’urgenza; mentre tale valutazione non è richiesta quando la norma aggiunta sia eterogenea rispetto a tale contenuto (sentenza n. 355/2010 della Corte Costituzionale).
Infine, l’art. 77, terzo comma, della Costituzione prevede che:
“I decreti perdono efficacia sin dall’inizio se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione. Le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti”.
Ciò, per esempio, si è verificato con l’art. 1, comma 2, della legge n. 27 del 24/04/2020, che ha stabilito che:
“I decreti-legge 2 marzo 2020, n. 9, 8 marzo 2020, n. 11, e 9 marzo 2020, n. 14, sono abrogati. Restano validi gli atti ed i provvedimenti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base dei medesimi decreti-legge 2 marzo 2020, n. 9, 8 marzo 2020, n. 11, e 9 marzo 2020, n. 14”.
A) Presupposti di necessità ed urgenza.
La Corte Costituzionale, con giurisprudenza costante sin dal 1995 (sentenza n. 29 del 1995), ha affermato che l’esistenza dei requisiti della straordinarietà del caso di necessità e d’urgenza può essere oggetto di controllo di costituzionalità.
La straordinarietà del caso, tale da imporre la necessità di dettare con urgenza una disciplina in proposito, può essere dovuta ad una pluralità di situazioni (come, per esempio, eventi naturali, comportamenti umani ed anche atti e provvedimenti di pubblici poteri) in relazione alle quali non sono configurabili rigidi parametri, valevoli per ogni ipotesi (sentenza n. 171 del 2007 della Corte Costituzionale).
La Corte Costituzionale ha sempre ritenuto che il difetto dei presupposti di legittimità della decretazione d’urgenza, in sede di scrutinio di costituzionalità, deve risultare evidente, come per esempio in presenza dello specifico fenomeno della reiterazione dei decreti-legge non convertiti (sentenza n. 360 del 1996 della Corte Costituzionale).
Inoltre, come scritto in precedenza, la legge di conversione non può mai sanare i vizi del decreto-legge, altrimenti si attribuirebbe in concreto al legislatore ordinario il potere di alterare il riparto costituzionale delle competenze del Parlamento e del Governo quanto alla produzione delle fonti primarie (sentenza n. 171 del 2007, già citata e sentenza n. 128 del 2008).
Infatti, il carattere peculiare della legge di conversione comporta anche che il Governo, stabilendo il contenuto del decreto-legge, sia nelle condizioni di circoscrivere, sia pure indirettamente, i confini del potere emendativo parlamentare.
Pertanto, gli equilibri che la Costituzione instaura tra Governo e Parlamento impongono di ribadire che la possibilità, per il Governo, di ricorrere al decreto-legge deve essere realmente limitata ai soli casi straordinari di necessità ed urgenza di cui al citato art. 77, secondo comma, Cost. (sentenza n. 154 del 2015 della Corte Costituzionale).
B) Principio di omogeneità.
La Corte Costituzionale, tra gli indici alla stregua dei quali verificare se risulti evidente o meno la carenza del requisito della straordinarietà del caso di necessità ed urgenza di provvedere, ha individuato la “evidente estraneità” della norma censurata rispetto alla materia disciplinata da altre disposizioni del decreto-legge in cui è inserita (sentenze n. 171 del 2007 e n. 128 del 2008, già citate; sentenza n. 22 del 2012).
La giurisprudenza sopra richiamata collega il riconoscimento dell’esistenza dei presupposti fattuali, di cui all’art. 77, secondo comma, Cost., ad una intrinseca coerenza delle norme contenute in un decreto-legge, o dal punto di vista oggettivo e materiale, o dal punto di vista funzionale e finalistico.
La urgente necessità del provvedere può riguardare una pluralità di norme accomunate dalla natura unitaria delle fattispecie disciplinate, ovvero anche dall’intento di fronteggiare situazioni straordinarie complesse e variegate, che richiedono interventi oggettivamente eterogenei, afferenti quindi a materie diverse, ma indirizzati all’unico scopo di approntare rimedi urgenti a situazioni straordinarie venutesi a determinare.
Da quanto detto si trae la conclusione che la semplice immissione di una disposizione nel corpo di un decreto-legge oggettivamente o teleologicamente unitario non vale a trasmettere, per ciò solo, alla stessa il carattere di urgenza proprio delle altre disposizioni, legate tra loro dalla comunanza di oggetto o di finalità.
L’inserimento di norme eterogenee all’oggetto o alla finalità del decreto spezza il legame logico-giuridico tra la valutazione fatta dal Governo dell’urgenza del provvedere ed “i provvedimenti provvisori con forza di legge”, di cui alla norma costituzionale citata.
Il presupposto del “caso” straordinario di necessità e urgenza inerisce sempre e soltanto al provvedimento inteso come un tutto unitario, atto normativo fornito di intrinseca coerenza, anche se articolato e differenziato al suo interno.
L’art. 15, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri) – là dove prescrive che il contenuto del decreto-legge “deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo” – pur non avendo, in sé e per sé, rango costituzionale, e non potendo quindi assurgere a parametro di legittimità in un giudizio davanti alla Corte Costituzionale, costituisce esplicitazione della ratio implicita nel secondo comma dell’art. 77 Cost., il quale impone il collegamento dell’intero decreto-legge al caso straordinario di necessità e urgenza, che ha indotto il Governo ad avvalersi dell’eccezionale potere di esercitare la funzione legislativa senza previa delegazione da parte del Parlamento.
I cosiddetti decreti “milleproroghe“, che, con cadenza ormai annuale, soprattutto in materia tributaria, vengono convertiti in legge dalle Camere, sebbene attengano ad ambiti materiali diversi ed eterogenei, devono obbedire alla ratio unitaria di intervenire con urgenza sulla scadenza di termini il cui decorso sarebbe dannoso per interessi ritenuti rilevanti dal Governo e dal Parlamento, o di incidere su situazioni esistenti – pur attinenti ad oggetti e materie diversi – che richiedono interventi regolatori di natura temporale.
Del tutto estranea a tali interventi è la disciplina “a regime” di materie o settori di materie, rispetto alle quali non può valere il medesimo presupposto della necessità temporale e che possono quindi essere oggetto del normale esercizio del potere di iniziativa legislativa, di cui all’art. 71 Cost.
Ove le discipline estranee alla ratio unitaria del decreto presentassero, secondo il giudizio politico del Governo, profili autonomi di necessità e urgenza, le stesse ben potrebbero essere contenute in atti normativi urgenti del potere esecutivo distinti e separati.
Risulta, invece, in contrasto con l’art. 77 Cost. la commistione e la sovrapposizione, nello stesso atto normativo, di oggetti e finalità eterogenei, in ragione di presupposti, a loro volta, eterogenei.
La necessaria omogeneità del decreto-legge, la cui interna coerenza va valutata in relazione all’apprezzamento politico, operato dal Governo e controllato dal Parlamento, del singolo caso straordinario di necessità e urgenza, deve essere osservata dalla legge di conversione.
Il principio della sostanziale omogeneità delle norme contenute nella legge di conversione di un decreto-legge è pienamente recepito dall’art. 96-bis, comma 7, del regolamento della Camera dei deputati, che dispone: “Il Presidente dichiara inammissibili gli emendamenti e gli articoli aggiuntivi che non siano strettamente attinenti alla materia del decreto-legge”.
Sulla medesima linea si colloca la lettera inviata il 7 marzo 2011 dal Presidente del Senato ai Presidenti delle Commissioni parlamentari, nonché, per conoscenza, al Ministro per i rapporti con il Parlamento, in cui si esprime l’indirizzo “di interpretare in modo particolarmente rigoroso, in sede di conversione di un decreto-legge, la norma dell’art. 97, comma 1, del regolamento, sulla improponibilità di emendamenti estranei all’oggetto della discussione”, ricordando in proposito il parere espresso dalla Giunta per il regolamento l’8 novembre 1984, richiamato, a sua volta, dalla circolare sull’istruttoria legislativa nelle Commissioni del 10 gennaio 1997.
Peraltro, il suddetto principio della sostanziale omogeneità delle norme contenute nella legge di conversione di un decreto-legge è stato richiamato nel messaggio del 29 marzo 2002, con il quale il Presidente della Repubblica, ai sensi dell’art. 74 Cost., ha rinviato alle Camere il disegno di legge di conversione del decreto-legge 25 gennaio 2002, n. 4 (Disposizioni urgenti finalizzate a superare lo stato di crisi per il settore zootecnico, per la pesca e per l’agricoltura), e ribadito nella lettera del 22 febbraio 2011, inviata dal Capo dello Stato ai Presidenti delle Camere ed al Presidente del Consiglio dei ministri nel corso del procedimento di conversione del decreto-legge.
Si deve ritenere che l’esclusione della possibilità di inserire nella legge di conversione di un decreto-legge emendamenti del tutto estranei all’oggetto e alle finalità del testo originario non risponda soltanto ad esigenze di buona tecnica normativa, ma sia imposta dallo stesso art. 77, secondo comma, Cost., che istituisce un nesso di interrelazione funzionale tra decreto-legge, formato dal Governo ed emanato dal Presidente della Repubblica, e legge di conversione, caratterizzata da un procedimento di approvazione peculiare rispetto a quello ordinario.
Innanzitutto, il disegno di legge di conversione del decreto-legge appartiene alla competenza riservata del Governo, che deve presentarlo alle Camere “il giorno stesso” della emanazione dell’atto normativo urgente (evitando la sibillina formula “salvo intese”).
Anche i tempi del procedimento sono particolarmente rapidi, giacché le Camere, anche se sciolte, sono convocate appositamente e si riuniscono entro cinque giorni.
Il Parlamento è chiamato a convertire, o non, in legge un atto, unitariamente considerato, contenente disposizioni giudicate urgenti dal Governo per la natura stessa delle fattispecie regolate o per la finalità che si intende perseguire.
In definitiva, l’oggetto del decreto-legge tende a coincidere con quello della legge di conversione.
Non si può tuttavia escludere che le Camere possano, nell’esercizio della propria ordinaria potestà legislativa, apportare emendamenti al testo del decreto-legge, che valgano a modificare la disciplina normativa in esso contenuta, a seguito di valutazioni parlamentari difformi nel merito della disciplina, rispetto agli stessi oggetti o in vista delle medesime finalità.
Il testo può anche essere emendato per esigenze meramente tecniche o formali.
Ciò che esorbita invece dalla sequenza tipica profilata dall’art. 77, secondo comma, Cost., è l’alterazione dell’omogeneità di fondo della normativa urgente, quale risulta dal testo originario, ove questo, a sua volta, possieda tale caratteristica.
In definitiva, l’innesto nell’iter di conversione dell’ordinaria funzione legislativa può certamente essere effettuato, per ragioni di economia procedimentale, a patto di non spezzare il legame essenziale tra decretazione d’urgenza e potere di conversione.
Se tale legame viene interrotto, la violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost., non deriva dalla mancanza dei presupposti di necessità e urgenza per le norme eterogenee aggiunte, che, proprio per essere estranee e inserite successivamente, non possono collegarsi a tali condizioni preliminari (sentenza n. 355 del 2010), ma per l’uso improprio, da parte del Parlamento, di un potere che la Costituzione gli attribuisce, con speciali modalità di procedura, allo scopo tipico di convertire, o non, in legge un decreto-legge.
La Costituzione italiana disciplina, nelle loro grandi linee, i diversi procedimenti legislativi e pone limiti e regole, da specificarsi nei regolamenti parlamentari.
Il rispetto delle norme costituzionali, che dettano tali limiti e regole, è condizione di legittimità costituzionale degli atti approvati, come la Corte Costituzionale ha già affermato a partire dalla sentenza n. 9 del 1959, nella quale ha stabilito la propria “competenza di controllare se il processo formativo di una legge si è compiuto in conformità alle norme con le quali la Costituzione direttamente regola tale procedimento”.
In sostanza, la valutazione è sempre rimessa alla discrezionalità delle Camere e può essere sindacata dinanzi la Corte Costituzionale soltanto se essa sia affetta da manifesta irragionevolezza o arbitrarietà ovvero per mancanza evidente dei suesposti presupposti (sentenza n. 116 del 2006 della Corte Costituzionale).
Sul principio di omogeneità, quale nesso funzionale tra le disposizioni del decreto-legge e quelle introdotte nella legge di conversione, si citano le seguenti ulteriori pronunce della Corte Costituzionale:
– sentenza n. 128 del 30/04/2008;
– ordinanza n. 34 del 06/03/2013;
– sentenza n. 32 del 25/02/2014;
– sentenza n. 251 del 07/11/2014;
– sentenza n. 154 del 15/07/2015;
– sentenza n. 181 del 16/07/2019;
– sentenza n. 226 del 29/10/2019;
– sentenza n. 247 del 04/12/2019;
– ordinanza n. 274 del 18/12/2019;
– ordinanza n. 275 del 18/12/2019.
Così, per esempio, la Corte Costituzionale, nei seguenti casi, ha dichiarato l’illegittimità dei decreti legge per non aver rispettato il requisito dell’omogeneità, con l’introduzione di norme totalmente “estranee” o addirittura “intruse”:
decreto-legge n. 272/2005, perché in tema di Polizia di Stato si sono inserite norme sulla tossicodipendenza (sentenza n. 32 del 2014 cit.);
decreto-legge n. 248/2007, perché un conto è la proroga urgente dei termini e ben altro è la decisione circa l’ampiezza delle competenze di una categoria professionale (sentenza n. 154 del 2015 cit.);
decreto-legge n. 119/2018, perché in una materia tributaria non si possono inserire norme in materia sanitaria (sentenza n. 247/2019 cit.);
decreto-legge n. 225/2010, perché, sempre in materia tributaria, non si possono inserire norme relative al Servizio Nazionale della Protezione Civile (sentenza n. 22 del 2012 cit.);
decreto-legge n. 262/2006, perché, sempre in materia tributaria e finanziaria, nessun collegamento è ravvisabile tra tali premesse e la previsione dell’esproprio del Teatro Petruzzelli di Bari (sentenza n. 128 del 2008 cit.).
In definitiva, per rilevare o meno l’illegittimità costituzionale di un decreto-legge, soprattutto nella materia tributaria, bisogna controllare che le disposizioni siano coerenti con quelle originarie, essenzialmente per evitare che il relativo iter procedimentale semplificato dell’art. 77 citato, previsto dai regolamenti parlamentari, possa essere sfruttato perscopiestranei a quelli che giustificano il decreto-legge, a detrimento delle ordinarie dinamiche di confronto parlamentare (sentenze n. 32 del 2014 e n. 22 del 2012 più volte citate).
Infine, secondo me, è opportuno segnalare questo importate ed interessante passo della sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 25506 del 30 novembre 2006:
“Nel caso di specie, poi, non è facile distinguere l’amministrazione finanziaria, parte in causa, dal legislatore, posto che la norma interpretativa è stata approvata con decreto legge del governo, convertito in una legge, la cui approvazione è stata condizionata dal voto di fiducia al governo. Tanto che se fosse stato diverso l’orientamento del Collegio (rispetto alla scelta legislativa), non ci si sarebbe potuto esimere dal valutare la compatibilità della procedura di approvazione dell’art. 36, comma 2, d.l. 223/2006, con il parametro costituzionale di cui all’art. 111 della Costituzione, che presuppone una posizione di parità delle parti nel processo, posto che, nella specie, l’amministrazione finanziaria ha avuto il privilegio di rivestire il doppio ruolo di parte in causa e di legislatore e che, in questa seconda veste, nel corso del giudizio ha dettato al giudice quale dovesse essere, pro domo suo, la corretta interpretazione della norma sub iudice.
L’intervento è apparso inopportuno anche perché la pubblica amministrazione, anche quando è parte in causa, ha sempre l’obbligo di essere e di apparire imparziale, in forza dell’art. 97 Cost.”.
In ogni caso, le misure di emergenza non devono diventare la regola.
C) Eccezioni di incostituzionalità degli ultimi decreti legge.
Anche alla luce delle considerazioni giuridiche di cui sopra, oggi, analizzando gli ultimi decreti-legge, si possono sollevare eccezioni di incostituzionalità, ribadendo il principio, già in precedenza espresso, che è del tutto estranea agli interventi con decreti-legge la disciplina “a regime” di materie o settori di materie rispetto alle quali non può valere il medesimo presupposto della necessità temporale e che possono, quindi, essere oggetto del normale esercizio del potere di iniziativa legislativa ordinaria di cui all’art. 71 Cost. (sentenza n. 22 del 2012 della Corte Costituzionale, più volte citata).
Il suddetto articolo interviene in materia di processo tributario con una disposizione “a regime”, come tale incostituzionale, obbligando le parti processuali, che si sono costituite con modalità analogiche, a notificare e depositare gli atti successivi, nonché i provvedimenti giurisdizionali, esclusivamente con le modalità telematiche stabilite dal decreto del Ministro dell’economia e delle finanze del 23/12/2013, n. 163, e dai successivi decreti attuativi.
Anche il suddetto articolo interviene in materia di processo tributario,con una disposizione “a regime”, come tale incostituzionale, stabilendo che la sanzione in tema di contributo unificato, anche attraverso la comunicazione contenuta nell’invito al pagamento, è notificata a cura dell’ufficio e anche tramite PEC nel domicilio eletto o, nel caso di mancata elezione del domicilio, mediante deposito presso l’ufficio.
Art. 135, comma 2, decreto-legge n. 34 del 19/05/2020, già citato.
Il suddetto articolo interviene in materia di giustizia tributaria con una disposizione “a regime”, come tale incostituzionale, stabilendo il collegamento audiovisivo tra l’aula di udienza ed il luogo del collegamento da remoto delle parti processuali, peraltro rinviando ad uno o più provvedimenti del Direttore Generale delle Finanze, con ciò dimostrando che manca la necessità e l’urgenza.
Art. 157, comma 1, decreto-legge n. 34 del 19/05/2020, già citato.
Con il suddetto articolo, il Governo, derogando all’art. 3, ultimo comma, della legge n. 212 del 27/07/2000 (c.d. Statuto dei Diritti del Contribuente), per gli avvisi di accertamento, di contestazione, di irrogazione delle sanzioni, di recupero dei crediti d’imposta, di liquidazione e di rettifica e liquidazione, ha stabilito l’emissione degli stessi atti entro il 31/12/2020 e la notifica nel periodo compreso tra il 01 gennaio ed il 31 dicembre 2021.
