(di Valeria Cianciolo – Sez. Ondif di Bologna)
Cassazione
Civile, sez. III, sentenza 7 marzo 2019, n. 6598
Violazione
dell’obbligo di fedeltà e risarcimento del danno
La violazione di obblighi
nascenti dal matrimonio costituisce causa di intollerabilità della convivenza,
giustificando la pronuncia di addebito. Qualora dia
luogo ad un comportamento (doloso o colposo) che, incidendo su beni essenziali
della vita, produce un danno ingiusto, può esservi un conseguente risarcimento,
secondo lo schema generale della responsabilità civile.
Se da un lato, vi è il dovere di fedeltà, dall’altro, non esiste un corrispondente diritto alla fedeltà coniugale costituzionalmente protetto: la sua violazione è sanzionabile civilmente quando, per le modalità dei fatti, uno dei coniugi ne riporti un danno alla propria dignità personale, o eventualmente un pregiudizio alla salute.
Nel caso di specie, la
corte d’appello ha escluso che la violazione del dovere di fedeltà fosse
stata causa della separazione (perché la moglie avrebbe svelato al marito il suo
tradimento solo mesi dopo la separazione), ed ha altresì, escluso che il
tradimento avesse arrecato un pregiudizio all’onore e alla dignità del coniuge,
in quanto non commesso con modalità tali da poter essere lesivo della dignità
della persona.
Dunque, la violazione del
dovere di fedeltà, sebbene possa essere causa di un dolore per l’altro coniuge,
provocando la disgregazione del nucleo familiare, non automaticamente è
risarcibile.
REPUBBLICA
ITALIANA
IN
NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE
TERZA CIVILE
Composta
dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott.
AMENDOLA Adelaide – Presidente –
Dott.
FRASCA Raffaele – Consigliere –
Dott.
RUBINO Lina – rel. Consigliere –
Dott.
FIECCONI Francesca – Consigliere –
Dott.
GIANNITI Pasquale – Consigliere –
ha
pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul
ricorso 3258-2017 proposto da:
L.G.,
elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MANLIO DI VEROLI 2, presso lo studio
dell’avvocato L. G. difensore di sé medesimo;
–
ricorrente –
contro
I.C.,
elettivamente domiciliata in ROMA, VIA OSLAVIA 7, presso lo studio
dell’avvocato L. I., che la rappresenta e difende giusta procura speciale in
calce al controricorso;
SOC
COOP ARL CATTOLICA DI ASSICURAZIONE, SOC COOP PA CATTOLICA SERVICES, entrambe
in persona del Dott. C.M., nella qualità di Direttore Generale della Società
Cattolica Assicurazione e Amministratore Delegato della Cattolica Service,
elettivamente domiciliate in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 1, presso lo studio
dell’avvocato F. G., che le rappresenta e difende unitamente all’avvocato G. B.
giuste procure speciali in calce al controricorso;
B.A.,
elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VITTORIO COLONNA 39, presso lo studio
dell’avvocato M. P., che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati A. B.,
G. P. giusta procura speciale in calce al controricorso;
–
controricorrenti –
avverso
la sentenza n. 4357/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il
34/07/2016;
udita
la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 11/12/2018 dal
Consigliere Dott. LINA RUBINO.
Svolgimento del processo
1.
Il giudizio di primo grado.
1.1.Nel
2010 L.G. convenne in giudizio la moglie I.C., dalla quale si era separato, e
B.A., nonché la società Cattolica Services, della quale entrambi erano
dipendenti, e la società capogruppo di quest’ultima, Cattolica Assicurazioni
S.p.a., per ottenere la condanna di tutti i convenuti, in solido tra loro, al
risarcimento dei danni subiti in conseguenza della violazione del dovere di
fedeltà coniugale da parte della moglie, a causa della relazione da lei
intrattenuta per anni con il collega B., il quale l’avrebbe anche favorita
nell’avanzamento in carriera.
1.2.