In tal modo, il Governo prorogando di un anno i termini di decadenza per gli accertamenti relativi all’anno 2015 (anno 2014 per omesse dichiarazioni) ha dimostrato la mancanza della necessità ed urgenza.
Inoltre, mentre al contribuente sono stati concessi soltanto 64 giorni di sospensione per gli atti processuali (art. 83, comma 2, decreto legge n. 18 cit.), proprio per la necessità ed urgenza di intervenire, agli uffici fiscali, invece, la cui attività amministrativa è stata sospesa soltanto per 85 giorni (art. 67, comma 1, decreto-legge n. 18 cit.), è stato prorogato di un anno il termine di decadenza (creando una disparità di trattamento incostituzionale, ai sensi per gli effetti dell’art. 3 della Costituzione).
Oltretutto, l’art. 67, comma 4, cit. non ha ritenuto applicabile l’art. 12, comma 2, D.Lgs. n. 159 del 24/09/2015, ma soltanto il comma 1 del citato articolo che prevede una sospensione corrispondente allo stesso periodo di tempo concesso; pertanto, agli uffici fiscali doveva essere concesso soltanto una proroga della decadenza di 85 giorni e non di un anno per la notifica degli avvisi di accertamento, proprio in riferimento al succitato art. 12, comma 1.
Senza considerare, infine, che, ancora una volta, è stato derogato ed ignorato lo Statuto dei Diritti del Contribuente, soprattutto oggi in occasione dei 20 anni dalla sua approvazione (27 luglio 2000).
In questo particolare e difficile momento storico ed economico, in cui la pandemia, oltre ai problemi sanitari, sta producendo una grave crisi, con il rischio di chiusure commerciali ed imprenditoriali, nonché professionali, con inevitabili conseguenze sul piano occupazionale, il Governo, con l’ultimo Decreto-Legge Rilancio, ha pensato bene di integrare le sostanziose risorse economiche spettanti alle Agenzia delle Entrate ed alle Agenzie delle Entrate Riscossione (ADER) per favorire il rafforzamento delle attività di promozione dell’adempimento spontaneo degli obblighi fiscali da parte dei contribuenti nonché per l’equilibrio gestionale del servizio nazionale di riscossione (artt. 139 e 155 D.L. n. 34 del 19 maggio 2020).
Prima di chiarire quanto sopra, è opportuno, secondo me, precisare i rapporti giuridici ed economici che intercorrono tra il Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF), le Agenzie fiscali e l’ADER, sulla base della seguente normativa:
il MEF e ciascuna Agenzia, sulla base del documento di indirizzo, stipulano una convenzione triennale, con adeguamento annuale per ciascun esercizio finanziario, con la quale vengono fissati soprattutto i servizi dovuti e gli obiettivi da raggiungere (art. 59, comma 2, D.Lgs. n. 300 del 30/07/1999);
all’esito positivo delle verifiche effettuate dal MEF, finalizzate ad accertare il maggior gettito incassato ed i risparmi di spesa conseguiti al disconoscimento di rimborsi o di crediti d’imposta, peraltro già stanziati, sono previste integrazioni economiche alle Agenzie fiscali, con apposito provvedimento (art. 1, comma 7, D.Lgs. n. 157 del 24/09/2015);
per il potenziamento dell’Amministrazione finanziaria e delle attività di contrasto dell’evasione fiscale, la misura dei compensi incentivanti è stabilita nel 2% (due per cento)e si applica su tutte le somme riscosse in via definitiva a seguito dell’attività di accertamento tributario (art. 12, comma 1, D.L. n. 79 del 28/03/1997, convertito dalla Legge n. 140 del 28/05/1997, c.d. Premio straordinario, già previsto dall’art. 4, comma 2, D.L. n. 564/1994, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 656 del 30/11/1994);
gli oneri di finanziamento del servizio nazionale della riscossione sono disciplinati e previsti dall’art. 17 D.Lgs. n. 112 del 13/04/1999, anche a seguito della soppressione di Equitalia ed istituzione dall’01 luglio 2017 dell’ADER ente pubblico economico strumentale (art. 1, commi 2 e 3, D.L. n. 193/2016, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 225 dell’01/12/2016).
Sulla base della succitata normativa, ultimamente il Governo, con gli artt. 139 e 155 D.L. n. 34/2020, ha stabilito e stanziato, a decorrere dal 2020 una integrazione economica, in deroga a quanto previsto sulle modalità di riscontro del gettito incassato, per i seguenti motivi:
– favorire il rafforzamento delle attività di promozione dell’adempimento spontaneo degli obblighi fiscali da parte dei contribuenti;
– ottimizzare i servizi di assistenza e consulenza offerti ai contribuenti, favorendone, ove possibile, la fruizione online;
– migliorare i tempi di erogazione dei rimborsi fiscali ai cittadini ed alle imprese (! ! !);
il premio straordinario del 2% (vedi n. 3) per l’attività di promozione dell’adempimento spontaneo degli obblighi fiscali;
una quota non superiore a 300 milioni di euro solo per l’anno 2020, come integrazione del contributo a favore dell’ADER (art. 155, comma 1, D.L. n. 34 cit.).
A questo punto, il comune cittadino-contribuente si pone la legittima domanda: il Governo, invece di destinare ingenti risorse finanziarie alle Agenzie fiscali, perché non provvede subito ad una seria, organica e strutturale riforma fiscale?
Non bisogna altresì dimenticare che, sino ad oggi, più della metà delle imprese che hanno inoltrato domanda di accesso ai prestiti bancari previsti dai decreti legge “Cura Italia” e “Liquidità” è ancora in attesa di finanziamento, perché i crediti garantiti dallo Stato vengono erogati col contagocce (studio della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro tra il 12 e il 17 giugno 2020), per cui le ingenti somme destinate alle Agenzie fiscali potrebbero invece risolvere molti problemi finanziari di oggi.
Infatti, la “promozione dell’adempimento spontaneo degli obblighi fiscali da parte dei contribuenti”, oggi, è difficile da realizzare quando:
– la pressione fiscale è oltre il 50% del reddito prodotto (e si arriva quasi al 70% con i vari contributi);
– la normativa fiscale è oscura, complicata e contraddittoria; infatti, da una indagine condotta dalla Fondazione Nazionale dei Dottori Commercialisti, dal 2008 al 2017 le circolari dell’Agenzia sono state ben 490, le risoluzioni 1768, i provvedimenti del Direttore della stessa Agenzia delle Entrate ben 2023 (il tutto corrispondente a quasi 50.000 pagine), senza citare i numerosissimi decreti attuativi che, solo per la Legge di Bilancio, sono ogni anno circa 200 ! ! !;
– su 266 articoli del Decreto Rilancio ben 75 richiedono provvedimenti attuativi, con il rischio della decadenza; oltretutto, l’81% di tutte le norme anti COVID è fermo perché sino ad oggi mancano i provvedimenti attuativi;
– la giustizia tributaria è inadeguata perché gestita ed organizzata dal MEF, che è una delle parti in causa con giudici a tempo parziale, non professionali e pagati dal MEF zero euro per le sospensive e 15 euro nette a sentenza depositata, come più volte scritto nei miei articoli pubblicati sul mio sito (www.studiotributariovillani.it).
Invece, se si vuole realizzare seriamente e concretamente la c.d. “TAX COMPILANCE”, incrementando la fiducia dei cittadini-contribuenti verso le Istituzioni ed invogliandoli ad adempiere agli obblighi fiscali, senza eccessive complicazioni, bisogna mettere mano subito ad una seria e strutturale riforma fiscale, dopo l’ultima di cinquant’anni fa, prevedendo:
una sensibile riduzione della pressione fiscale con la “FLAT TAX” o con altre modifiche legislative;
la redazione di un codice tributario unico con norme semplici e ben coordinate;
la riforma della giustizia tributaria, che non deve più dipendere dal MEF, ma dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, per rispettare il requisito della terzietà (art. 111, comma 2 della Costituzione), con giudici vincitori di concorso pubblico, professionali, a tempo pieno e dignitosamente retribuiti, come ho più volte sollecitato (oggi, molti disegni di legge in proposito pendono al Senato ed alla Camera, come previsto dal Piano Colao).
La grave crisi economica e sanitaria che stiamo attraversando rappresenta l’opportunità per realizzare finalmente quanto sopra esposto.
Il Decreto Legge n. 11 dell’08 marzo 2020 (in G.U. n. 60 dello
stesso giorno) all’art. 1 ha disposto il differimento urgente delle udienze e
sospensione dei termini nei procedimenti civili, penali, tributari e militari,
tanto è vero che gli artt. 1, ultimo comma, e 2, ultimo comma, prevedono che le
disposizioni, in quanto compatibili, si applicano ai procedimenti
relativi alle Commissioni Tributarie.
In particolare, gli artt. 1 e 2 del citato Decreto stabiliscono
che:
a
decorrere da lunedì 09 marzo c.a. e sino a domenica 22 marzo c.a sono rinviate
d’ufficio a data successiva al 22 marzo tutte le udienze tributarie, anche di
sospensiva, dei procedimenti pendenti presso tutte le Commissioni Tributarie
(art. 1, comma 1, cit.);
al
fine di evitare assembramenti all’interno dell’ufficio giudiziario e contatti
ravvicinati con le persone, i Capi delle Commissioni Tributarie Provinciali e
Regionali possono (non devono) adottare le misure tassativamente indicate
dall’art. 2, comma 2, D.L. n. 11 cit. ed in particolare possono prevedere il
rinvio delle udienze tributarie a data successiva al 31 maggio 2020 (art. 2,
comma 2, lettera g, D.L. n. 11 cit.);
a
decorrere da lunedì 09 marzo c.a. e sino a domenica22 marzo c.a. sono sospesi i
termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti indicati al comma
1 (art. 1, comma 2, D.L. n. 11 cit.);
in
ogni caso, restano ferme le disposizioni di cui all’art. 10 del Decreto Legge
02 marzo 2020 n. 9 per le misure urgenti in materia di sospensione dei termini
e rinvio delle udienze processuali per i giudizi pendenti presso gli uffici giudiziari
dei circondari dei Tribunali cui appartengono i comuni di cui all’allegato 1 al
Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 01 marzo 2020 (art. 1, comma
3, D.L. n. 11 cit);
infine,
per quanto riguarda il diritto all’equa riparazione di cui all’art. 2 della
Legge n. 89 del 24 marzo 2001, ai fini del computo, non si tiene conto del
periodo decorrente dalla data del provvedimento di rinvio dell’udienza alla
data della nuova udienza, sino al limite massimo di tre mesi successivi al 31
maggio 2020 (art. 2, comma 5, D.L. n. 11 cit.).
Secondo me, il legislatore ha genericamente previsto
l’applicazione delle suddette disposizioni ai procedimenti relativi alle
Commissioni Tributarie, usando però il termine generico “in quanto
compatibili”, lasciando troppo spazio alle interpretazioni da parte dei
giudici tributari.
Pertanto, in sede di conversione del suddetto Decreto Legge,
secondo me, è opportuno apportare le seguenti necessarie ed urgenti modifiche:
innanzitutto
disciplinare con un distinto articolo le disposizioni relative alla giustizia
tributaria, per evitare generiche e contraddittorie interpretazioni, così come
è stato fatto con l’art. 3 per la giustizia amministrativa e con l’art. 4 per la
giustizia contabile; questa è un’ulteriore conferma della necessità di dare
autonomia e dignità alla giustizia tributaria, come prevedono i vari disegni di
legge in discussione presso le Commissioni Riunite in sede redigente Seconda e
Sesta del Senato;
poiché
sono rinviate d’ufficio tutte le udienze, anche quelle cautelari, c’è il
rischio che i contribuenti siano costretti a pagare le iscrizioni provvisorie,
in attesa delle nuove udienze; pertanto, è necessario non bloccare le udienze
di sospensiva e farle fissare nel più breve tempo possibile;
in
attesa di quanto scritto alla precedente lettera b), è opportuno e necessario
che il legislatore disponga con effetto immediato la sospensione del pagamento
di tutte le iscrizioni provvisorie, almeno fino alla data della nuova udienza
di sospensione di cui agli artt. 47 e 52, commi 2, 3, 4, 5 e 6 del Decreto
Legislativo n. 546 del 31 dicembre 1992;
correggere
il secondo comma dell’art. 1, comma 2, cit. e precisare che la sospensione dei
termini processuali dal 09 marzo c.a. al 22 marzo c.a. riguarda tutti i giudizi
pendenti e non soltanto quelli le cui udienze sono rinviate d’ufficio a data
successiva al 22 marzo 2020; questo per evitare una illegittima disparità di
trattamento processuale tra le parti, in quanto l’emergenza epidemiologica da
Covid-19 riguarda tutti i Professionisti impegnati nei procedimenti fiscali
oggi pendenti;
infine,
per evitare comportamenti contrastanti a livello nazionale, secondo me, è
opportuno modificare l’art. 2, comma 2, D.L. n.11 cit. nel senso che i Capi
delle Commissioni Tributarie Provinciali e Regionali devono, non
possono, adottare le misure tassativamente previste dal citato comma e,
soprattutto, disporre d’ufficio il rinvio delle udienze di merito a data
successiva al 31 maggio 2020, a meno che una delle parti processuali non
presenti apposita e documentata istanza di sollecita fissazione di udienza di
merito prima della suddetta data del 31 maggio 2020.
In definitiva, secondo me, le suddette correzioni normative sono necessarie sia per disciplinare meglio ed in modo organico la giustizia tributaria sia per non creare assurdi e contrastanti comportamenti processuali a livello nazionale che, soprattutto in questo particolare e difficile momento storico, potrebbero aggravare ulteriormente le condizioni economiche dei contribuenti, soprattutto per quanto riguarda il pagamento delle iscrizioni provvisorie.
AVV. MAURIZIO VILLANI Avvocato Tributarista in Lecce
L’iscrizione ipotecaria è atto avente
natura esecutiva in quanto attività prodromica all’esecuzione di cui condivide
la natura e la disciplina, come si argomenta sulla base di alcuni precedenti della
Corte di Cassazione (Sez. 3, n. 1652 del 29/01/2016; Sez. 5, n. 3600 del
24/02/2016; Sez. 6-5, Ord. n. 23876 del 23/11/2015), che ha affermato
l’applicabilità dell’art. 170 cod. civ. anche all’iscrizione ipotecaria, ex
art. 77 D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, e lo ha fatto richiamando il
precedente di Sez. 3, n. 5385 del 05/03/2013, il quale a sua volta richiama
Sez. 5, n. 7880 del 18/05/2012.
Entrambi i precedenti da ultimo citati,
però, argomentano sulla base della premessa che l’ipoteca ex art. 77 D.P.R.
cit. abbia natura di atto funzionale all’esecuzione forzata (premessa
essenziale al ragionamento, posto che l’art. 170 cod. civ. si riferisce,
espressamente, quale attività il cui compimento vieta sui beni del fondo e sui
frutti di essi, alla «esecuzione»).
In particolare, evocano al riguardo il
tradizionale criterio secondo cui nel concetto di atti di esecuzione rientrano
non soltanto gli atti del processo di esecuzione stricto sensu, ma tutti i
possibili effetti dell’esecutività del titolo e, dunque, anche l’ipoteca
iscritta sulla base dell’esecutività del titolo medesimo, con ciò, dunque,
chiaramente postulando, sia pure alla stregua di tale lato criterio
definitorio, la possibilità dì definire l’iscrizione de qua quale «atto di
esecuzione».
Tale premessa non può più, però, essere
tenuta ferma alla luce della ricostruzione dell’istituto operata, come noto,
dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 19667 del
18/09/2014.
Come noto, infatti, tale pronuncia –
richiamata e confermata in motivazione anche da Sez. U, ord. n. 15354 del
22/07/2015 – ha escluso che “l’iscrizione ipotecaria prevista dall’art. 77
D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, possa essere considerata un atto
dell’espropriazione forzata, dovendosi piuttosto essa essere considerata «un
atto riferito ad una procedura alternativa all’esecuzione forzata vera e
propria”.
Tale affermazione di principio, dalla
quale non si vede ragione per discostarsi, non può non riverberarsi nella
materia qui trattata, nella quale, venuta meno la premessa ricostruttiva
fondata come detto sulla qualificazione dell’iscrizione ipotecaria ex art. 77 D.P.R.
29 settembre 1973, n. 602 come «atto dell’esecuzione», viene meno anche
l’applicabilità dell’art. 170 cod. civ., non sembrando superabile il dato
testuale sopra già evidenziato, tanto più ove si consideri che, ponendo la
norma una eccezione alla regola della responsabilità patrimoniale ex art. 2740 cod.
civ., la stessa è da ritenersi soggetta a interpretazione tassativa (V. anche Cass.n.23875/2015;
n. 10794/2016, in motiv.; Cass. n. 5577/2019).
Alla luce della natura dell’iscrizione
ipotecaria, si è dunque affermato che “l’iscrizione ipotecaria di cui
all’art. 77 del D.P.R. n. 602 del 1973 è ammissibile anche sui beni facenti
parte di un fondo patrimoniale alle condizioni indicate dall’art. 170 c. c.,
sicché è legittima solo se l’obbligazione sia strumentale ai bisogni della
famiglia o se il titolare del credito non ne conosceva l’estraneità a tali
bisogni, gravando in capo al debitore opponente l’onere della prova non solo
della regolare costituzione del fondo patrimoniale, e della sua opponibilità al
creditore procedente, ma anche della circostanza che il debito sia stato
contratto per scopi estranei alle necessità familiari, avuto riguardo al fatto
generatore dell’obbligazione e a prescindere dalla natura della stessa. (Cass.
n. 20998/2018; Cass. n. 1652 del 2016; Cass. n. 22761 del 09/11/2016; Cass. n.
3738/2015; Cass. 23876/2015; Cass., ordinanza n. 5017 depositata il 25 febbraio
2020).
In particolare, si è affermato che il
creditore può iscrivere ipoteca su beni appartenenti al debitore, e conferiti
nel fondo, se il debito sia stato contratto per uno scopo non estraneo ai
bisogni familiari, ovvero – nell’ipotesi contraria – purché il titolare del
credito, per il quale procede alla riscossione, non fosse a conoscenza di tale
estraneità, dovendosi ritenere, diversamente, illegittima l’eventuale
iscrizione comunque effettuata (v. Cass. n. 23876/2015; Cass. n. 1652/2016;
Cass. n. 2998/2018).
Ne consegue che i beni costituenti fondo patrimoniale non possono essere sottratti all’azione esecutiva dei creditori quando lo scopo perseguito nell’obbligazione sia quello di soddisfare i bisogni della famiglia, da intendersi non in senso oggettivo, ma come comprensivi anche dei bisogni ritenuti tali dai coniugi in ragione dell’indirizzo della vita familiare e del tenore prescelto, in conseguenza delle possibilità economiche familiari.
La
Corte di Cassazione ha, altresì, più volte ribadito che il criterio
identificativo dei crediti che possono essere realizzati esecutivamente sui
beni conferiti nel fondo va ricercato non già nella natura delle obbligazioni,
ma nella relazione esistente tra il fatto generatore di esse e i bisogni della
famiglia sicché non assume rilievo la natura latamente pubblicistica del
credito di cui alle cartelle di pagamento (Cass. n.3738/2015, n.15886/2014; Cass.
n. 31590/2018).
Spetta,
pertanto, al giudice di merito di accertare – in fatto – se il debito in
questione si possa dire contratto per soddisfare i bisogni della famiglia,
(Cass. n.12998/2006) a prescindere dalla natura della stessa: sicchè anche un debito
di natura tributaria sorto per l’esercizio dell’attività imprenditoriale può
ritenersi contratto per soddisfare tale finalità, fermo restando che essa non
può dirsi sussistente per il solo fatto che il debito derivi dall’attività
professionale o d’impresa, dovendosi accertare che l’obbligazione sia sorta per
il soddisfacimento dei bisogni familiari, nel cui ambito vanno incluse le
esigenze volte al pieno mantenimento ed all’univoco sviluppo della famiglia,
ovvero per il potenziamento della capacità lavorativa, e non per esigenze di
natura voluttuaria o caratterizzate da interessi meramente speculativi (cfr.
Cass. n. 26126/2019; Cass. n. 9188/2016; Cass. n. 3738/2015; Cass. n.
23876/2015, peraltro in riferimento alla riscossione dell’esattore).
Errata
è dunque quella impostazione che ritiene l’inerenza diretta del debito fiscale
con i bisogni della famiglia solo limitatamente alle imposte relative ai
redditi prodotti dalle attività conferiti nel fondo (Cass. n. 23876/2015).
La circostanza, per esempio, che il
contribuente percepisse altri redditi da lavoro che addizionati a quelli del
coniuge erano “sufficienti” a soddisfare le esigenze della famiglia
appare affermazione tautologica e disancorata dal preciso onere probatorio
gravante su chi contesta la pignorabilità dei cespiti.
In primo luogo, l’adeguatezza di detti
redditi non può essere valutata in astratto rispetto alle “comuni”
esigenze di una famiglia, atteso che la qualità e quantità dei bisogni di una
famiglia vanno valutate in relazione al tenore prescelto in concreto dai
coniugi e all’indirizzo impresso alla vita familiare che potrebbero necessitare
di redditi cospicui.
E’ onere del contribuente quanto meno
allegare (e poi provare) che il maggior reddito conseguito all’evasione era
stato destinato a scopi voluttuari estranei ai bisogni della famiglia: quali
investimenti azionari ovvero acquisti di immobili non costituiti nel fondo
patrimoniale (Cass. n.4593/2017).
Del resto, la difficoltà di provare la
conoscenza dell’Erario della non inerenza dei crediti alle esigenze della
famiglia non integra sul piano giuridico un elemento idoneo a invertire la
regola di distribuzione dell’onere probatorio.
L’onere di provare l’estraneità dei
crediti ai bisogni familiari spetta soltanto al contribuente (v. Cass. n.
20998/2018; Cass. n. 222761/2016; Cass. nn. 641 e 5385 del 2015; Cass. nn.
23876 3738 del 2015; Cass. n. 4011 del 2013).
La Corte di Cassazione ha pure precisato
che tali oneri di allegazione e di prova si configurano anche quando si
proponga contro l’esattore domanda di declaratoria della illegittimità di una
ipoteca iscritta ai sensi del citato art. 77 del D.P.R. n. 602/73.
Una diversa soluzione legittimerebbe, in
modo improprio, l’utilizzo del fondo patrimoniale (istituto che ha la finalità
di apprestare misure di protezione per i bisogni economici della famiglia) a
scopo elusivo: al riguardo, soccorrono i principi concernenti la solidarietà
economica e la ratio degli artt. 23 e 53 della Costituzione, i quali,
consentendo un corretto bilanciamento delle diverse esigenze, legittima
l’iscrizione ipotecaria sul fondo patrimoniale anche per le somme dovute a
titolo di sanzioni (Cass. n.20998/2018).
L’iscrizione ipotecaria non consente alcun
vaglio giurisdizionale, fondandosi non su un credito da accertare, ma su un
titolo esecutivo portante un credito ormai liquido ed esigibile, il che esclude
una valutazione sulla legittimità della iscrizione anche per sanzioni
accessorie al debito tributario.
I giudici di merito, in corretta
applicazione dei suddetti principi di diritto, devono ritenere sempre decisiva la
circostanza che il ricorrente non avesse né allegato né, tanto meno, provato,
che i redditi aziendali fossero destinati ad esigenze speculative o voluttuarie
(e che la creditrice fosse di ciò consapevole).
Vige il principio di diritto,
costantemente affermato dalla Corte di Cassazione, secondo il quale l’art. 170
c.c., nel disciplinare le condizioni di ammissibilità dell’esecuzione sui beni
costituiti nel fondo patrimoniale, detta una regola applicabile anche
all’iscrizione di ipoteca non volontaria, ivi compresa quella di cui all’art.
77 del D.P.R. n. 602 del 1973, sicché l’agente della riscossione può iscrivere
ipoteca su beni appartenenti al coniuge o al terzo, conferiti nel fondo, se il
debito sia stato da loro contratto per uno scopo non estraneo ai bisogni
familiari, ovvero – nell’ipotesi contraria – purché il titolare del credito,
per il quale l’agente della riscossione procede alla riscossione, non fosse a
conoscenza di tale estraneità, dovendosi ritenere, diversamente, illegittima
l’eventuale iscrizione comunque effettuata (Cass. 1552/2016; Cass. 20998/2018).
La Corte di Cassazione ha più volte
stabilito che grava in capo al debitore opponente l’onere della prova non solo
della regolare costituzione del fondo patrimoniale, e della sua opponibilità al
creditore procedente, ma anche della circostanza che il debito sia stato
contratto per scopi estranei alle necessità familiari, avuto riguardo al fatto
generatore dell’obbligazione e a prescindere dalla natura della stessa (Cass.
20998/2018).
Si tratta di un giudizio di fatto non
censurabile dalla Corte di Cassazione, posto che il principio di cui all’art.
2697 c.c. deve essere correttamente applicato e spetta al giudice di merito in
via esclusiva (e salvo che si tratti di prova a valutazione legale) il compito
di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne
l’attendibilità e la concludenza (Cass. 16497/2019;Cass.,
ordinanza n. 5369 depositata il 27 febbraio 2020).
In merito alla affermazione che i debiti
fiscali rientrerebbero “a pieno titolo” tra le spese necessarie alla
famiglia, essa è in contrasto con quanto affermato dalla Corte di Cassazione in
ordine al criterio identificativo dei debiti per i quali può avere luogo l’esecuzione
sui beni del fondo patrimoniale.
Il predetto criterio va ricercato non già
nella natura dell’obbligazione ma nella relazione tra il fatto generatore di
essa e i bisogni della famiglia, e la predetta finalità non può dirsi
sussistente per il solo fatto che il debito derivi dall’attività professionale
o d’impresa, dovendosi accertare che l’obbligazione sia sorta per il
soddisfacimento dei bisogni familiari e non per esigenze di natura voluttuaria
o caratterizzate da interessi meramente speculativi (Cass. 3738/2015).
Il Governo nella presentazione della riforma fiscale generale vuole inserire anche la delega per la riforma strutturale della giustizia tributaria, come riportato nell’articolo de Il Sole 24 Ore di sabato 15 c.m. in allegato.
Secondo le
intenzioni governative, la giustizia tributaria dovrebbe essere gestita dalla
Corte dei Conti e, per una sintesi delle differenti posizioni delle sei
proposte di legge oggi in discussione presso le Commissioni Riunite Seconda e
Sesta del Senato, il Governo ha deciso di creare un “tavolo tecnico ristretto”.
Non sono assolutamente d’accordo, come peraltro fatto presente da tutti gli
Organismi Nazionali del settore tributario.
È bene sapere che il
Codice di Giustizia Contabile (Decreto Legislativo n. 174 del 26 agosto 2016,
adottato ai sensi dell’art. 20 della Legge n. 124 del 07 agosto 2015) prevede
che la Corte dei Conti:
– ha giurisdizione nei giudizi di conto, di responsabilità amministrativa
per danno all’erario e negli altri giudizi in materia di contabilità pubblica
(art. 1, primo comma);
– sono organi di giurisdizione contabile di primo grado le sezioni
giurisdizionali regionali, con sede nel capoluogo di regione (art. 9, primo
comma);
– sono organi di giurisdizione contabile di secondo grado le sezioni
giurisdizionali centrali di appello, con sede in Roma (art. 10, primo comma).
Dalla suddetta breve
normativa risulta evidente che:
– la Corte dei Conti tutela prevalentemente gli interessi erariali, per cui
è fortemente limitato il diritto di difesa del cittadino – contribuente (art.
24 della Costituzione);
– gli eventuali processi tributari si svolgeranno soltanto in due fasi
presso le sedi regionali e presso la sede centrale di Roma, ed anche questo
comprometterebbe seriamente il diritto di difesa del cittadino – contribuente,
soprattutto per quanto riguarda i costi da sopportare;
– infine, ci potranno essere sensibili riduzioni tra i difensori
legittimati alla difesa.
Invece, la Riforma Strutturale della Giustizia Tributaria, per essere seria
e garante dei principi costituzionali, deve essere gestita, con tre gradi di
giudizio, dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, con giudici
professionali, a tempo pieno, vincitori di concorso pubblico e ben retribuiti,
non come oggi a 15 euro nette a sentenza depositata e zero euro per le
sospensive !!!!!
Presso le Commissioni Seconda e Sesta del Senato sono in discussione sei
Disegni di Legge, tra cui il Disegno di Legge n. 1243/2019 della Lega, che ha
ripreso integralmente il mio Progetto di Legge e che spero possa essere
approvato definitivamente entro quest’anno per consentire al cittadino –
contribuente ed a tutti gli attuali difensori tributari (nessuno escluso) di
potersi difendere davanti a giudici terzi ed imparziali (art. 111, secondo
comma, della Costituzione) presso i futuri Tribunali Tributari, le Corti di
Appello Tributarie e la Corte di Cassazione (tre gradi di giudizio e mai due).
Infine, è opportuno che presso il “tavolo tecnico ristretto” che il Governo
intende creare siano presenti i Professionisti del settore, attraverso gli
Ordini e le Associazioni, per contrastare l’assegnazione alla Corte dei Conti.
In merito alla speciale normativa fiscale
delle società di comodo, la Corte di Cassazione ha stabilito importanti
principi con varie sentenze.
Infatti, è stato chiarito che, in materia
di società di comodo, i parametri previsti dall’art. 30 della legge n. 724 del
1994, nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’art. 35 del d.l. n.
223 del 2006, convertito nella legge n. 248 del 2006, sono fondati sulla
correlazione tra il valore di determinati beni patrimoniali ed un livello
minimo di ricavi e proventi, il cui mancato raggiungimento costituisce elemento
sintomatico della natura non operativa della società, spettando, poi, al
contribuente fornire la prova contraria e dimostrare l’esistenza di situazioni
oggettive e straordinarie, specifiche ed indipendenti dalla sua volontà, che
abbiano impedito il raggiungimento della soglia di operatività e di reddito
minimo presunto (Cass., 21/10/2015, n. 21358).
[restrict userlevel=”editor”] E’ stato poi ulteriormente precisato che i parametri previsti dall’art. 30 della L. n. 724 del 1994, nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’art. 35 del d.l. n. 223 del 2006, convertito nella L. n. 248 del 2006, sono fondati sulla correlazione tra il valore di determinati beni patrimoniali ed un livello minimo di ricavi e proventi, sicché la determinazione dell’imponibile è effettuata sulla base di precisi criteri di legge, che escludono qualsiasi discrezionalità deduttiva, imponendosi in sede sia di accertamento, sia di determinazione giudiziale, salva la prova contraria da parte del contribuente (Cass., 05/07/2016, n. 13699).
L’ art. 30 della L. n. 724 del 1994 è
stato, quindi, qualificato come una presunzione legale relativa, in base alla
quale una società si considera “non operativa” se la somma di ricavi,
incrementi di rimanenze e altri proventi (esclusi quelli straordinari) imputati
nel conto economico è inferiore a un ricavo presunto, calcolato applicando
determinati coefficienti percentuali al valore degli asset patrimoniali
intestati alla società (cd. “test di operatività dei ricavi”), senza
che abbiano rilievo le intenzioni e il comportamento dei soci, ma poi, al
successivo comma 4-bis, consente la presentazione dell’istanza di interpello
(chiedendo la disapplicazione delle disposizioni antielusive), in presenza di
situazioni oggettive (ossia non dipendenti da una scelta consapevole
dell’imprenditore), che abbiano reso impossibile raggiungere il volume minimo
di ricavi o di reddito di cui al precedente comma 1.
Così rispondendo all’esigenza di dare piena
attuazione al principio di capacità contributiva, di cui la disciplina
antielusiva è espressione, lasciando nel contempo spazio al diritto di difesa
del contribuente, sufficientemente garantito dagli strumenti del
contraddittorio e dalla necessità di una motivazione puntuale della condotta
elusiva nell’avviso di accertamento (Cass., 20/04/2018, n. 9852; ultimamente,
Corte di Cassazione – Quinta Sezione Civile – Ordinanza n. 31626, depositata in
cancelleria il 04/12/2019).
Ed è stato, peraltro, escluso che il
meccanismo di determinazione presuntiva del reddito di cui all’art. 30 della L.
n. 724 del 1994, superabile mediante prova contraria, si ponga in contrasto con
il principio di proporzionalità, rispetto al quale, la Corte di Giustizia
dell’Unione Europea (sentenza 13 marzo 2007, causa C-524/04) ha affermato che
una normativa nazionale che si fondi sull’esame di elementi oggettivi e
verificabili per stabilire se un’operazione consista in una costruzione di puro
artificio ai soli fini fiscali, e quindi elusiva, va considerata come non
eccedente quanto necessario per prevenire pratiche abusive, ove il contribuente
sia messo in grado, senza oneri eccessivi, di dimostrare le eventuali ragioni
commerciali che giustificano detta operazione (Cass., 20/06/2018, n. 16204).
Pertanto, la presunzione de qua, in ordine
alla qualificazione della contribuente come non operativa ed alla conseguente
determinazione del reddito minimo imponibile, trova la sua fonte direttamente
nella norma applicata, per cui il giudice del merito, verificata la ricorrenza
dei presupposti oggettivi valorizzati dal legislatore, non è tenuto ad
illustrare ulteriori e diverse massime di esperienza che la sorreggessero.
L’applicabilità della presunzione legale
di cui all’art. 30 della L. n. 724 del 1994 deriva necessariamente (fatta salva
la possibilità di prova contraria) dal mancato superamento del cd. “test
di operatività dei ricavi” e non è esclusa, di per sé sola, dalla
circostanza che il contribuente, per esempio, svolge, nel rispetto del proprio
statuto, attività di carattere indubbiamente commerciale, di natura
alberghiera, per la quale ha ottenuto licenza e redige bilancio annuale.
Invero, il disposto della norma non
consente discrezionalità deduttiva, né prende in considerazione la specie di
attività esercitata dalla società non in linea con la correlazione – tra il
valore di determinati beni patrimoniali ed un livello minimo di ricavi e
proventi – dettata dal legislatore (salva, si ribadisce, la possibilità di
interpello e prova contraria di cui al comma 4-bis del predetto art. 30).
Inoltre, deve considerarsi che, secondo
l’orientamento della Corte di Cassazione, in materia di società di comodo,
“l’impossibilità”, per situazioni oggettive di carattere
straordinario, di conseguire il reddito presunto secondo il meccanismo di
determinazione di cui all’art. 30 della L. n. 724 del 1994, la cui prova è a
carico del contribuente, non va intesa in termini assoluti bensì economici,
aventi riguardo alle effettive condizioni del mercato (Cass., 20/06/2018, n.
16204; Cass., 12/02/2019, n. 4019).
Le condizioni del mercato, quindi,
costituiscono, nella fattispecie legale astratta, un fatto la cui allegazione e
prova è sempre onere della contribuente.
Infine, la Corte di Cassazione ha già avuto modo di precisare che, in tema di accertamento fondato su studi di settore, la causa di esclusione della presunzione di non operatività delle società di mero godimento (cd. società di comodo) prevista dall’art. 30, comma 1, n. 6-sexies della L. n. 724 del 1994, è una norma sostanziale, idonea ad incidere direttamente sulla decisione di merito, sicché è priva di efficacia retroattiva (Cass., 17/07/2018, n. 18912).
Infatti, la causa di esclusione della congruità e coerenza delle società ai fini degli studi di settore, prevista dall’art. 30, comma 1, num. 6-sexies, introdotta dall’art. 1, comma 128, lett. c), della legge 24 dicembre 2006, n. 244, con effetto dall’1 gennaio 2008, non ha natura neppure latu sensu processuale. [/restrict] [register_form]
L’art. 26, comma
secondo, del DPR n. 602 del 1973, come aggiunto dall’art. 38, comma 4, lettera
b), del D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge
30 luglio 2010, n. 122, prevede che la notifica della cartella di pagamento «può
essere eseguita, con le modalità di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 11 febbraio 2005, n. 68, a mezzo posta elettronica certificata,
all’indirizzo risultante dagli elenchi a tal fine previsti dalla legge. Tali
elenchi sono consultabili, anche in via telematica, dagli agenti della
riscossione. Non si applica l’articolo 149-bis del codice di procedura civile».