In particolare, il L. addusse che la moglie gli aveva confessato la relazione,
che la suddetta relazione si era protratta dalla fine del 2003, ossia circa
quattro mesi prima del concepimento del loro figlio G.M., al periodo compreso
tra gli ultimi mesi del 2007 e i primi mesi del 2008; che, pertanto, il L.
aveva chiesto di essere sottoposto, insieme al bambino, al test di accertamento
della paternità biologica; e che, a fronte di tale richiesta, la I. aveva
elaborato una nuova versione del fatto, secondo cui la relazione col B. sarebbe
stata frutto della sua fantasia, motivato da risentimento nei confronti del L..
L’attore
affermava che dalla scoperta della relazione extraconiugale gli era derivato un
disturbo depressivo cronico. Individuava la responsabilità delle società
datrici di lavoro nella mancata vigilanza sui propri dipendenti al fine di
evitare le conseguenze pregiudizievoli per i terzi.
Ciò
premesso il L. chiese, al suddetto titolo, il pagamento della somma di Euro
14.642,02, di cui Euro 4.642,00 per il danno alla salute e Euro 10.000 per il
danno morale.
1.3.
Costituitisi in giudizio, tutti i convenuti chiesero il rigetto della domanda;
il B., inoltre, propose in riconvenzionale domanda di risarcimento danni per la
lesione al proprio onore derivante dai fatti attribuitigli nell’atto di
citazione; lo stesso B. e le società di assicurazione chiesero, inoltre, la
condanna dell’attore per lite temeraria.
1.4.
A seguito delle domande riconvenzionali avanzate, il L. formulò istanza di
chiamata in causa a fini di garanzia della società Cattolica Assicurazioni, in
virtù di una polizza per responsabilità civile in essere, e della convenuta I.,
perché responsabile dei fatti costitutivi della pretesa da lui azionata, per
essere da entrambi manlevato da eventuali condanne; istanza, peraltro, respinta
dal Giudice istruttore.
1.5.
Il Tribunale rigettò la domanda risarcitoria e dichiarò inammissibile la
domanda ex art. 89 c.p.c. proposta dall’attore; rigettò altresì la
domanda di risarcimento proposta in via riconvenzionale dal convenuto B.; e
condannò il L. al pagamento delle spese processuali in favore di ciascuna parte
e alla somma di Euro 1.500 ciascuno ai sensi dell’art. 96 c.p.c. in
favore dei convenuti B., Cattolica Services e Cattolica Assicurazioni.
2.
Il giudizio di appello.
2.1.
Avverso la sentenza n. 10733/2014, depositata il 10.05.2014, del Tribunale di
Roma, Sezione 1 civile, il L. propose appello. Si costituirono gli appellati,
chiedendo il rigetto dell’appello, e il B. reiterando altresì la richiesta di
condanna dell’appellante ex art. 96 c.p.c..
2.2.
La Corte d’appello accolse parzialmente l’appello del L., riducendo la
liquidazione delle spese in favore di Cattolica Services e Cattolica
Assicurazioni, confermando per il resto la sentenza impugnata, da intendersi di
rigetto della domanda anche nei confronti della I., e condannando l’appellante
al risarcimento del danno per lite temeraria in favore del B. anche in appello,
nonché alla rifusione delle spese legali in favore dei convenuti.
2.2.1.
In particolare, la Corte d’appello -pur richiamando Cass. n. 18853/2011
(secondo cui, poiché i doveri derivanti dal matrimonio hanno natura giuridica e
la loro violazione non trova necessariamente sanzione solo nelle misure tipiche
previste dal diritto di famiglia, la relativa violazione, ove cagioni la
lesione di diritti costituzionalmente protetti, può integrare gli estremi
dell’illecito civile e dar luogo a un’autonoma azione volta al risarcimento dei
danni non patrimoniali ex art. 2059 c.c., senza che la mancanza di
pronuncia di addebito in sede di separazione sia a questa preclusiva), e tenuto
conto che, ai fini della risarcibilità del danno, è altresì necessario che la
lesione abbia determinato un’offesa che superi la soglia minima di
tollerabilità e che il danno possa considerarsi giuridicamente apprezzabile –
riteneva doversi escludere che, nel caso di specie, la violazione del dovere di
fedeltà coniugale attribuita al coniuge avesse costituito la causa della
separazione e che, ove corrispondente al vero, fosse stata attuata con modalità
tali da poter generare effetti lesivi della dignità dell’altro coniuge, in
quanto scoperta da quest’ultimo alcuni mesi dopo la separazione legale e per
rivelazione della stessa coniuge nel contesto di una conversazione privata, e
non da parte di terzi in un contesto di riferimento sociale-personale del L., o
comune dei coniugi-.