A sua volta,
l’art. 1, lett. f), del DPR n. 68 del 2005, definisce il messaggio di posta
elettronica certificata, come «un documento informatico composto dal testo del
messaggio, dai dati di certificazione e dagli eventuali documenti informatici
allegati».
La lett. i-ter),
dell’art. 1 del CAD – inserita dall’art. 1, comma 1, lett. c), del D.Lgs. 30
dicembre 2010, n. 235 -, poi, definisce «copia per immagine su supporto
informatico di documento analogico» come «il documento informatico avente
contenuto e forma identici a quelli del documento analogico», mentre la lett.
i-quinquies), dell’art. 1 del medesimo CAD – inserita dall’art. 1, comma 1,
lett. c), del D.Lgs. 30 dicembre 2010, n. 235 -, nel definire il «duplicato
informatico» parla di «documento informatico ottenuto mediante la
memorizzazione, sullo stesso dispositivo o su dispositivi diversi, della
medesima sequenza di valori binari del documento originario».
Dunque, alla luce
della disciplina surriferita, la notifica della cartella di pagamento può
avvenire, indifferentemente, sia allegando al messaggio PEC un documento
informatico, che sia duplicato informatico dell’atto originario (il c.d.
“atto nativo digitale”), sia mediante una copia per immagini su
supporto informatico di documento in originale cartaceo (la c.d. “copia
informatica”), come è avvenuto pacificamente in vari casi, dove il
concessionario della riscossione ha provveduto ad inserire nel messaggio di
posta elettronica certificata un documento informatico in formato PDF (portable
document format) – cioè il noto formato di file usato per creare e trasmetteredocumenti,
attraverso un software comunemente diffuso tra gli utenti telematici -,
realizzato in precedenza mediante la copia per immagini di una cartella di
pagamento composta in origine su carta (in tal senso, ultimamente, ordinanza n.
30948 della Corte di Cassazione – Quinta Sezione Civile -, depositata in
cancelleria il 27 novembre 2019).
Va esclusa,
allora, la denunciata illegittimità della notifica della cartella di pagamento
eseguita a mezzo posta elettronica certificata, per la decisiva ragione che era
nella sicura facoltà del notificante allegare, al messaggio trasmesso via PEC,
un documento informatico realizzato in forma di copia per immagini di un
documento in origine analogico.
Inoltre, nessuna
norma di legge impone che la copia su supporto informatico della cartella di
pagamento in origine cartacea, notificata dall’agente della riscossione tramite
PEC, sia poi sottoscritta con firma digitale.
Può soggiungersi,
per completezza, che ai sensi dell’art. 22, comma 3, del CAD – come modificato
dall’art. 66, comma 1, del D.Lgs. 13 dicembre 2017, n. 217 – «Le copie per
immagine su supporto informatico di documenti originali formati in origine su
supporto analogico nel rispetto delle linee guida hanno la stessa efficacia
probatoria degli originali da cui sono tratte se la loro conformità
all’originale non è espressamente disconosciuta».
Infine, le Sezioni
Unite della Corte di Cassazione hanno affermato che l’irritualità della
notificazione di un atto a mezzo di posta elettronica certificata non ne
comporta la nullità se la consegna in via telematica dell’atto ha comunque
prodotto il risultato della sua conoscenza e determinato così il raggiungimento
dello scopo legale (Cass. S.U. 28/09/2018, n. 23620; Cass. S.U. 18/04/2016, n.
7665).
E proprio con
riferimento alla notifica di una cartella di pagamento, si è chiarito che la
natura sostanziale e non processuale dell’atto non osta all’applicazione di
istituti appartenenti al diritto processuale, soprattutto quando vi sia un
espresso richiamo di questi nella disciplina tributaria; sicché il rinvio
operato dall’art. 26, comma 5, del d.p.r. n. 602 del 1973, all’art. 60 del
d.p.r. n. 600 del 1973, il quale, a sua volta, rinvia alle norme sulle notificazioni
nel processo civile, comporta, in caso di irritualità della notificazione della
cartella di pagamento, l’applicazione dell’istituto della sanatoria del vizio
dell’atto per raggiungimento dello scopo ai sensi dell’art. 156 c.p.c. (Cass.
05/03/2019, n. 6417).
Secondo la costante prassi della Corte di
Cassazione, la mera circostanza della presentazione della documentazione di
sanatoria oltre il termine del 10 giugno 2019, previsto dal comma 10 dell’art.
6 del D.L. n. 119 del 2018, non costituisce ragione sufficiente per il rifiuto
della sospensione richiesta.
Da questo indirizzo si è discostata la
recente ordinanza n. 28493 della Sezione 6-5 della Corte di Cassazione, depositata
in data 6 novembre 2019, che decidendo su ricorso per Cassazione del
contribuente avverso sentenza della Commissione Tributaria Regionale che aveva
accolto l’appello dell’Amministrazione finanziaria, confermando l’avviso di
accertamento volto al recupero di imposte dirette e di I.V.A. ha respinto
l’istanza di sospensione pervenuta via posta presso la Cancelleria in data 11
giugno 2019, ritenendo che «per espressa previsione di legge, al fine di
ottenere l’effetto sospensivo exart. 6 D.L. 119 del 2018 sino al 31
dicembre 2020, deve essere depositata avanti l’autorità giudiziaria avanti alla
quale pende il processo la copia della domanda di definizione e del versamento,
entro il termine perentorio del 10.6.2019».
Si impone, quindi, di verificare se il mancato
rispetto del termine del 10 giugno 2019 previsto dal comma 10 dell’art. 6 del D.L.
n. 119 del 2018 sia ostativo all’accoglimento delle istanze di sospensione.
La soluzione di tale questione richiede di
valutare se il termine previsto per il deposito dell’istanza di sospensione
presso l’organo giurisdizionale innanzi al quale pende la controversia abbia
natura perentoria o, piuttosto, ordinatoria.
Costituisce principio generale, derivante
da quello di legalità, che i termini stabiliti dalla legge sono di principio
ordinatori, salvo che la legge stessa espressamente li dichiari perentori o
colleghi esplicitamente al loro decorso un qualche effetto decadenziale o
comunque restrittivo (Cons. Stato, sez. VI, 13/3/2013, n. 1511; Cons. Stato
7/7/2014, n. 3431).
Tale principio trova sicura applicazione
nel diritto pubblico sia nell’ambito dei poteri dell’amministrazione (Cons.
Stato sez. V, 23/4/1982, n. 304, sui poteri sostitutivi in materia
urbanistica), sia nell’ambito di procedimenti diretti ad ottenere provvedimenti
espansivi ed accrescitivi della posizione giuridica del soggetto privato (Cons.
Stato, sez. III, 26/5/2016, n. 2230, in tema di rinnovo del permesso di
soggiorno).
Anche nel diritto tributario, che dal
diritto pubblico mutua taluni aspetti regolatori in assenza di specifiche
disposizioni, valgono i medesimi principi, sia riguardo all’azione del fisco
presidiata dai principi costituzionali di capacità contributiva e buona
amministrazione (Cass. sez. V, 5/10/2012, n. 17002 e Cass. 6-5, ord. 27/4/2017,
n. 10481, sul termine di permanenza degli operatori civili o militari
dell’amministrazione finanziaria presso la sede del contribuente; Cass. sez. V,
3/4/2013, n. 8055 e Cass. Sez. U., 12/11/2004, n. 21498, sul termine annuale
per rettifica cd. formale; Cass. sez. V, 30/6/2010, n. 15542 e Cass. sez. 6-5,
ord. 19/3/2014, n. 6411, sulla trasmissione del certificato catastale
attestante l’avvenuta iscrizione con attribuzione di rendita), sia riguardo
alla posizione del contribuente.
Infatti, in materia tributaria, in
mancanza di un’esplicita previsione, il termine normativamente stabilito per il
compimento di un atto ha efficacia meramente ordinatoria ed esortativa o
acceleratoria, cioè costituisce un invito a non indugiare, e l’atto può essere
compiuto dall’interessato o dalla stessa Amministrazione fino a quando ciò non
venga altrimenti precluso (Cass., sez. 5, 8/05/2013, n. 10761).
Ciò vale a maggior ragione riguardo alla
posizione del contribuente in tema di condono fiscale, laddove è ancor più
evidente il favordel legislatore per la definizione agevolata, il quale
postula una valutazione non già letterale e formalistica, ma sostanziale della
domanda, ossia l’individuazione degli effetti che il contribuente abbia inteso
conseguire (Cass., sez. 5, 22/1/2007, n. 1289; Cass, sez. 5, 17/5/2006, n.
11570).
Alla luce delle considerazioni che
precedono, appare manifesta la necessità di approfondire il significato da
attribuire alle regole dettate dal comma 10 dell’art. 6 citato, il quale
prevede, al primo periodo, che «le controversie definibili non sono sospese,
salvo che il contribuente faccia apposita richiesta al giudice, dichiarando di
volersi avvalere delle disposizioni del presente articolo. In tal caso il
processo è sospeso fino al 10 giugno 2019» e, al secondo periodo, che «Se entro
tale data il contribuente deposita presso l’organo giurisdizionale innanzi al
quale pende la controversia copia della domanda di definizione e del versamento
degli importi dovuti o della prima rata, il processo resta sospeso fino al 31
dicembre 2020».
Va in proposito osservato che il termine
del 10 giugno 2019 ha natura processuale, in quanto volto a fissare il momento
entro il quale si può presentare l’istanza all’organo giurisdizionale dinanzi
al quale pende la controversia al fine di ottenere la sospensione del processo,
sicché ad esso si applica il secondo comma dell’art. 152 cod. proc. civ.,
secondo il quale «i termini stabiliti dalla legge sono ordinatori, tranne che
la legge stessa li dichiari espressamente perentori».
In mancanza di una espressa disposizione
che lo dichiari perentorio, il termine normativamente fissato per il compimento
di un atto ha natura ordinatoria, quale invito a non indugiare, e il suo
mancato rispetto non comporta alcuna decadenza e non impedisce che l’atto possa
essere compiuto fino a quando ciò non venga precluso altrimenti.
Nella fattispecie sospensiva in esame,
mancando una esplicita previsione, lo spirare del termine del 10 giugno 2019
non determina la decadenza del contribuente dalla facoltà di chiedere la
sospensione del processo, in quanto ogni decadenza, anche in materia processuale,
deve essere testuale ed essere espressamente sancita dalla legge (analogamente
a quanto previsto da Cass. sez. L, 23/11/2012, n. 20777, sui termini di cui
all’art. 327 cod. proc. civ.; da Cass. sez. III, 18/4/2011, n. 8857, sul
termine di cui all’art. 588 cod. proc. civ.; da Cass. sez. III, 29/11/2005, n.
26039, sul termine di cui all’art. 415, comma 4, cod. proc. civ.).
In tal senso, ultimamente, si è
pronunciata la Corte di Cassazione – Quinta Sezione Civile – con l’ordinanza
interlocutoria n. 29790 depositata in cancelleria il 15/11/2019.
Peraltro, l’effetto sospensivo deriva
dalla legge e non abbisogna di una scelta provvedimentale, dovendo il giudice
limitarsi a prendere atto dell’istanza avanzata dal contribuente.
Ciò in quanto la funzione della sospensione
è quella di raccordare la procedura amministrativa di definizione agevolata
della lite con quella processuale pendente, posto che, da una parte, permette
al contribuente di evitare di venirsi a trovare in una situazione
pregiudizievole nel processo pendente e di ottenere il tempestivo disbrigo
della relativa procedura dinanzi agli uffici giudiziari e, dall’altra,
all’Amministrazione finanziaria di poter svolgere l’attività istruttoria
necessaria ai fini delle successive determinazioni sulla domanda di definizione
presentata dal contribuente (dovendo l’Agenzia delle Entrate entro il 31 luglio
2020 notificare al contribuente l’eventuale diniego della definizione agevolata
nel caso in cui ritenga la controversia non definibile o comunque non valida la
definizione per insufficiente versamento dell’importo dovuto).
La sospensione, in sostanza, svolge una
funzione «protettiva» e non «preclusiva», dato che assolve all’esigenza di
avere uno stato di temporanea quiescenza del processo in attesa della definizione
della procedura amministrativa che presuppone la non prosecuzione medio temporedell’ordinario svolgimento dell’attività processuale.
Tale finalità trova giustificazione nel
normale intento del legislatore di favorire l’estinzione del processo a seguito
della sanatoria intervenuta nelle more del giudizio ed è strettamente connessa
ai riflessi di ordine pubblico nascenti dalla legge di condono, che, derogando
alla pretesa impositiva, stabilisce un sistema d’imposizione diversificato per
quelle esigenze di salvaguardia di regolarità e speditezza del gettito ritenute
meritevoli di tutela anche dalla Corte Costituzionale (Cass. Sez. U, 27/1/2016,
n. 1518, sulla rilevabilità d’ufficio della sanatoria fiscale).
Illegittimi e arbitrari i coefficienti per il calcolo del valore della rendita vitalizia del prospetto allegato al TUR.
L’illegittimità costituzionale dell’art. 46, comma 2, lett. c) del D.P.R. n. 131/1986, in relazione agli articoli 3 e 53 della Costituzione.
L’illegittimità costituzionale dell’art. 46, comma 2, lett. c) del D.P.R. n. 131/1986 in relazione all’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui fa riferimento e rinvia al prospetto allegato al TUR, in violazione del principio di uguaglianza e di ragionevolezza.
1. La norma di riferimento Il dato normativo di riferimento per il calcolo del valore della base imponibile ai fini dell’imposta di registro è l’art. 46 D.P.R. n.131/1986( TUIR).
Precisamente, al comma 1, l’art. 46 citato
prevede che “ la base imponibile degli atti costitutivi
di rendite è costituita dalla somma pagata o dal valore dei beni ceduti dal
beneficiario ovvero, se maggiore, dal valore della rendita”.
Invece, il comma 2 statuisce come si determina
il secondo termine del confronto richiesto dal comma precedente (ovvero il “valore
della rendita”), prevedendo tre casi differenti:
1) quello della rendita perpetua;
2) quello della rendita a tempo determinato;
3) quello della rendita vitalizia.
Nel contributo de quo, appare opportuno
soffermarsi sul caso d’irrazionalità più rilevante, ovvero quello relativo al
calcolo del “valore della rendita” nel caso di rendita vitalizia, poiché il
parametro utilizzato (lo stesso per l’usufrutto vitalizio) e la nebulosità del
calcolo fanno emergere dei profili d’incostituzionalità.
Giova a questo punto, dapprima dare definizione agli istituti della rendita vitalizia e dell’usufrutto vitalizio.
2. La rendita vitalizia
La rendita vitalizia è
disciplinata dall’art. 1872 c.c. che,
individuandone i modi di costituzione, distingue la rendita
costituita a titolo oneroso da quella a titolo gratuito, in modo simile alla
rendita perpetua. Orbene, “la rendita vitalizia può
essere costituita a titolo oneroso, mediante alienazione di un bene mobile o
immobile, o mediante cessione di un capitale.
La rendita vitalizia può essere costituita anche per donazione o per
testamento, e in questo caso si osservano le norme stabilite dalla legge per
tali atti”.
Pertanto, anche il succitato tipo di rendita è di due
tipi: tipica e atipica. La prima, quando la fattispecie è
tipizzata dal codice civile o da un’altra fonte legislativa; di converso, la rendita
atipica non è contemplata in alcun modo dal codice o altra fonte normativa.
Per quanto riguarda la natura della rendita si afferma
che è un contratto consensuale, a prestazioni corrispettive, di scambio e di
durata e indubbio è anche il carattere personale del diritto del vitaliziato.
Quando il vitaliziante non riceve alcuna
controprestazione abbiamo un contratto a titolo gratuito. In alcuni casi il
vitaliziato riceve una rendita molto inferiore al reddito che si ricaverebbe
dal cespite ceduto; in tal caso, avremo un negotium mixtum cum donatione,
oneroso per quanto concerne lo scambio delle prestazioni e, invece, gratuito
per quella parte di prestazione del vitaliziante che eccede il valore di quella
del vitaliziato.
A differenza della rendita perpetua, quella vitalizia
onerosa è considerata da parte della dottrina e dalla prevalente giurisprudenza
un contratto aleatorio; difatti, poiché la prestazione è commisurata
alla vita di una persona rende impossibile sapere a quanto ammonterà la somma
finale versata dal debitore e, quindi, rende impossibile prevedere in anticipo
quale contraente riceverà un vantaggio economico dall’operazione. Di converso,
quando la rendita è a titolo gratuito il debitore sa già in anticipo che
subirà un depauperamento, essendo incerto solo l’effettivo ammontare della somma
che verserà; di conseguenza, tale contratto non ha natura aleatoria.
In riferimento all’oggetto della rendita appare
opportuno fare un distinguo tra la prestazione del vitaliziato e quella del
vitaliziante.
La prestazione del vitaliziante è un diritto
di credito classificato come frutto civile (art. 820 comma 3).
L’oggetto di essa può consistere in denaro o
altre cose fungibili. Si ammette che possa avere ad oggetto una quota dei
frutti del fondo alienato, oppure di altro di fondo ben determinato.
La prestazione del vitaliziato può consistere nella
cessione di un bene mobile immobile, o nella cessione di un capitale.
Si ritiene che, oltre al trasferimento della proprietà,
sia idoneo anche il trasferimento di un diritto reale limitato o il
trasferimento del diritto patrimoniale d’autore. Qualora il vitaliziato ceda un
diritto personale di godimento si configura, invece, un contratto atipico.
In riferimento alla forma di tale contratto è
richiesta la forma scritta a pena di nullità (art. 1350 n° 10 c.c.).
Ovviamente, al contrario, sarà necessaria una forma
diversa se la fonte della rendita richiede particolari requisiti formali (come
accade per la donazione o il testamento).
Si precisa, inoltre, che che la rendita vitalizia costituita a favore di un terzo, quantunque importi per questo una liberalità, non richiede le forme stabilite per la donazione (art. 1875 c.c.)
La durata della rendita può essere commisurata alla durata della vita del beneficiario o di altra persona (art. 1873 c.c.). Essa può costituirsi, anche, per la durata della vita di più persone” (articolo 1873) e, in tal caso, abbiamo la cosiddetta rendita congiuntiva. Nella rendita congiuntiva la durata è commisurata a quella delle persona che risulterà più longeva; una particolarità di tale tipo di rendita è che alla morte di uno dei beneficiari sussiste il diritto di accrescimento nei confronti degli altri (salvo patto contrario: art. 1874).
Se la rendita è commisurata alla durata della
vita di una persona non nata,il contratto si
considera sottoposto alla condizione sospensiva della nascita.
Se manca l’indicazione della persona
a cui ci si deve riferire per la durata del contratto, taluno sostiene
che la rendita sarebbe nulla per mancanza di un elemento essenziale; altra
parte della dottrina, al contrario, osserva che, in tal caso, si applica il
principio di conservazione del contratto e, quindi, si dovrà presumere che la
durata della rendita sia riferita alla vita del beneficiario.
L’articolo 1876 c.c. stabilisce che: “Il contratto è nullo se la rendita è
costituita per la durata della vita di una persona che, al tempo del contratto
aveva già cessato di vivere”.
Nonostante qualche opinione contraria, non sembra debba
ammettersi il vitalizio successivo, per il divieto della sostituzione
fedecommissaria (art. 698); di conseguenza, alla morte del testatore la rendita
avrà effetto solo a favore di coloro che sono i primi chiamati. La norma è
applicabile solo alle disposizioni mortis causa, mentre sarebbe
ammissibile il vitalizio successivo costituito per atto inter vivos.
La vita contemplata non può essere quella di una
persona giuridica; ciò non esclude che una persona giuridica possa stipulare un
contratto di rendita in qualità di vitaliziato o vitaliziante, purché, però, la
vita contemplata cui commisurare la rendita sia quella di una persona fisica.
Il
pagamento della rendita è dovuto al creditore in proporzione al
numero dei giorni vissuti da colui sulla vita del quale è costituita.
Se, di converso, è stato convenuto di pagarla a rate
anticipate, ciascuna rata si acquista dal giorno in cui è scaduta (art. 1880 c.c.).
Tale norma è considerata derogabile e, pertanto, le parti possono stabilire modalità diverse di pagamento.
3. L’usufrutto vitalizio
L’usufrutto è un diritto
reale e, in particolare, un diritto reale limitato che convive assieme ad
un distinto diritto di proprietà su un bene determinato.
Per usufrutto s’
intende il diritto di godere di un bene rispettandone la destinazione
economica.
Il codice civile,
all’articolo 981, cita: “L’usufruttuario
ha diritto di godere della cosa, ma deve rispettarne la destinazione economica.
Egli può trarre dalla cosa ogni utilità che questa può dare, fermi i limiti stabiliti
in questo capo”.
Non c’è, quindi, una
vera e propria definizione di usufrutto, piuttosto la
relazione dei diritti dell’usufruttuario.
L’usufrutto vitalizio è, dunque, un istituto di legge che
consente di godere della proprietà altrui o, in altre parole, il diritto di
utilizzare un bene determinato come se fosse proprio, fino alla fine naturale
della vita.
In sostanza l’usufruttuario può
godere del bene, e trarne ogni tipo di utilità, secondo la lettera della legge.
L’usufruttuario può
utilizzare la cosa, sia che si tratti di una casa (per esempio, sfruttandone il
canone di locazione) sia che si tratti di un altro bene (per esempio un campo
del quale egli coltiva e utilizza o vende i frutti); ossia, l’usufruttuario
gode dei frutti civili e/o naturali del bene.
L’usufrutto può
costituirsi per legge; per esempio, l’usufrutto legale sui beni dei figli da
parte dei genitori (purché utilizzati per il mantenimento della famiglia).
Si ha, inoltre, l’usufrutto
per usucapione, in questo caso si tratta di un acquisto a titolo
originario, oppure l’usufrutto per volontà dell’uomo.
L’usufrutto per
volontà umana è sicuramente quello più frequente, che si ha qualora un soggetto
trasferisca l’usufrutto del bene tramite contratto o tramite testamento.
L’usufrutto vitalizio può quindi costituirsi anche per successione.
Come abbiamo detto, il
trasferimento dell’usufrutto a un soggetto lascia in capo al proprietario del
bene la mera “nuda proprietà”.
Anche laddove
costituito per testamento, l’usufrutto vitalizio ha
necessariamente durata temporanea: non può, quindi, superare
la durata della vita dell’usufruttuario altrimenti, in buona
sostanza, il proprietario perderebbe ogni diritto in assoluto di trarre utilità
dal bene.
Il de cuius potrà, quindi, aver fissato nel
testamento un termine per l’usufrutto; se non l’ha fatto, e parliamo allora di
usufrutto vitalizio, al termine della vita dell’usufruttuario tale diritto
reale si estingue necessariamente.
Per successione, l’usufrutto
può anche essere costituito a favore di più soggetti, cosa che spesso viene
specificata nel testamento stesso.
Laddove con la morte di colui che abbia costituito testamento venga a crearsi un diritto di usufrutto in capo a un soggetto, giova sottolineare che il diritto di usufrutto è soggetto a tassazione indiretta.
4. Illegittimi e arbitrari i coefficienti per il calcolo del valore della rendita vitalizia del prospetto allegato al TUR.
Come anzidetto, l’art. 46,
co. 2, lett. c) del TUR stabilisce che il valore della rendita si determina,
in questo caso, “moltiplicando l’annualità» per il coefficiente indicato
nel prospetto allegato al testo unico «applicabile in relazione all’età
della persona alla cui morte la rendita deve cessare”.
Precisamente, il
prospetto allegato al Testo Unico citato rappresenta un rinvio operato da parte
dell’art. 46, co. 2, lett. c) ed è il complesso di questa disciplina
(costituita dalla norma richiamante e dal prospetto richiamato) che appare
censurabile per i motivi che verranno di seguito esposti.
Appare opportuno mettere
in evidenza che nessuna norma stabilisce esplicitamente come il “prospetto” debba
essere elaborato; a ogni buon conto, esistono due elementi rilevanti a tal proposito.
Il primo elemento, di carattere meramente logico, attiene al fatto che il
valore della rendita non può essere altro che il risultato di due elementi:
1) la stima del numero di annualità che, in relazione all’aspettativa di
vita di colui alla cui morte la rendita cessa, il beneficiario della rendita
avrà verosimilmente diritto ad avere; 2) la differenza esistente
fra la percezione immediata di una somma (quello che si definisce “valore
presente”) e la sua percezione in futuro.
Per quanto riguarda il primo elemento,
dovrebbe essere di lettura immediata il fatto che per stimare la differenza fra
valore presente e valore futuro si deve utilizzare un metodo tale per cui si
riconduce al momento presente (ossia quello in cui si effettua la valutazione)
un certo numero di pagamenti futuri.
Tale criterio
trova conferma nel secondo elemento cui si faceva cenno e
ha, di converso, rilevanza normativa.
L’art.
46, co. 2, lett. b) pone come criterio di determinazione della rendita a
tempo determinato “il valore attuale” dell’annualità. Tale norma fa,
infatti, espresso riferimento alla formula matematica dell’attualizzazione
la quale costituisce proprio il metodo matematico utilizzato per ricondurre al
momento presente una serie di N pagamenti futuri effettuati a intervalli
costanti.
Pertanto, se si tiene in considerazione l’elemento logico e quello normativo summenzionati, si dovrebbe concludere che il “prospetto” sulla cui base si deve determinare il valore presente della serie di annualità future dovrebbe riflettere puntualmente la formula matematica dell’attualizzazione.
Giova, a tal
proposito, mettere in evidenza che il problema dell’intellegibilità degli
algoritmi è stato affrontato di recente anche dal Presidente nazionale ANTI,
Prof. Ragucci, che ha ribadito che l’esercizio effettivo del diritto di
difesa è legato alla possibilità di vagliare gli algoritmi.
Questo problema
non è oramai futuribile e, difatti, recentemente è stato soggetto al vaglio del
Consiglio di Stato con una recente sentenza, la n. 2370/2019.
Nella suddetta
pronuncia, i giudici di legittimità hanno precisato che il procedimento
amministrativo deve essere caratterizzato dal principio della trasparenza e
deve essere analizzabile in fase di giudizio, anche quando sia basato sull’uso
di un algoritmo (nel caso esaminato
dal Consiglio di Stato la quaestio iuris attiene a una selezione
pubblica di docenti fatta attraverso software).
Quanto detto, si
attaglia anche al caso in questione, in materia del calcolo attuariale per la
determinazione del coefficiente indicato nel citato prospetto allegato per il
calcolo dell’imposta di registro per la rendita vitalizia, che non è evincibile
e che non permette di esercitare in maniera adeguata il diritto di difesa.
Alla luce di tali considerazioni, occorre analizzare le due questioni di legittimità costituzionale dell’art. dell’art. 46, comma 2, lett. c) del D.P.R. n. 131/1986.
4.1 L’illegittimità costituzionale dell’art. 46, comma 2, lett. c) del D.P.R. n. 131/1986, in relazione agli articoli 3 e 53 della Costituzione.
L’art. 46, comma 2, lett. c) del D.P.R. n. 131/1986 è
una norma incostituzionale, in quanto viola gli articoli 3 e 53 della
Costituzione, nella misura in cui subordina il calcolo della base imponibile a
un coefficiente, applicabile in funzione della sola età e, quindi, alle
aspettative di vita legate alla stessa.
Orbene, tanto:
crea un’ingiustificata disparità di trattamento fiscale tra contribuenti che versano in uno stato di salute “normale” e contribuenti per i quali, invece, è stata accertata una lesione dell’integrità psicofisica grave (a esempio del 90%) e che, indubbiamente, non possono avere le stesse aspettative di vita, in palese violazione del principio di uguaglianza costituzionalmente garantito dall’art. 3 della Costituzione;
prescinde dall’effettiva capacità contributiva, di cui all’art. 53, data la non corrispondenza tra i valori determinati dal suddetto coefficiente e quelli reali, ad esempio, per una persona affetta da una grave lesione all’integrità psicofisica, legati all’aspettativa di vita di 10-12 anni, accertata dal CTU in sede di giudizio civile.
4.2 L’illegittimità costituzionaledell’art. 46, comma 2, lett. c) del D.P.R. n. 131/1986 in relazione all’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui fa riferimento e rinvia al prospetto allegato al TUR, in violazione del principio di uguaglianza e di ragionevolezza.
A ciò si aggiunga, altresì, che
l’art. 46, comma 2, lett. c) del TUR, nella parte in cui fa riferimento e
rinvia al prospetto allegato al TUR, viola ulteriormente l’art. 3 della
Costituzione, sotto il profilo sia del principio di eguaglianza, sia del
principio di ragionevolezza.
Per quanto attiene al principio di
eguaglianza, si rileva come del tutto irragionevolmente il prospetto allegato
al TUR, a cui fa espresso rinvio l’art. 46 citato, che stabilisce i
coefficienti da utilizzare per il calcolo del valore della rendita
vitalizia, viene preso a riferimento anche dal successivo art. 48 in
relazione al calcolo dell’usufrutto vitalizio, con la conseguenza
che vengono considerate uguali e disciplinate allo stesso modo due
situazioni completamente diverse tra loro.
Al riguardo, peraltro, non è dato
comprendere come il legislatore abbia ritenuto di utilizzare un identico
prospetto sia per il calcolo della rendita vitalizia sia per il calcolo
dell’usufrutto vitalizio, tenuto conto che sono innegabilmente differenti i
punti di partenza da cui si deve muovere per giungere a determinare il valore
dell’imponibile da sottoporre a tassazione, ovvero:
nel caso
dell’usufrutto vitalizio, al valore imponibile si giunge partendo dal valore
del capitale (vale a dire dal valore del bene sul quale l’usufrutto è
impresso);
nel caso della
rendita vitalizia, al valore imponibile si giunge partendo dal valore della
rendita periodicamente dovuta e operando la sua capitalizzazione mediante la
sua attualizzazione.
Ebbene, se si parte dal valore del
capitale (e cioè dal valore del bene che dall’usufrutto viene gravato), per
ricavare il valore dell’usufrutto vitalizio su detto capitale, il “prospetto”
allegato al T.U.R., attualmente vigente, che si prende ad esempio e che di
seguito si riporta, funziona abbastanza bene.
Età
Coefficiente
0-20
317,50
21-30
300
31-40
282,50
41-45
265
46-50
247,50
51-53
230
54-56
212,50
57-60
195
61-63
177,50
64-66
160
67-69
142,50
70-72
125
73-75
107,50
76-78
90
79-82
72,50
83-86
55
87-92
37,50
93-99
20
Ed infatti, dato un capitale di euro
500.000:
l’usufrutto
vitalizio di un 50enne è pari a euro (500.000 x 0,30 x 247,50 =) 371.250
(contro un valore di nuda proprietà pari a euro 128.750);
l’usufrutto
vitalizio di un 60enne è pari a euro (500.000 x 0,30 x 195=) 292.500 (contro un
valore di nuda proprietà pari a euro 128.750);
l’usufrutto
vitalizio di un 70enne è pari a euro (500.000 x 0,30 x 125 =) 187.500 (contro
un valore di nuda proprietà pari a euro 312.500); mentre, se si ragiona “al
contrario”, ovvero si parte dal valore della rendita che approssimativamente si
può ricavare dividendo il valore dell’usufrutto per il numero di anni di
presunta permanenza in vita dell’usufruttuario (371.250:50; 292.550:40; e
187.500:30), ipotizzandolo longevo fino a 100 anni, si ha che l’imponibile
diventa assurdamente pari a :
euro 7.425 x
247,50 = 1.837.687,50 nel caso del vitaliziando 50enne;
euro 7.314 x
195 = 1.426.230 nel caso del vitaliziando 60enne;
euro 6.250 x
125 = 781.250 nel caso del vitaliziando 70enne.
Orbene, i coefficienti di
moltiplicazione, così come previsti nel prospetto allegato al Testo Unico
dell’imposta di registro, mentre appaiono accettabili nel momento in cui si
tratta di calcolare il valore dell’usufrutto vitalizio, viceversa appaiono
completamente illegittimi, per illogicità ed arbitrarietà, quando si tratta di
calcolare il valore della rendita vitalizia.
Parimenti, l’irragionevolezza e
l’irrazionalità dei coefficienti di calcolo, previsti dal suddetto prospetto,
appare evidente se gli stessi vengono applicati per il calcolo della rendita a
tempo determinato piuttosto che per il calcolo della rendita vitalizia.
Invero, applicando le regole di determinazione della base imponibile della rendita a tempo determinato (una rendita annua di euro 10.000 vale – ipotizzando la vigenza del tasso di interesse legale dello 0,30% [10.000 x 9,837=] euro 98.370se dura 10 anni; [10.000 x 19,384=] euro 193.384 se dura 20 anni e [10.000 x 28,649=] euro 286.490 se dura 30 anni) fuoriescono valori imponibili che, anche “a prima vista”, appaiono senz’altro plausibili, invece applicando le regole che la legge impone per il calcolo della rendita vitalizia fuoriescono risultati assolutamente inspiegabili.
Ed infatti, ipotizzando un’annualità
di euro 10.0000, il valore imponibile della rendita vitalizia è pari: a (10.000
x 247,50 =) euro 2.475.000, se il vitaliziato sia 50enne, a
(10.000 x 195=) euro 1.950.000, se il vitaliziato sia 60enne, a
(10.000 x 125=) euro 1.250.000, se il vitaliziato sia 70enne.
Paradossalmente, una rendita annua
di euro 10.000 costituita per 40 anni a favore di un 70enne vale invece (10.000
x 37,640=) euro 376.400.
Alla luce di tanto, è indiscutibile
come non sia dato comprendere in che modo vengano stabiliti i coefficienti di
moltiplicazione, soprattutto per quanto attiene al calcolo della rendita
vitalizia.
Pertanto, sulla base di quanto sopra
rilevato, tale calcolo è illogico e irrazionale e contrasta con l’articolo 3
della Costituzione.
La bozza di decreto legge fiscale (ancora in fase di definizione) approvata dal Governo, ha riaperto i termini per aderire alla “rottamazione-ter” delle cartelle e per pagare la prima (o unica) rata già scaduta lo scorso luglio. Di fatto, la norma sposta dal 31 luglio al 30 novembre la data per il primo versamento (per chi ha scelto di pagare a rate) o per il saldo (per chi ha optato per il pagamento in un’unica soluzione). La rimessione in termini riguarda anche i soggetti che avevano presentato istanza di rottamazione-bis rimanendo poi inadempienti.
Premessa
L’art.
36 della
bozza di decreto legge fiscale, ha riaperto i termini della rottamazione 3.0. Il testo della norma in esame prevede,
infatti, che il debitore rimasto escluso per non aver assolto al pagamento
della prima rata prevista per lo scorso 31 luglio, possa ancora aderire alla
terza edizione della rottamazione ottemperando al pagamento entro il
prossimo 30 novembre. Sono ammessi anche tutti coloro i quali
abbiano presentato istanza di rottamazione-bis, senza poi provvedere al
pagamento nei termini.
In
buona sostanza, la disposizione in commento parifica la totalità dei debitori
che versano nelle situazioni anzidette, fissando per tutti il termine di
pagamento della prima o unica rata al 30 novembre 2019.
Tuttavia, la disciplina di fondo
resta quella originaria, pertanto dalla
riapertura dei termini continuano a risultare esclusi i ruoli affidati
all’agente della riscossione successivamente al 31 dicembre 2017.
“Rottamazione-ter”:
disciplina generale.
Al fine di operare un’accurata analisi
dell’argomento in esame, occorre inquadrare la disciplina di fondo della
sanatoria e chiarire, in primis, che
l’art. 3 del D.L. n. 119/2018 (convertito con modifiche
in legge 17/12/2018, n. 136 – G.U. n. 293 del 18 dicembre 2018), ha riproposto in un’ottica generale di
“pacificazione fiscale”, la terza edizione della c.d. “rottamazione” delle
cartelle.
Il
provvedimento, sulla falsa riga delle precedenti edizioni (disciplinate
dall’art. 6, D.L. n. 193/2016 e dall’art. 1, D.L. n. 148/2017), ha previsto la
possibilità di definire i carichi affidati all’agente della riscossione nel
periodo compreso tra il 2000 e il 2017. Di fatto, è stata riproposta anche in
questo caso la possibilità di provvedere all’estinzione di un proprio debito
con il Fisco, senza dover versare al contempo gli importi relativi alle
sanzioni e agli interessi di mora.