2.2.2.
Il Giudice d’appello escludeva pertanto ab origine la sussistenza di una
condotta illecita tale da configurare una potenzialità lesiva dei diritti -alla
dignità e alla salute- rappresentati dal L., e riconduceva il nesso di
causalità delle lesioni asseritamente sofferte alla condizione di dispiacere e
difficoltà assolutamente soggettiva rientrante in una soglia di tollerabilità
giuridicamente non apprezzabile.
2.2.3.
La Corte d’appello reputava, inoltre, che non fosse giuridicamente
configurabile una condotta illecita in capo al B. o una responsabilità, quali
datori di lavoro, delle società convenute, soggetti del tutto estranei
all’obbligo di fedeltà coniugale tra i coniugi L.- I..
2.2.4.
Il Giudice d’appello affermava altresì la correttezza della pronuncia
impugnata, ritenendo inconferente l’intera attività istruttoria richiesta
dall’attore ai fini della decisione in merito della domanda principale
risarcitoria, alla stregua del percorso logico sotteso al convincimento
giudiziale del Tribunale.
2.2.5.
La Corte d’appello, infine, reputava corretta la condanna in primo grado del L.
ex art. 96 c.p.c., ricorrendo nella specie (oltre alla soccombenza) la
coscienza dell’infondatezza delle tesi sostenute a fondamento della pretesa
azionata nei confronti dei soggetti estranei al rapporto coniugale.
3.
Il giudizio di legittimità.
Avverso
la sentenza n. 4375/2016, emessa dalla Corte d’appello civile di Roma,
depositata il 15.06 – 04.07 2016, propone ricorso per Cassazione, con otto
motivi, L.G..
Resistono
con controricorso I.C., B.A., Cattolica Services e Cattolica Assicurazioni.
Sia
il ricorrente principale, avv. L., che il controricorrente B. hanno depositato
memoria.
Il
ricorso è stato trattato in adunanza camerale non partecipata.
Motivi della decisione
I
motivi.
1.Costituzione
di parte civile nel processo penale.
1.
Con il primo motivo, il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 4, l’omessa pronuncia su un motivo di gravame e la violazione
degli artt. 306 e 307 c.p.c. e art. 75 c.p.p., comma 2.
Il
ricorrente deduce che il B. avesse dato avvio ad un processo penale nei suoi
confronti per i medesimi fatti per i quali il L. aveva formulato domanda
risarcitoria, costituendosi parte civile in quel processo; che il Giudice di
prime cure non si fosse pronunciato sull’eccezione, sollevata dal L., di
estinzione della domanda riconvenzionale del B. in conseguenza del
trasferimento della stessa in sede penale nel corso del giudizio di primo
grado, respingendo nel merito la domanda risarcitoria del B.; che, nell’atto di
appello, il L. avesse dedotto l’omessa pronuncia; che tuttavia la Corte
d’appello, esaminato il motivo di impugnazione, lo avesse respinto per carenza
di interesse.
In
proposito, il ricorrente lamenta che, omettendo di pronunciarsi sull’eccezione,
il Tribunale abbia violato il disposto dell’art. 112 c.p.c.; e che,
affermando invece la carenza di interesse ad impugnare, la Corte d’appello
abbia dimostrato di non aver colto la ragione sottesa alla richiesta di diversa
pronuncia (di rito e non di merito), precludendo per l’effetto all’odierno
ricorrente di ottenere l’obbligatoria condanna del convenuto al rimborso delle
spese di lite connesso con la rinuncia del B. ex art. 75 c.p.p..
2.
Produzione del verbale del processo penale.
2.
Con il secondo motivo, si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1,
n. 4, la violazione dell’art. 112 c.p.c.consistente nella l’omessa
pronuncia su un motivo di gravame e la violazione dell’art. 153 c.p.c.,
comma 2.