Una
delle novità di maggior rilievo è da rinvenirsi nella tempistica dei versamenti
delle somme dovute; il decreto legge n. 119/2018 ha, infatti, previsto un numero massimo di 18 rate (per un
massimo di cinque annualità) da
versare:
le
prime due (pari ciascuna al 10%) entro il 31
luglio e il 30 novembre 2019;
le
restanti 16, di pari importo, scadenti il 28
febbraio, il 31 maggio, il 31 luglio e il 30 novembre di ciascun anno a
decorrere dal 2020.
Il
tasso di interesse per fruire della dilazione è stato fissato nella misura del
2% annuo, calcolato a partire dal 1° agosto 2019.
Inoltre, nel caso di pagamento tardivo, è stata prevista
al massimo una tolleranza di cinque giorni; si tratta della c.d. misura del
“lieve inadempimento”, in base alla quale la sanatoria continuerà a ritenersi
efficace, solo laddove il ritardo nel pagamento delle rate non superi i 5
giorni.
Bozza
di decreto fiscale e la riapertura dei termini.
Come
noto, il 30 aprile 2019 è scaduto il
termine ultimo per aderirealla “rottamazione-ter” delle cartelle e il
31 luglio è scaduto il termine per provvedere al pagamento della prima o unica
rata.
A
ogni modo, per la terza versione della rottamazione,
la procedura di adesione non è realmente spirata.
Come già rilevato in premessa, l’art. 36
della bozza del decreto fiscale (ancora in fase di definizione), ha
riaperto i termini per accedere
alla sanatoria de qua.
Più
nel dettaglio, l’art. 36 cit. ha, di fatto, disposto la “Riapertura
del termine di pagamento della prima rata della definizione agevolata di cui
all’articolo 3 del decreto-legge n.119 del 2018” e, in particolare, ha
previsto che:
<<1. La scadenza di
pagamento del 31 luglio 2019
prevista dall’articolo 3, comma 2, lettere a) e b), 21, 22, 23 e 24, del
decreto-legge 23 ottobre 2018, convertito, con modificazioni, dalla legge 17
dicembre 2018, n. 136, è
fissata al 30 novembre 2019.
>>
La bozza di decreto legge
fiscale rimette, quindi, in termini non solo tutti i debitori che hanno
presentato istanza di rottamazione-ter entro la fine dello scorso mese di
aprile, ma anche i soggetti che avevano presentato istanza di rottamazione-bis
rimanendo poi inadempienti entro il 7 dicembre 2018. A tale riguardo, si ricorda che i debitori della
rottamazione-bis che hanno versato entro quest’ultima data le rate in origine
in scadenza a luglio, settembre e ottobre 2018, rientravano ope legis
nella rottamazione-ter, con diritto a pagare le somme residue in 10 rate, con
scadenza il 31 luglio e il 30 novembre di ciascun anno. I soggetti che, invece,
non hanno rispettato la scadenza del 7 dicembre 2018 hanno comunque potuto
presentare la domanda di rottamazione-ter, con pagamento della prima rata
sempre alla fine dello scorso mese di luglio. Anche in questi casi, dunque, in
caso di mancato pagamento della prima rata entro il termine originario, si ha
la possibilità di rientrare nella procedura agevolata effettuando il versamento
entro il prossimo mese di novembre. L’importo da pagare non cambia e si può,
dunque, utilizzare il bollettino iniziale.
Di contro, però, il
differimento del termine di pagamento al 30 novembre (originariamente fissato
al 31 luglio), di certo comporterà un aggravio dal punto di vista finanziario,
alla luce del fatto che sempre per il 30 novembre è previsto il saldo della
seconda rata. Precisamente,
la prima e la seconda rata scadranno contemporaneamente il prossimo 30 novembre
(salvo che il legislatore non disponga altrimenti) e per far fronte alla doppia
rata i contribuenti dovranno certamente reperire importanti disponibilità
liquide di denaro (non potendo, peraltro, operare compensazioni se non che con
crediti certificati verso la p.a. per appalti e forniture).
Ciò
posto, occorre anche chiarire che si tratta di una riapertura dei termini su
cui è stato fissato un vero e proprio perimetro. In primo luogo, non è stata
prevista nessuna estensione ai carichi affidati alla riscossione nel 2018 – detto
in altri termini, saranno rottamabili solo le cartelle consegnate dagli enti
impositori tra il 2000 e il 2017 – e, inoltre, il numero delle rate per il
pagamento della rottamazione ter non sarà più di 18 e spalmato su cinque anni (come
per chi ha aderito entro il 30 aprile e ottemperato al pagamento entro il 31
luglio), bensì di 17 rate con un piano di ammortamento del debito ridotto a circa
quattro anni.
Conclusioni
In
definitiva, a seguito del grande successo ottenuto con le precedenti edizioni
della rottamazione dei ruoli, si è ora chiamati ad assistere a una nuova e ulteriore riapertura dei termini
(la rottamazione-ter aveva, infatti, già subito una riapertura dei termini ex
art. 16-bis della Legge n.
58/2019, di conversione del D.L.
n.34/2019 – c.d. “Decreto Crescita).
La norma, così come indicato nella relazione illustrativa della bozza del decreto fiscale, avrebbe come finalità quella di << … evitare disparità di trattamento tra i debitori che hanno tempestivamente presentato la propria dichiarazione di adesione alla c.d. “rottamazione-ter” entro il 30 aprile 2019 – ovvero che provengono dalla c.d. “rottamazione-bis” o siano stati colpiti dagli eventi sismici verificatisi nel 2016 nell’Italia Centrale – e quelli che hanno fruito della riapertura del termine di relativa presentazione alla data al 31 luglio 2019. Infatti, per i primi il pagamento delle somme dovute avrebbe dovuto essere effettuato in unica soluzione, entro il 31 luglio 2019, ovvero nel numero massimo di rate consecutive prescelte, la prima delle quali scadente alla stessa data. I secondi, viceversa, pur avendo aderito successivamente alla definizione agevolata, pagheranno la prima o unica rata entro il 30 novembre 2019 …>>.
In conclusione, c’è tempo sino al 30 novembre 2019 e si tratta, di certo, di un’occasione che dovrà essere attentamente valutata da ogni singolo contribuente coinvolto, che dovrà essere consapevole del fatto che lo “sconto” previsto dalla riapertura dei termini della rottamazione-ter sarà lo stesso delle precedenti edizioni e che, di contro, per chi rateizza, il tasso d’interesse sarà del 2 % e che il pagamento potrà essere dilazionato in circa 4 anni mediante un piano di ammortamento di 17 rate.
In questi giorni, in occasione della manovra finanziaria
2020, si parla tanto di combattere l’evasione fiscale, anche con la previsione
di rivedere in peius il sistema penale -tributario.
A scanso di equivoci, faccio presente che è giusto combattere
l’evasione fiscale, anche se le cifre che vengono pubblicate non mi convincono
del tutto in quanto basate su generiche presunzioni.
In ogni caso, secondo me, ciò che manca nell’attuale
dibattito politico e mediatico è l’approfondimento sul concetto di “evasione fiscale”
e, soprattutto, l’analisi sui grossi limiti di difesa che ha l’onesto cittadino
– contribuente al quale viene notificato un avviso di accertamento o una
cartella esattoriale per importi non dovuti.
È bene subito chiarire che, oggi, oltre la classica evasione
fiscale, che consiste nel non dichiarare o dichiarare parzialmente il reddito
prodotto, esiste anche:
l’evasione da interpretazione, causata da una normativa fiscale complessa, confusa e
contraddittoria; tale tipo di evasione, per esempio, si ha quando gli uffici
fiscali contestano un’agevolazione tributaria o il mancato rispetto della
competenza, disconoscendo i costi di un periodo d’imposta e costringendo il
contribuente a chiedere il rimborso per l’altro periodo d’imposta in cui ha
dichiarato di più;
l’evasione causata dai ritardi della pubblica amministrazione, che costringe il contribuente a
pagare tempestivamente le tasse, mentre si deve attendere mesi o anni per
incassare il dovuto; questa assurda situazione porta poi il contribuente ad arretrarsi
con i pagamenti, con il rischio di gravi sanzioni fiscali e penali.
Chiarito che, quando si parla di evasione fiscale non si deve
fare di tutta un’erba un fascio, l’altro importante tema che viene
sistematicamente e pubblicamente ignorato è la grave limitazione che ha il
contribuente nell’esercitare correttamente ed efficacemente il proprio diritto
di difesa (art. 24 della Costituzione).
Oggi, infatti, per il principio del c.d. “doppio binario”, il
contribuente, in alcune particolari situazioni, con il rischio di sentenze
contrastanti e contraddittorie, deve difendersi:
in sede penale,
con la possibilità di utilizzare tutti gli strumenti di difesa, come la
testimonianza; in ogni caso, la minaccia penale non ha mai risolto il problema
dell’evasione fiscale, tanto è vero che, oggi, rispetto al totale dei detenuti
presenti in carcere al 30 settembre 2019, in tutto 60.881, i detenuti per reati
fiscali rappresentano lo 0,5% scarso;
in sede tributaria, presso le
Commissioni tributarie, composte da giudici a tempo parziale, nominati su
proposta del Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF), che percepiscono 15
euro nette a sentenza depositata e nulla per le sospensive; inoltre, nel
processo tributario, è vietato il giuramento e la testimonianza, mentre la
Guardia di Finanza e gli Uffici fiscali possono raccogliere le dichiarazioni di
terzi.
Oggi, in Parlamento, sono presenti sei disegni di legge per
una generale ed organica riforma della giustizia tributaria, con la previsione
di giudici professionali, competenti, vincitori di concorso pubblico, ben
retribuiti e dipendenti dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e non più
dal MEF, come ho più volte scritto nei miei articoli pubblicati sul mio sito (www.studiotributariovillani.it).
Nell’attuale caotica e complessa situazione del fisco
italiano, non dobbiamo meravigliarci se poi gli imprenditori si suicidano,
falliscono o trasferiscono la propria sede all’estero (in particolare, in
Olanda, Lussemburgo e Irlanda), facendo perdere opportunità e posti di lavoro
in Italia.
Si continua, invece, a minacciare la confisca per
sproporzione e la responsabilità amministrativa delle imprese, come per i reati
di mafia !!!!!
Secondo me, invece, bisogna assolutamente ridurre le imposte
e semplificare gli adempimenti fiscali, incidendo fortemente sull’elefantiaca
spesa pubblica.
Già oggi ci sono gli strumenti, amministrativi e penali, per
combattere efficacemente e seriamente l’evasione fiscale, senza crearne dei
nuovi (come per esempio gli ISA che tanti problemi stanno creando ai
contribuenti) o minacciarne altri.
Soprattutto, però, bisogna consentire al contribuente di potersi veramente difendere senza lacci e lacciuoli davanti ad un giudice terzo ed imparziale, in condizione di parità, come prescrive l’art. 111, secondo comma, della Costituzione, sino ad oggi totalmente ignorato.
AVV. MAURIZIO VILLANI Avvocato Tributarista in Lecce Patrocinante in Cassazione
Va ribadito il principio affermato dalla
Corte di Cassazione per il quale l’onere della prova dei presupposti di
applicabilità dell’art. 170 c.c. (esecuzione sui beni e sui frutti), ed in
particolare che il debito per cui si procede sia stato contratto per scopi
estranei ai bisogni della famiglia e che il creditore sia a conoscenza di tale
estraneità, grava sulla parte che intende avvalersi del regime di
impignorabilità dei beni costituiti in fondo patrimoniale (Cass. 19/02/2013, n.
4011; Cass. 30/05/2007, n. 12730; Cass. 31/05/2006, n. 12998).
La Corte di Cassazione, con la sentenza
del 5/03/2013, n. 5385, proprio in relazione ad una iscrizione ipotecaria
effettuata dall’esattore sui beni di un fondo patrimoniale, ha affermato che
l’art. 170 c.c., nel disciplinare le condizioni di ammissibilità
dell’esecuzione sui beni costituiti nel fondo patrimoniale, detta una regola
applicabile anche all’iscrizione di ipoteca non volontaria, ivi compresa quella
di cui all’art. 77 del D.P.R. 3 marzo 1973, n. 602, con la conseguenza che
l’esattore può iscrivere ipoteca su beni appartenenti al coniuge o al terzo,
conferiti nel fondo, qualora il debito facente capo a costoro sia stato
contratto per uno scopo non estraneo ai bisogni familiari, e quando, ancorché
sia stato contratto per uno scopo estraneo a tali bisogni, il titolare del
credito, per il quale l’esattore procede alla riscossione, non conosceva
l’estraneità ai bisogni della famiglia; viceversa, l’esattore non può iscrivere
l’ipoteca su detti beni e l’eventuale iscrizione è illegittima se il creditore
conosceva tale estraneità.
Con la sentenza appena citata la Corte di
Cassazione ha anche ribadito che il coniuge (o il terzo) titolare del bene
facente parte del fondo patrimoniale, che si faccia attore contestando la
legittimità dell’iscrizione ipotecaria perché avvenuta al di fuori delle
condizioni legittimanti, previste dall’art. 170 c.c., assume l’onere di
allegare e dimostrare i fatti costitutivi dell’illegittimità dell’iscrizione,
evidenziando che tra tali fatti vi è, innanzi tutto, l’essere stato il debito
del coniuge (o del terzo), in relazione al quale si è proceduto all’iscrizione,
contratto per uno scopo estraneo ai bisogni della famiglia, e che siffatto
attore deve, inoltre, allegare e dimostrare che tale estraneità era conosciuta
dal creditore che abbia iscritto l’ipoteca.
Tanto premesso, occorre rilevare che
l’iscrizione ipotecaria fiscale di cui all’art. 77 del D.P.R. n. 602 del 1973 è
ammissibile anche sui beni facenti parte di un fondo patrimoniale alle
condizioni indicate dall’art. 170 c.c., circostanze che non possono ritenersi
dimostrate, né escluse, per il solo fatto dell’insorgenza del debito
nell’esercizio dell’impresa (Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 23876 del 23/11/2015;
Cassazione – Sesta Sezione Civile – Ordinanza n. 19758 depositata il 23 luglio
2019).
In tema di fondo patrimoniale, il criterio
identificativo dei debiti per i quali può avere luogo l’esecuzione sui beni del
fondo va ricercato non già nella natura dell’obbligazione ma nella relazione
tra il fatto generatore di essa ed i bisogni della famiglia, sicché anche un
debito di natura tributaria sorto per l’esercizio dell’attività imprenditoriale
può ritenersi contratto per soddisfare tale finalità, fermo restando che essa
non può dirsi sussistente per il solo fatto che il debito derivi dall’attività
professionale o d’impresa del coniuge, dovendosi accertare che l’obbligazione
sia sorta per il soddisfacimento dei bisogni familiari (nel cui ambito vanno
incluse le esigenze volte al pieno mantenimento ed all’univoco sviluppo della
famiglia) ovvero per il potenziamento della di lui capacità lavorativa, e non
per esigenze di natura voluttuaria o caratterizzate da interessi meramente
speculativi (Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 3738 del 24/02/2015).
AVV. MAURIZIO VILLANI Avvocato Tributarista in Lecce Patrocinante in Cassazione
Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, da ultimo consolidatasi, che ha innovato rispetto ad un precedente e diverso orientamento (cfr., ad es., Cass. n. 2263 del 03/02/2014), «l’agevolazione di cui all’art. 19 della L. n. 74 del 1987, nel testo conseguente alla declaratoria di incostituzionalità (Corte Cost., sentenza n. 154 del 1999), spetta per gli atti esecutivi degli accordi intervenuti tra i coniugi in esito alla separazione personale o allo scioglimento del matrimonio, atteso il carattere di “negoziazione globale” attribuito alla liquidazione del rapporto coniugale per il tramite di contratti tipici in funzione di definizione non contenziosa, i quali, nell’ambito della nuova cornice normativa (da ultimo culminata nella disciplina di cui agli artt. 6 e 12 del D. L. n. 132 del 2014, conv. con modif. nella L. n. 162 del 2014), rinvengono il loro fondamento nella centralità del consenso dei coniugi» (così Cass. n. 2111 del 03/02/2016).
In specifica applicazione del predetto principio, è stato evidenziato che:
«in tema di agevolazioni “prima casa”, il trasferimento dell’immobile prima del decorso del termine di cinque anni dall’acquisto, se effettuato in favore del coniuge in virtù di una modifica delle condizioni di separazione, pur non essendo riconducibile alla forza maggiore, non comporta la decadenza dai benefici fiscali, attesa la “ratio” dell’art. 19 della L. n. 74 del 1987, che è quella di favorire la complessiva sistemazione dei rapporti patrimoniali tra i coniugi in occasione della crisi, escludendo che derivino ripercussioni fiscali sfavorevoli dagli accordi intervenuti in tale sede» (così Cass. n. 8104 del 29/03/2017; conf. Cass. n. 13340 del 28/06/2016; sempre in tema di agevolazioni “prima casa” si veda anche, sotto il diverso profilo della insussistenza dell’intento speculativo, Cass. n. 5156 del 16/03/2016; Cass. n. 22023 del 21/09/2017).
Orbene, il principio espresso da Cass. n. 2111 del 2016 con riferimento ad un trasferimento immobiliare avvenuto all’interno del nucleo familiare è di portata assolutamente generale e, dunque, si può estendere anche all’ipotesi nella quale i coniugi si sono determinati, in sede di accordi conseguenti alla separazione personale, a trasferire l’immobile acquistato con le agevolazioni per la prima casa ad un terzo.
Infatti, come opportunamente precisato dalla Corte di Cassazione – Sez. Tributaria – con l’ordinanza n. 7966 depositata il 21/03/2019:
a) l’art. 19 della L. n. 74 del 1987 dispone in via assolutamente generale l’esenzione dall’imposta di bollo, di registro e da ogni altra tassa degli atti stipulati in conseguenza del procedimento di cessazione degli effetti civili del matrimonio e, a seguito di Corte Cost. n. 154 del 1999, anche del procedimento di separazione personale tra coniugi, senza alcuna distinzione tra atti eseguiti all’interno della famiglia e atti eseguiti nei confronti di terzi;
b) la ratio della menzionata disposizione è senza dubbio quella di agevolare la sistemazione dei rapporti patrimoniali tra coniugi a seguito della separazione o del divorzio;
c) recuperare l’imposta in conseguenza della inapplicabilità dell’agevolazione fiscale sulla prima casa da parte dell’Erario significherebbe sostanzialmente imporre una nuova imposta su di un trasferimento immobiliare avvenuto in esecuzione dell’accordo tra i coniugi e, pertanto, andare palesemente in senso contrario alla ratio della disposizione, così come definita sub b).
Del resto, l’atto stipulato dai coniugi in sede di separazione personale (o anche di divorzio) e comportante la vendita a terzi di un immobile in comproprietà e la successiva divisione del ricavato, pur non facendo parte delle condizioni essenziali di separazione, rientra sicuramente nella negoziazione globale dei rapporti tra i coniugi ed è, pertanto, meritevole di tutela, risiedendo la propria causa – contrariamente a quanto ritenuto dall’Agenzia delle Entrate nella circolare n. 27/E del 21 giugno 2012 – nello «spirito di sistemazione, in occasione dell’evento di separazione consensuale, dei rapporti patrimoniali dei coniugi sia pure maturati nel corso della convivenza matrimoniale» (Cass. n. 16909 del 19/08/2015).
Il diverso orientamento espresso da Cass. n. 860 del 17/01/2014, per la quale «l’agevolazione di cui all’art. 19 della legge 6 marzo 1987, n. 74, per gli atti esecutivi degli accordi intervenuti tra i coniugi, sotto il controllo del giudice, per regolare i loro rapporti patrimoniali conseguenti allo scioglimento del matrimonio o alla separazione personale (..), spetta solo se i soggetti che li pongano in essere siano gli stessi coniugi che hanno concluso i suddetti accordi, e non anche terzi», deve ritenersi espressione dell’orientamento ormai superato.
Anche l’Agenzia delle Entrate, ultimamente, con la risoluzione n. 80/E del 09/09/2019 si è definitivamente adeguata ai suddetti principi.
In definitiva, in caso di vendita di un’abitazione avente i requisiti prima casa entro i cinque anni dal suo acquisto, non si decade più dall’agevolazione fiscale anche laddove il coniuge venditore non acquisti entro un anno un’altra abitazione con i medesimi requisiti se la vendita sia il risultato di un accordo raggiunto in sede di separazione.
Tale alienazione può indistintamente avere come attori entrambi i coniugi o i coniugi ed un terzo.
La Corte di Cassazione ha da tempo
affermato il principio secondo cui l’obbligo motivazionale dell’accertamento
deve ritenersi adempiuto tutte le volte in cui il contribuente sia stato posto
in grado di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali e,
quindi, di contestare efficacemente “l’an” ed il “quantum” dell’imposta.
In particolare, il requisito motivazionale
esige, oltre alla puntualizzazione degli estremi soggettivi ed oggettivi della
posizione creditoria dedotta, l’indicazione dei fatti astrattamente giustificativi
di essa, che consentano di delimitare l’ambito delle ragioni adducibili
dall’ente impositore nell’eventuale successiva fase contenziosa, restando, poi,
affidate al giudizio di impugnazione dell’atto le questioni riguardanti
l’effettivo verificarsi dei fatti stessi e la loro idoneità a dare sostegno
alla pretesa impositiva (Cass., sez. 5, 8/11/2017, n. 26431).
La Corte di Cassazione ha da tempo
affermato il principio secondo cui l’obbligo motivazionale dell’accertamento
deve ritenersi adempiuto tutte le volte in cui il contribuente sia stato posto
in grado di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali e,
quindi, di contestare efficacemente “l’an” ed il “quantum” dell’imposta.
In particolare, il requisito motivazionale
esige, oltre alla puntualizzazione degli estremi soggettivi ed oggettivi della
posizione creditoria dedotta, l’indicazione dei fatti astrattamente giustificativi
di essa, che consentano di delimitare l’ambito delle ragioni adducibili
dall’ente impositore nell’eventuale successiva fase contenziosa, restando, poi,
affidate al giudizio di impugnazione dell’atto le questioni riguardanti
l’effettivo verificarsi dei fatti stessi e la loro idoneità a dare sostegno
alla pretesa impositiva (Cass., sez. 5, 8/11/2017, n. 26431).
Le
nuove agevolazioni fiscali previste per gli atleti professionisti che decidono
di trasferirsi in Italia per svolgere le proprie attività sportive sono oggetto
di un’importante novità introdotta dall’art. 5, comma1, del Decreto Crescita
2019, D.L. 30 aprile 2019 n.34, pubblicato
in Gazzetta Ufficiale e attualmente in discussione alla Camera per la
conversione in legge.
Detto decreto, infatti, nel prevedere
una serie di misure finalizzate a sostenere lo sviluppo economico,
scientifico e culturale del nostro Paese, con il solo obiettivo di attrarre
risorse umane nel nostro territorio, ha previsto una norma quale l’art. 5,
comma 1, che, se approvata dal Parlamento, sarà destinata ad avere un’incidenza
concreta e innovativa nel mondo del calcio professionistico, riconoscendo importanti
vantaggi fiscali non solo ai giocatori stranieri che decidono di trasferirsi in Italia spostando
la propria residenza fiscale, ma anche ai diversi club sportivi che avranno la
possibilità di fruire di notevoli risparmi fiscali aumentando il loro potere di
acquisto.
In particolare,
la nuova normativa prevede un’esenzione ai fini IRPEF del 70% dei redditi di
lavoro autonomo o dipendenti,percepiti da tutte quelle categorie di
lavoratori italiani o stranieri che sono stati residenti all’estero per almeno
due anni e che decidono di trasferirsi in Italia impegnandosi a rimanervi per
almeno un biennio. Per questi soggetti, infatti, è previsto uno sconto
IRPEF fino al 70% con la possibilità
di aumentare questo sgravio fiscale fino al
90% se stabiliscono la propria residenza in una delle regioni del Sud
Italia.
Le modifiche apportate dall’art. 5 del Decreto Crescita 2019 all’art. 16 del D.lgs n. 147/2015 e i vantaggi fiscali per i calciatori professionisti.
L’art.
5 del Decreto Crescita 2019 denominato “rientro dei cervelli” ha
apporto significative modifiche al regime dei lavoratori impatriati di cui all’art.
16 del D.lgs n.147/2015, consentendo di estendere le agevolazioni fiscali a
diverse categorie di lavoratori tra cui anche gli atleti professionisti.
A riguardo, seppur nel testo si faccia
riferimento allo specifico regime del “rientro dei cervelli”, ovvero a quella
categoria di lavoratori inizialmente dotati di “un’elevata qualificazione o
specializzazione professionale”, si deve ritenere che, con la nuova
formulazione dell’art. 16 del D.L.gs 147/2015, così come modificato dall’art. 5
del decreto crescita 2019, il nuovo
regime fiscale agevolativo viene esteso anche nei confronti degli atleti professionisti
stranieri e, dunque, anche nei confronti dei calciatori e allenatori stranieri sprovvisti
di un titolo di studio o di particolari specializzazioni professionali.
Ecco perché il nuovo regime fiscale agevolativo,
previsto dall’art. 5 del D.L. 34/2019, è destinato ad assumere rilevanza anche
nel mondo del calcio professionistico, così
come in altre discipline sportive, proprio in
conseguenza del venir meno del requisito dell’elevata qualificazione o specializzazione
professionale dell’atleta professionista.
Detto
ciò, il calciatore professionista straniero che si trasferisce in Italia e
sposta la propria residenza fiscale nel nostro paese, ha
diritto a godere del regime fiscale agevolato e di detassare al 70%, ai fini
IRPEF, i redditi prodotti da lavoro dipendente in Italia, con conseguente
tassazione del reddito imponibile nella sola misura del 30%.
Ciò sta a
significare che la tassazione verrà calcolata solo sul 30% dello stipendio
percepito dal calciatore professionista, potendo godere di una
detassazione, per 5 anni, del 70% del reddito di lavoro dipendente. A riguardo, si
ricorda che la circolare 37/E/2013 ha qualificato il reddito corrisposto dal
club sportivo al proprio giocatore come reddito da lavoro dipendente.
Per di più, un’ulteriore riduzione del
reddito imponibile (pari al 90%) è stata prevista nel caso in cui il calciatore
professionista decida di trasferirsi nelle regioni del Sud-Italia (Abruzzo,
Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sardegna e Sicilia).
Infatti, il trasferimento in una di
queste regioni del Meridione, comporta la detassazione al 90% del reddito di lavoro dipendente o autonomo prodotto
in Italia, con conseguente tassazione del reddito imponibile nella sola misura
del 10%. In particolare, questa
agevolazione permette un incentivo in più per i club calcistici del Meridione
ovvero, considerando la serie A per il campionato 2019/2020, per le società
sportive del Napoli e del Lecce.
Per i
calciatori professionisti che decidono di trasferirsi in una squadra del sud
Italia, infatti, il prelievo fiscale verrà calcolato solo sul 10% anziché sul
30% dell’ammontare complessivo del compenso riconosciuto dal club.
Tuttavia,
per usufruire di queste agevolazioni il calciatore professionista impatriato
dovrà rispettare le tre condizioni previste dalla normativa in oggetto ovvero:
aver
avuto una residenza fiscale all’estero per almeno due anni precedenti al
trasferimento in Italia;
l’impegno
a mantenere la residenza fiscale in Italia per almeno due anni successivi al
trasferimento;
lo svolgimento
dell’attività lavorativa prevalentemente in Italia
Questo nuovo regime
agevolativo trova applicazione a partire dall’anno in cui il giocatore
professionista si trasferisce in Italia, trasferendo la propria residenza
fiscale, e nei successivi quattro anni.
Decorso tale periodo,
nei successivi cinque anni il reddito imponibile verrà detassato al 50% ove lo
sportivo professionista abbia un figlio minorenne a carico ovvero abbia
acquistato un’abitazione in Italia.
Queste sono alcune
delle novità introdotte dall’art.
5, comma 1,del
D.L. 34/2019, secondo cui:
“i
redditi di lavoro dipendente, i redditi assimilati a quelli di lavoro
dipendente e i redditi di lavoro autonomi prodotti in Italia da lavoratori che
trasferiscono la residenza nel territorio dello Stato ai sensi dell’art. 2 del
Decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, concorrono
alla formazione del reddito complessivo limitatamente al 30 per cento del loro
ammontare al ricorrere delle seguenti condizioni:
i lavoratori
non sono stati residenti in Italia nei due periodi d’imposta precedenti il
predetto trasferimento e si sono impegnati a risiedere in Italia per almeno due
anni;
l’attività
lavorativa è prestata prevalentemente nel territorio italiano…”
Come si può notare, il testo dell’art. 5, comma 1, del Decreto Crescita
2019 ha sostituito il comma 1
dell’art. 16 del D.lgs n.147/2015,
rubricato “Regime speciale per lavoratori
impatriati”, introducendo due importanti novità:
si sono semplificate le condizioni per
accedere al regime fiscale di favore
estendendo le agevolazioni fiscali anche a tutti quei lavoratori privi dei
requisiti di elevata qualificazione o specializzazione professionale e,
precisamente, riconoscendo le agevolazioni fiscali a tutti quei lavoratori che non sono
stati residenti in Italia nei due periodi
d’imposta precedenti il predetto trasferimento e che si impegnano a ivi risiedere
per almeno due anni lavoratori,
svolgendo la propria attività prevalentemente nel territorio italiano.
In
sostanza l’art. 5 è stato
pensato con il solo scopo di favorire l’arrivo o il rientro in Italia di tutti
quei lavoratori (stranieri o italiani) professionisti e non che, essendo residenti
all’estero da almeno due anni, hanno adesso la possibilità di trasferirsi in
Italia per svolgere la propria attività lavorativa usufruendo di un regime
fiscale agevolato che sarà attivato dal 1 gennaio 2020.
In questi termini, i calciatori stranieri
professionisti che decidono di spostarsi in un club italiano nel corso del
calcio mercato 2019 potranno beneficiate della tassazione ridotta al 30% dei
redditi percepiti, tassazione ulteriormente ridotta al 10% se il trasferimento
avviene in un club di una regione del meridione. Ciò
comporterebbe un notevole vantaggio fiscale non solo per il calciatore
professionista, che pagherebbe meno tasse, ma anche per la società sportiva che
pagherebbe meno l’ingaggio del calciatore aumentando il proprio potere
d’acquisto.
Per di più, il nuovo regime agevolato troverebbe
applicazione sia nel caso in cui il club sportivo stipuli un contratto di
prestazione sportiva con un calciatore professionista proveniente dall’estero e
che non abbia mai risieduto in Italia (calciatore straniero), sia nel caso in
cui il club sportivo stipuli un contratto di prestazione sportiva con un
calciatore professionista italiano che abbia risieduto in Italia fino al 2017, e
che successivamente abbia trasferito la propria residenza all’estero nei due
anni precedenti al trasferimento in Italia.
Sul punto, occorre precisare che per tutti quei
giocatori professionisti italiani che hanno risieduto all’estero per almeno due
anni e che decidono di rientrare in Italia, una
delle particolari novità introdotte dall’art. 5 del decreto crescita 2019
riguarda l’eliminazione dell’obbligo
d’iscrizione all’AIRE (Anagrafe dei residenti italiani
all’estero).
A tal
proposito il testo del Decreto Crescita ha aggiunto al comma 6 dell’ art. 16 del D.lgs.n.147/2015, al fine direndere più
agevole l’accesso alla predetta agevolazione fiscale, la disposizione che
prevede per i lavoratori rimpatriati la non obbligatorietà dell’iscrizione all’AIRE nei periodi trascorsi all’estero, purché i
predetti soggetti abbiano avuto la
residenza in un altro Stato ai sensi di una convenzione contro le doppie
imposizioni sui redditi.
Un’altra novità introdotta
dall’art 5 è inerente alla disposizione normativa, contenuta nell’art. 16 del D.lgs n.147/2015, che prevede l’applicazione dell’agevolazione fiscale per ulteriori
cinque periodi di imposta anche nel caso in cui i lavoratorio giocatori
diventino proprietari di almeno
un’unità immobiliare di tipo residenziale in Italia, successivamente al
trasferimento in Italia o nei dodici mesi precedenti allo stesso.
Pertanto, per l’applicazione di tale
agevolazione fiscale, l’unità immobiliare può essere acquistata dopo il
trasferimento in Italia o nei dodici mesi precedenti allo stesso e, inoltre,
tale acquisto può essere effettuato direttamente dal calciatore professionista
oppure dal coniuge, dal convivente o dai figli, anche in comproprietà.
In entrambi i casi (acquisto in Italia
dopo il trasferimento o nei dodici mesi antecedenti allo stesso), i redditi di
cui al comma 1, negli ulteriori cinque periodi di imposta, concorrono alla
formazione del reddito complessivo limitatamente al 50% del loro
ammontare.
Nel caso di lavoratori che abbiano
almeno tre figli minorenni o a carico, anche in affido preadottivo, il comma
3-bis prevede che i redditi contemplati al comma 1 dell’art. 16 cit.,
concorrono alla formazione del reddito complessivo limitatamente al dieci per
cento del loro ammontare, negli ulteriori cinque periodi d’imposta. In
quest’ultimo caso, a differenza dell’acquisto dell’immobile, il comma 3-bis non
pone chiarezza sul fatto se tali requisiti debbano sussistere all’atto del
trasferimento in Italia o alla fine del periodo standard di agevolazione o,
ancora, se debbano permanere fino al termine degli ulteriori cinque anni.
Ulteriori modifiche al testo del Decreto
Crescita 2019 in sede di conversione
Alla
luce di quanto su esposto occorre, tuttavia, non dimenticare che il testo del
Decreto Crescita 2019, attualmente in discussione alla Camera per la
conversione in legge, potrebbe subire ulteriori modifiche a partire da lunedì
10 giugno 2019.
Infatti,
in questi giorni è stato presentato alla Camera un emendamento che prevede
delle modifiche alla bozza del decreto crescita al fine di garantire un regime
fiscale più favorevole, garantendo una parità di trattamento a tutti lavoratori
impatriati ed evitare così regimi di tassazione differenti.
Più
specificamente, per limitare gli effetti della creazione di un vero e proprio vantaggio
fiscale che sia favorevole solo per alcune categorie di lavoratori è stato presentato
alla Camera un emendamento che prevede delle limitazioni a coloro i quali si
applica la legge n. 91/1981 (legge sul professionismo sportivo).
In
particolare, viene stabilito che, fermo restando le agevolazioni fiscali di cui
all’art.
16 del D.lgs n. 147/2015:
Per di
più, qualora i calciatori professionisti impatriati scelgano di aderire al
regime agevolato dovranno versare un contributo dello0,5%della
base imponibile,denominato contributo dello sport, che sarà
destinato al potenziamento dei settori giovanili.
Tutte
queste novità, anche se non ancora approvate in quanto oggetto di discussioni
Parlamentari, saranno stabilite con un decreto della Presidenza del Consiglio
dei Ministri che fisserà le regole e le modalità di attuazione delle nuove
disposizioni.
Pertanto,
per una definitiva valutazione della succitata normativa, non resta che
attendere la conversione in legge del decreto che, quanto prima ci sarà.
Analisi
sui regimi tributari dei calciatori in Europa, Russia e Turchia
Da ultimo, si riporta un recente articolo pubblicato sul
giornale “Italia Oggi” di sabato 08 giugno 2019, dove l’esperto di diritto
sportivo Avv. Guido Gallovich ha analizzato i diversi regimi fiscali che ogni
campionato europeo applica ai propri giocatori professionisti.
Da questa analisi si è potuto constatare che lo stesso
stipendio netto, pagato in leghe diverse, presenta costi diversi per il club
sportivo che lo corrisponde. In
particolare, si è analizzato quanto costa alla società sportiva lo stipendio di
un milione di euro al proprio calciatore professionista. Per rispondere a
questa domanda si è tenuto conto dei dati sui regimi fiscali dei vari paesi Ue
forniti dalla società Kpmg nel rapporto “European champions report”.
Il report, infatti, ha analizzato i costi che le società
devono pagare per corrispondere ai calciatori uno stipendio netto di un milione
di euro.