Il
ricorrente lamenta di aver denunciato, nell’atto di appello, l’illegittimità
dell’affermazione, contenuta nella sentenza di primo grado, secondo cui
l’istanza di produzione del verbale del processo penale (e contestuale
remissione in termini, poiché prodotto solo dopo la sua giuridica venuta a
esistenza) sarebbe stata inaccoglibile attesa la mancata definizione del
processo stesso.
Il
ricorrente deduce che, poiché l’utilizzabilità processuale di tale documento
era da ritenersi conseguenza diretta e immediata del suo rilascio da parte
della cancelleria del Giudice titolare di quel processo, la sentenza di primo
grado avrebbe dovuto essere riformata sul punto, affermando la tempestività e
ritualità del deposito del suddetto verbale di udienza, contenente
dichiarazioni (testimoniali e di parte) rilevanti per la decisione sulla
domanda attorea.
Il
L. lamenta che, omettendo di pronunciarsi sul punto, la Corte d’appello abbia
violato l’art. 112 c.p.c., impedendo l’acquisizione al materiale
probatorio di un documento (un verbale di udienza di un processo penale,
contenente deposizioni testimoniali) il cui esame avrebbe introdotto nel
processo elementi a sostegno della fondatezza della domanda dell’istante (in
particolare, dall’esame delle deposizioni testimoniali contenute in quel
verbale si sarebbe potuto desumere agevolmente l’intervento attivo del B.
nell’iter per la promozione a funzionario della I., circostanza questa sempre
negata dagli interessati).
3.
Conseguenze della violazione del dovere di fedeltà.
3.
Con il terzo motivo, si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n.
3, la violazione o falsa applicazione degli artt. 2043 e 2059 c.c., nonché
l’errata e illegittima motivazione relativamente a un punto decisivo della
controversia.
Il
ricorrente lamenta che la Corte d’appello -pur affermando di condividere il
principio di diritto secondo cui una relazione extraconiugale assurge a fatto
illecito produttivo di obbligo risarcitorio se l’infedeltà per le sue modalità
abbia trasmodato in comportamenti che, oltrepassando i limiti dell’offesa di
per sé insita nella violazione dell’obbligo in questione, si siano
concretizzati in atti specificamente lesivi della dignità della persona,
costituente bene costituzionalmente protetto- abbia tuttavia statuito che,
laddove il coniuge vittima dell’infedeltà ne abbia conoscenza dal coniuge (e
non da terzi) e in una conversazione privata (e non aperta al pubblico
ascolto), quei limiti possano ritenersi ab origine non oltrepassati.
Il
ricorrente deduce viceversa che, da un lato, sia irrilevante che la vittima
dell’illecito abbia saputo del fatto presto o tardi, dal coniuge o da un terzo,
in pubblico o in privato; e, dall’altro, non si possa da ciò solo dedurre che
nessun altro, a parte i tre soggetti coinvolti, ne fosse a conoscenza.
Lamenta
inoltre che, nonostante fossero state articolate prove dirette a dimostrare
l’ostentazione in pubblico, né il Tribunale né la Corte d’appello abbiano
ritenuto di dover condurre alcuna indagine.
Il
ricorrente deduce infine che un fatto produttivo di danno ex art. 2043
c.c. comporti sempre l’obbligo del suo risarcimento; che l’infedeltà sia comportamento
contrario ai doveri nascenti dal matrimonio in quanto violazione dell’obbligo
della fedeltà coniugale, costituente una regola di condotta imperativa, oltre
che una direttiva morale di particolare valore sociale; che, secondo la
giurisprudenza di legittimità, l’illecito sia considerato di una gravità ancora
maggiore allorché venga attuato in maniera reiterata, o addirittura attraverso
una stabile relazione extraconiugale (Cass. n. 7859/2000), e l’infedeltà
assurga a illecito risarcibile qualora, per le sue modalità e in relazione alla
specificità della fattispecie, abbia dato luogo a lesione della salute del
coniuge (Cass. 18853/2001), circostanze asseritamente verificatesi nel caso di
specie, come dimostrerebbero anche le perizie medico-legali.
Il
ricorrente lamenta pertanto che, affermando la legittimità di un fatto illecito
senza alcuna indagine che ne accertasse le modalità di esecuzione, la Corte
d’appello abbia creato una fattispecie di infedeltà legittima, un’area di danno
da non risarcire che l’altro coniuge deve tollerare e non lamentare, così
violando l’art. 29 Cost., artt. 2043 e 2059 c.c., e falsamente
applicando i principi di diritto posti dalla giurisprudenza di legittimità.
4.
Corresponsabilità nella violazione del dovere di fedeltà.
4.
Con il quarto motivo, si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1,
n. 3, la violazione o falsa applicazione degli artt. 2055 e 2049 c.c., nonché
l’errata e illegittima motivazione relativamente a un punto decisivo della
controversia.
Il
ricorrente lamenta che la sentenza impugnata, laddove esclude la
configurabilità di una condotta illecita con riguardo al B. e alle società
convenute in giudizio, presupponga una valutazione errata del concetto di
“corresponsabile”.
Deduce
che, se il titolo per ottenere l’affermazione di responsabilità del coniuge
è l’art. 2043 c.c., allora sia anche ipotizzabile l’altrui concorso nella
condotta colposa ex art. 2055 c.c..
Il
ricorrente lamenta che, viceversa, affermare che di un’infedeltà possa
rispondere solo colui o colei che abbia violato il patto di fedeltà significhi
connotare questa responsabilità di una natura contrattuale.
Deduce
che lo stesso valga per la negazione di una responsabilità concorrente ex art.
2049 c.c. delle società convenute, datrici di lavoro del B. e della I.; ciò
in quanto l’art. 2049 c.c. esclude la responsabilità del datore di
lavoro solo quando l’illecito non sia stato commesso “nell’esercizio delle
incombenze a cui sono stati adibiti” i dipendenti, laddove invece il B.,
nella prospettazione del ricorrente, aveva la posizione per procurare alla I.
un avanzamento in carriera.
Lamenta
pertanto che la pronuncia della Corte d’appello abbia aprioristicamente
escluso, dal novero dei possibili responsabili, alcuni soggetti del processo
solo perché non legati all’attore da un vincolo di natura contrattuale.
5.Rilevanza
della confessione stragiudiziale di violazione del dovere di fedeltà.
5.
Con il quinto motivo, si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1,
n. 3, la violazione o falsa applicazione dell’art. 2735 c.c., nonché
l’errata e illegittima motivazione relativamente a un punto decisivo della
controversia.
Il
ricorrente lamenta che, anche volendo restare sul piano della responsabilità
contrattuale (per ciò che attiene alla I.), dimostrato il fatto della
confessione dell’infedeltà (che, peraltro, la stessa sentenza impugnata ritiene
pacifico), in assenza di prova di efficace revoca e in presenza, invece, di
un’allegazione (perizia medica) che da questa confessione fa derivare un danno
alla salute, la Corte d’appello non avrebbe potuto ritenere legittimo il
precedente rigetto, da parte del Tribunale, della domanda risarcitoria nei
confronti della convenuta e che il rigetto della domanda nei confronti di chi
abbia confessato stragiudizialmente un illecito causativo di danno apparirebbe
contra legem. Ciò in quanto, ai sensi dell’art. 2735 c.c., la confessione
(e non già la sua ritrattazione) stragiudiziale fatta alla parte o a chi la
rappresenta ha la medesima efficacia probatoria di quella giudiziale; né
rileverebbe nella specie che il fatto confessato sia vero o falso, circostanza
che al più avrebbe potuto rilevare nei confronti degli altri convenuti, ma non
della I., responsabile di un’azione (il fatto-confessione) che, unitamente al
suo contenuto, avrebbe determinato il danno lamentato dall’istante.
6.
Diniego delle prove sulla violazione del dovere di fedeltà.
6.
Con il sesto motivo, si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n.
3, la violazione degli artt. 2730, 2731 e 2733 c.c. e degli artt.
230 e 244 c.p.c. ovvero l’omessa ammissione di interrogatorio formale e
prove testimoniali.
Il
ricorrente lamenta di aver denunciato invano, nel proprio atto d’appello,
l’illegittimità della pronuncia di primo grado nella parte in cui aveva negato
l’ammissione di tredici capitoli di prova per interrogatorio formale e per
testi.
Il
ricorrente lamenta quindi che il giudizio della Corte d’appello sul punto sia
stato errato tanto sotto il profilo della ammissibilità che della rilevanza.