Il paese con il peso fiscale maggiore è la Francia visto che lo stipendio netto di un milione di euro netti al giocatore professionista comporta un costo per la squadra di 2,74 milioni
Al secondo posto si classifica il Portogallo dove si arriva a 2,46 milioni, seguito dall’Inghilterra con i suoi 2,12 milioni di euro totali;
Per l’Italia, ad oggi, il costo totale che una società deve sostenere per pagare un milione di euro netti a un calciatore è di 1,97 milioni, tuttavia il decreto crescita in discussione in questi giorni alla Camera, attuerà delle modifiche, garantendo un regime fiscale più favorevole.
In coda alla classifica troviamo due paesi che, negli ultimi anni, stanno crescendo a livello di apple sportivo: la Turchia dove il costo viene maggiorato del 19% rispetto al netto e la Russia che grazie alla flat tax sui redditi fissata al 13% risulta particolarmente vantaggiosa per coloro che percepiscono stipendi elevati.
QUADRO SINOTTICO
“Art. 5, DECRETO-LEGGE
30 aprile 2019, n. 34: il regime agevolativo dei “cervelli in fuga”,
Questo contributo si pone l’obiettivo di
individuare, in maniera lineare e schematica le modifiche apportate
dal Decreto Crescita D.L.n.34/2019 all’. 16 del D.lgs. n. 147/2015
MODIFICHE art. 16 del D.lgs. n. 147/2015: si applicano ai soggetti
che trasferiscono la residenza in Italia, ai sensi dell’articolo 2 TUIR, a
partire dal periodo d’imposta successivo a quello in corso alla data di
entrata in vigore del D.L. n. 34/2019 (dall’anno 2020).
Comma
1 dell’ art. 16 del D.lgs. n. 147/2015 (sostituito dall’art. 5,
comma 1, lett. a) del D.L. n. 34/2019)
I redditi di lavoro
dipendente, i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente e i redditi di
lavoro autonomo prodotti in Italia da lavoratori che trasferiscono la
residenza nel territoriodello Stato ai sensi dell’articolo 2 TUIR, concorrono alla formazione del reddito
complessivo, limitatamente al 30 % del
loro ammontare, qualora ricorrano i seguenti presupposti:
a) i lavoratori non sono stati residenti in Italia
nei due periodi d’imposta
precedenti il predetto trasferimento e si impegnano a risiedere in Italia per almeno due anni;
b) l’attività lavorativa è prestata prevalentemente nel territorio italiano.–
Probabili modifiche possono essere apportate per quanto riguarda la
categoria degli atleti professionisti (emendamento ancora in discussione alla
Camera) – i redditi da lavoro dipendente per i
calciatori professionisti impatriati concorrono alla formazione del reddito
complessivo limitatamente al 50% del loro ammontare –
ai calciatori non si applicano gli sconti ulteriori previsti dall’art. 5, se
stabiliscono la residenza nelle regioni meridionali. Questo perché si
rischierebbe di alterare i regimi di tassazione differenti.
Comma
1-bis art. 16 del D.lgs. n.1 47/2015 (sostituito dal comma 1,
lett. b) dell’art. 5 del D.L. n.3 4/2019)
E’ stata ammessa la possibilità di beneficiare del
regime dei soggetti titolari di reddito assimilato a quello da lavoro dipendente
anche ai titolari di reddito d’impresa, a condizione che trasferiscano la
residenza in Italia a partire dal 2020.
Comma 3-bis
dell’art. 16 del D.lgs n. 147/2015 ( aggiunto dal comma 1, lett. c) dell’art. 5 del
D.L. n. 34/2019)
Sono introdotte maggiori agevolazioni fiscali per ulteriori cinque anni
in presenza di specifiche condizioni:
per i lavoratori con almeno un figlio minorenne o a carico, anche in affido
preadottivo;
per i lavoratori che diventino proprietari di almeno un’unità
immobiliare di tipo residenziale in Italia o nei dodici mesi precedenti
al trasferimento
I redditi di cui al comma 1 dell’art. 16 cit. concorrono
alla formazione del reddito complessivo limitatamente al 50% del loro ammontare.
per i lavoratori che abbiano almeno tre figli minorenni o a
carico, anche in affido preadottivo, i redditi di cui al c.1 dell’art.16
cit. concorrono alla formazione del reddito complessivo, limitatamente al 10% del loro ammontare.
Comma
5-bis dell’art. 16 del D.lgs. n. 147/2015 (aggiunto
dal comma 1, lett. d) dell’art. 5 del D.L. n. 34/2019)
I redditi di cui al comma 1
dell’art. 16 cit., concorrono alla formazione del reddito complessivo
limitatamente al 10% del loro
ammontare per i soggetti che trasferiscono la residenza in una delle
seguenti regioni: Abruzzo, Molise,
Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sardegna, Sicilia.
Comma
5-ter dell’art. 16 del D.lgs. n.
147/2015 (aggiunto dal comma 1, lett. e) dell’art. 5 del D.L. n. 34/2019)
I cittadini italiani non iscritti all’Anagrafe degli
Italiani Residenti all’Estero (AIRE) rientrati in Italia a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31
dicembre 2019 possono accedere ai predetti benefici fiscali:
purchè abbiano avuto la residenza in un altro Stato
ai sensi di una convenzione contro le
doppie imposizioni sui redditi, eliminata
la condizione d’iscrizione all’AIRE per usufruire dell’agevolazione
fiscale de qua.
Ai cittadini italiani non iscritti all’AIRE rientrati in
Italia entro il 31 dicembre 2019 spettano:
benefici fiscali di cui al presente articolo nel testo vigente al 31 dicembre 2018,
purchè abbiano avuto la residenza in un altro Stato ai sensi di una convenzione contro le doppie imposizioni; relativi ai
periodi d’imposta per i quali siano stati notificati atti impositivi ancora
impugnabili, ovvero oggetto di controversie pendenti in ogni stato e grado
del giudizio nonché per i periodi d’imposta per i quali non sono decorsi i
termini di cui all’articolo 43 del D.P.R. n.
600 del 29 settembre 1973 (ossia,
termini per notificare avviso di accertamento).
a cura degli avvocati Maurizio Villani Alessandra Rizzelli
Con un’importante ordinanza, n. 13174 del 16 maggio 2019, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso proposto da un contribuente, rappresentato e difeso dall’ Avv. Maurizio Villani, avente ad oggetto due avvisi di accertamento emessi dall’Agenzia delle Entrate a seguito di indagini bancarie.
In particolare, mediante la produzione in giudizio di
dichiarazioni sostitutive dei familiari che avevano affermato che le ingenti
somme contestate erano pervenute al contribuente per donazione paterna, veniva
dimostrata l’illegittimità ed infondatezza delle contestazioni mosse dall’Agenzia
delle Entrate.
Tuttavia, mentre i giudici di primo grado accoglievano
in toto le doglianze del contribuente, i giudici di seconde cure ritenevano che
le dichiarazioni sostitutive non potevano assurgere a prova idonea a
giustificare le ingenti somme di moneta contante transitate dal padre defunto
al figlio.
Avverso la sfavorevole sentenza dei giudici di secondo
grado, il contribuente ha proposto ricorso per Cassazione, in particolare eccependo
l’insufficiente e contradditoria motivazione della sentenza della CTR che si
era limitata a ritenere le dichiarazioni sostitutive non idonee ad assurgere a
fonte di prova, senza tenere in considerazione alcuna l’ulteriore produzione
documentale esibita in giudizio, costituita da assegni, estratti conto, atti di
vendita e ricevute di pagamento.
Il contribuente rilevava, altresì, come gli atti
notori costituiscono valida giustificazione delle operazioni segnalate in sede
di verifica, rivestendo valore di elementi indiziari, considerato che il
divieto di cui all’art. 7 del D.Lgs. n. 546/1992 si riferisce alla sola prova
testimoniale nella sua accezione tipica, ma non preclude al giudice tributario
di porre a fondamento della decisione dichiarazioni di soggetti terzi acquisite
dalle parti processuali.
Ebbene, i giudici di legittimità nell’accogliere le tesi
difensive dell’Avv. Maurizio Villani, hanno avuto finalmente la possibilità di chiarire
che:
il divieto di cui
all’art. 7 del D.Lgs. n. 546 del 1992 fa riferimento alla sola prova
testimoniale, ma non preclude al giudice tributario di porre a fondamento della
decisione dichiarazioni di soggetti terzi acquisite dalle parti processuali;
gli atti notori
hanno il valore probatorio proprio degli elementi indiziari e, qualora rivestano
i caratteri di gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 2729 c.c.,
danno luogo a presunzioni;
anche al
contribuente, al pari dell’Amministrazione finanziaria, è consentito introdurre
in giudizio innanzi alle Commissioni tributarie dichiarazioni rese da terzi in
sede extraprocessuale per far valere le proprie ragioni e tali dichiarazioni
devono assurgere a rango di indizi, che necessitano di essere valutati congiuntamente
ad altri elementi.
La Suprema Corte, inoltre, ha posto in evidenza come l’attribuzione
di valenza indiziaria delle dichiarazioni dei terzi anche in favore del
contribuente non si pone in contrasto con l’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), ratificata e resa
esecutiva dalla l. 4 agosto 1955, n. 848, atteso che la Corte Europea dei diritti
dell’uomo, a tal proposito, ha chiarito che <<l’assenza di pubblica udienza o il divieto di prova testimoniale nel
processo tributario sono compatibili con il principio del giusto processo solo
se da siffatti divieti non deriva un grave pregiudizio della posizione
processuale del ricorrente sul piano probatorio non altrimenti rimediabile>>
(Corte EDU 23 novembre 2006, ricorso n. 73053/0143, Jussilla contro Finlandia,
e 12 luglio 2001, Ferrazzini contro Italia).
Al riguardo, in sentenza la Corte di Cassazione ha,
altresì, sottolineato come anche la Corte Costituzionale, in relazione alle
questioni di legittimità costituzionale sollevate in merito al divieto di prova
testimoniale nel processo tributario, ha statuito che <<la limitazione probatoria stabilita dall’art.
7, comma 4, del d.lgs. n. 546/1992 non comporta l’inutilizzabilità, in sede
processuale delle dichiarazioni di terzi eventualmente raccolte dall’amministrazione
nella fase procedimentale>>, trattandosi di dichiarazioni rese al di
fuori e prima del processo, diverse dalla prova testimoniale, che è
necessariamente orale, richiede la formulazione di capitoli, comporta il
giuramento dei testi e riveste, conseguentemente, un particolare valore
probatorio, rilevando, tuttavia, che tali dichiarazioni hanno efficacia minore
rispetto alla prova testimoniale e possono considerarsi come meri argomenti di
prova, da soli non idonei a formare il convincimento del giudice in assenza di
riscontri oggettivi.
“Art. 5, DECRETO-LEGGE 30 aprile 2019, n. 34: il
regime agevolativo dei “cervelli in fuga”, eliminata la condizione d’iscrizione
all’AIRE”.
Questo contributo si pone l’obiettivo di
individuare, in maniera lineare e schematica, in linea di continuità con il
precedente articolo “DECRETO CRESCITA: CANCELLATA LA
CONDIZIONE D’ISCRIZIONE ALL’AIRE PER USUFRUIRE DELLE AGEVOLAZIONI”,le
modifiche apportate dal testo definitivo del D.L.n.34/2019 agli artt. 16 del D.lgs. n. 147/2015
e all’art. 44 del D.L. n. 78/2010.
MODIFICHE art. 16 del D.lgs. n. 147/2015: si applicano ai soggetti che trasferiscono la residenza in Italia, ai sensi dell’articolo 2 TUIR, a partire dal periodo d’imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore del D.L. n. 34/2019 (dall’anno 2020).
Comma 1 dell’ art. 16 del D.lgs. n.
147/2015 (sostituito
dall’art. 5, comma 1, lett. a) del D.L.
n. 34/2019)
I redditi di lavoro dipendente, i redditi assimilati a quelli
di lavoro dipendente e i redditi di lavoro autonomo prodotti in Italia da
lavoratori che trasferiscono la residenza nel territoriodello Stato ai sensi
dell’articolo 2 TUIR, concorrono alla
formazione del reddito complessivo, limitatamente al 30 % del loro ammontare, qualora ricorrano i seguenti presupposti:
a) i lavoratori non
sono stati residenti in Italia nei due
periodi d’imposta precedenti il predetto trasferimento e si impegnano
a risiedere in Italia per almeno due
anni;
b) l’attività lavorativa
è prestata prevalentemente nel territorio
italiano.
Comma 1-bis art. 16 del D.lgs. n.1 47/2015
(sostituito dal comma 1,
lett. b) dell’art. 5 del D.L. n.3 4/2019)
E’
stata ammessa la possibilità di beneficiare del regime dei soggetti titolari di reddito
assimilato a quello da lavoro dipendente anche ai titolari di reddito
d’impresa, a condizione che trasferiscano la residenza in Italia a partire
dal 2020.
Comma 3-bis dell’art. 16 del D.lgs n. 147/2015 ( aggiunto dal comma 1, lett. c) dell’art. 5 del D.L. n. 34/2019)
Sono
introdotte maggiori agevolazioni fiscali
per ulteriori cinque anni in presenza di specifiche condizioni:
per
i lavoratori con almeno un figlio
minorenne o a carico, anche in affido preadottivo;
per i lavoratori che diventino proprietari di almeno un’unità
immobiliare di tipo residenziale in Italia o nei dodici mesi precedenti
al trasferimento
I redditi di cui al comma 1 dell’art. 16 cit. concorrono
alla formazione del reddito complessivo limitatamente al 50% del loro ammontare.
per i lavoratori che abbiano
almeno tre figli minorenni o a carico, anche in affido preadottivo, i
redditi di cui al c.1 dell’art.16 cit. concorrono alla formazione del reddito
complessivo, limitatamente al 10% del
loro ammontare.
Comma 5-bis dell’art. 16 del D.lgs. n. 147/2015 (aggiunto dal comma 1, lett. d) dell’art.
5 del D.L. n. 34/2019)
I redditi di cui al comma 1 dell’art. 16 cit., concorrono
alla formazione del reddito complessivo limitatamente al 10% del loro ammontare per i soggetti che trasferiscono la
residenza in una delle seguenti regioni: Abruzzo,
Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sardegna, Sicilia.
Comma 5-ter dell’art. 16 del D.lgs.
n. 147/2015 (aggiunto dal comma 1, lett. e) dell’art. 5 del D.L. n. 34/2019)
I cittadini italiani non
iscritti all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (AIRE) rientrati in
Italia a decorrere dal periodo
d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2019 possono
accedere ai predetti benefici fiscali:
purchè
abbiano avuto la residenza in un altro Stato ai sensi di una convenzione contro le doppie imposizioni
sui redditi, eliminata la condizione d’iscrizione all’AIRE per usufruire
dell’agevolazione fiscale de qua.
Ai cittadini italiani
non iscritti all’AIRE rientrati in Italia entro il 31 dicembre 2019 spettano:
benefici
fiscali di cui al presente articolo nel testo
vigente al 31 dicembre 2018, purchè abbiano avuto la residenza in un
altro Stato ai sensi di una convenzione
contro le doppie imposizioni; relativi ai periodi d’imposta per i quali
siano stati notificati atti impositivi ancora impugnabili, ovvero oggetto di
controversie pendenti in ogni stato e grado del giudizio nonché per i periodi
d’imposta per i quali non sono decorsi i termini di cui all’articolo 43 del
D.P.R. n. 600 del 29 settembre 1973 (ossia,
termini per notificare avviso di accertamento).
MODIFICHE
art. 44 del D.L. n. 78/2010: si applicano ai soggetti che trasferiscono la residenza in
Italia ai sensi dell’articolo 2 TUIR a partire dal periodo d’imposta
successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore del D.L.
n.34/2019(dall’anno 2020).
Comma 3, art. 44 del D.L. n. 78/2010
(modificato dal comma
4, lett. a) dell’art. 5, comma 1, lett. a) del D.L. n. 34/2019)
E’stato incrementato da 4 a 6 anni il regime di
agevolazione fiscale
Comma 3- bis
, art. 44 del D.L. n. 78/2010 (modificato dal comma 4, lett. b )
dell’art. 5, del D.L. n. 34/2019)
Si
prolunga la durata dell’agevolazione fiscale a 8 anni in presenza di specifiche condizioni:
per i l docenti o ricercatori universitari con almeno un
figlio minorenne o a carico, anche in affido preadottivo;per i docenti o ricercatori universitari che diventino
proprietari di almeno un’unità immobiliare di tipo residenziale in Italia o
nei dodici mesi precedenti al trasferimento
Si
prolunga la durata dell’agevolazione fiscale a 11 anni,in presenza
delle seguenti condizioni:
per
i l docenti o ricercatori universitari con
almeno due figli, minorenni o a carico, anche in affido preadottivo;
Si
prolunga la durata dell’agevolazione fiscale a 13 anni,in presenza
delle seguenti condizioni:
per i l docenti o
ricercatori universitari con almeno tre figli minorenni o a carico, anche
in affido preadottivo.
sempre che permanga la
residenza nel territorio dello Stato
Comma 3-quater dell’art. 44 del D.L.
n. 78/2010 (modificato
dal comma 4, lett. b) dell’art. 5, del D.L. n. 34/2019)
I docenti o ricercatori italiani non iscritti
all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (AIRE) rientrati in Italia a decorrere dal periodo d’imposta
successivo a quello in corso al 31 dicembre 2019 possono accedere ai
predetti benefici fiscali:
purchè
abbiano avuto la residenza in un altro Stato, ai sensi di una convenzione contro le doppie imposizioni
sui redditi,
eliminata la condizione
d’iscrizione all’AIRE per usufruire dell’agevolazione fiscale de qua.
Ai docenti e
ricercatori italiani non iscritti all’AIRE rientrati in Italia entro il 31 dicembre 2019 spettano:
benefici
fiscali di cui al presente articolo nel testo
vigente al 31 dicembre 2018, purchè abbiano avuto la residenza in un
altro Stato, ai sensi di una convenzione
contro le doppie imposizioni;relativi
ai periodi d’imposta per i quali siano stati notificati atti impositivi
ancora impugnabili ovvero oggetto di controversie pendenti in ogni stato e
grado del giudizio, nonché per i periodi d’imposta per i quali non sono
decorsi i termini di cui all’articolo 43 del D.P.R. n. 600 del 29
settembre 1973 (ossia, termini per notificare avviso di accertamento).