Il
ricorrente deduce pertanto che risulti contra legem il rigetto, aprioristico e
cumulativo, di tutte le istanze istruttorie da parte della sentenza impugnata.
7.
La condanna per responsabilità processuale aggravata.
7.
Con il settimo motivo, si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1,
n. 3, la violazione o falsa applicazione la violazione dell’art. 96
c.p.c..
Il
ricorrente lamenta che l’affermazione della temerarietà della lite nei
confronti dei destinatari delle azioni ex artt. 2055 e 2049
c.c. appaia ispirata a una visione contrattualistica, ossia basata sul
“contratto di matrimonio”, dell’azione giudiziaria proposta
dall’istante; laddove invece, nel caso di specie, per la giurisprudenza di
legittimità si è in presenza di un illecito aquiliano o, al più, avente natura
insieme contrattuale ed extracontrattuale.
Il
ricorrente deduce pertanto l’erroneità della sentenza impugnata sia nella parte
in cui ha confermato la condanna di primo grado, sia nella parte in cui ha
nuovamente condannato il ricorrente per appello temerario.
8.
Condanna alle spese.
8.
Con l’ottavo motivo, si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n.
3, la violazione o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c..
Il
ricorrente lamenta che, in conseguenza dell’erroneo rigetto della propria
domanda, sia stato condannato al pagamento delle spese di lite per entrambe le
fasi di giudizio; e che, dal riconoscimento dell’erroneità di detto
presupposto, dovrà conseguire la condanna degli intimati al rimborso di ogni
somma a tale titolo percepita.
Al
termine della esposizione dei motivi, il ricorrente reitera tutte le difese già
svolte nel secondo grado di giudizio, affinché non si considerino abbandonate o
non impugnate e rinnova la richiesta di cancellazione delle espressioni
sconvenienti e offensive, formulata in primo grado e riproposta inutilmente in
appello.
Il
ricorso deve essere rigettato, in quanto la sentenza resiste alle critiche
mosse con i numerosi motivi di ricorso, tra i quali è preliminare l’esame del
motivo n. 3, l’infondatezza del quale rende in larga parte superfluo, per le
ragioni che si diranno, l’esame degli altri.
Con
il terzo motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata laddove ha escluso
che la violazione del dovere di fedeltà, perpetrata dalla moglie nei suoi
confronti, abbia integrato la violazione di un diritto costituzionalmente
protetto e sia da considerarsi pertanto fonte di un danno risarcibile.
La
sentenza impugnata muove dall’affermazione contenuta in Cass. n. 18853 del
2011, secondo la quale “I doveri che derivano ai coniugi dal matrimonio
hanno natura giuridica e la loro violazione non trova necessariamente sanzione
solo nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, quale l’addebito
della separazione, discendendo dalla natura giuridica degli obblighi suddetti
che la relativa violazione, ove cagioni la lesione di diritti
costituzionalmente protetti, possa integrare gli estremi dell’illecito civile e
dare luogo ad un’autonoma azione volta al risarcimento dei danni non
patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 c.c., senza che la mancanza di
pronuncia di addebito in sede di separazione sia a questa preclusiva”.
Da
questa affermazione, pienamente condivisa (richiamata da ultimo da Cass. n.
4470 del 2018, che puntualizza che i danni alla persona, come danni
conseguenza, debbano essere specificamente allegati e provati, anche a mezzo di
presunzioni) ed alla quale si intende dare continuità, discendono alcune
conseguenze.
La
violazione dei doveri discendenti dal matrimonio rileva in primo luogo
all’interno del rapporto matrimoniale stesso.
Anche
nell’ambito della famiglia i diritti inviolabili della persona rimangono tali,
e danno diritto alla protezione prevista dall’ordinamento, cosicché la loro
lesione da parte di altro componente della famiglia può costituire presupposto
di responsabilità civile.
I
doveri che derivano dal matrimonio non costituiscono però in capo a ciascun
coniuge e nei confronti dell’altro coniuge automaticamente altrettanti diritti,
costituzionalmente protetti, la cui violazione è di per sè fonte di
responsabilità aquiliana per il contravventore, ma la violazione di essi può
rilevare, oltre che in ambito familiare, come presupposto di fatto della
responsabilità aquiliana, qualora ne discenda la violazione di diritti
costituzionalmente protetti, che si elevi oltre la soglia della tollerabilità e
possa essere in tal modo fonte di danno non patrimoniale.
–
La mera violazione dei doveri matrimoniali non integra quindi di per sé ed
automaticamente una responsabilità risarcitoria, dovendo, in particolare,
quanto ai danni non patrimoniali, riscontrarsi la concomitante esistenza di
tutti i presupposti ai quali l’art. 2059 c.c. riconnette detta
responsabilità, secondo i principi affermati nella sentenza 11 novembre 2008,
n. 26972 delle Sezioni Unite, la quale ha ricondotto sotto la categoria e la
disciplina dei danni non patrimoniali tutti i danni risarcibili non aventi
contenuto economico.
Isolando,
tra i vari doveri che derivano dal matrimonio, il dovere di fedeltà, del quale
si assume la violazione nel caso in esame, ne discende che la violazione del
dovere di fedeltà, sebbene possa indubbiamente essere causa di un dispiacere
per l’altro coniuge, e possa provocare la disgregazione del nucleo familiare,
non automaticamente è risarcibile, ma in quanto l’afflizione superi la soglia
della tollerabilità e si traduca, per le sue modalità o per la gravità dello
sconvolgimento che provoca nell’altro coniuge, nella violazione di un diritto
costituzionalmente protetto, primi tra tutti il diritto alla salute o alla
dignità personale e all’onore, richiamati del resto nelle stesse prospettazioni
del ricorrente.
La
risarcibilità di tali violazioni, si è detto altresì, esula e prescinde
dall’ambito dei rimedi endofamiliari, quindi da un lato la mera violazione di
tale dovere, o anche l’addebito della separazione in conseguenza della violazione
di tale dovere non sono automaticamente fonte di responsabilità aquiliana (v.
Cass. n. 610 del 2012, che ha escluso il diritto al risarcimento del danno non
patrimoniale in tesi connesso con l’infedeltà del coniuge cui la separazione
per tale motivo era stata addebitata, in mancanza di prova della lesione dei
diritti fondamentali e segnatamente dell’integrità psicofisica, e della
conseguente ingiusta lesione di un suo diritto costituzionalmente protetto,
ossia di circostanze atte ad integrare gli estremi dell’invocata tutela
risarcitoria; v. anche Cass. n. 8862 del 2012), e per contro l’azione
risarcitoria può essere promossa anche autonomamente ed a prescindere dal
giudizio di addebito della responsabilità della separazione personale.
–
L’autonomia delle due forme di tutela non implica naturalmente una
impermeabilità delle circostanze eventualmente accertate in un giudizio
rispetto all’altro, nel senso che i fatti che vengono in considerazione
all’interno del giudizio di separazione personale, possono essere gli stessi,
per la loro offensività, a rilevare nel diverso giudizio risarcitorio.
Il
bene tutelato è però diverso: nel primo caso, ad essere invocate sono le
conseguenze giuridiche che l’ordinamento specificamente ricollega alla
pronuncia di addebito (e che sono, per il coniuge a carico del quale venga
presa, l’esclusione del diritto al mantenimento -con salvezza del solo credito
alimentare, ove ne ricorrano i requisiti- e la perdita della qualità di erede
riservatario e di erede legittimo, con salvezza del diritto ad un assegno
vitalizio in caso di godimento degli alimenti al momento dell’apertura della
successione – artt. 156, 548 e 585 c.c.-); nel secondo, invece, viene in
rilievo il risarcimento del pregiudizio non patrimoniale da lesione di diritti
costituzionalmente garantiti.
Soprattutto,
l’ordinamento non tutela il bene del mantenimento della integrità della vita
familiare fino a prevedere che la sua violazione di per sé possa essere fonte
di una responsabilità risarcitoria per dolo o colpa in capo a chi con la sua
volontà contraria o comunque con il suo comportamento ponga fine o dia causa
alla fine di tale legame. L’ammissione di una tale affermazione incondizionata
di responsabilità potrebbe andare a confliggere con altri diritti
costituzionalmente protetti, quali la libertà di autodeterminarsi ed anche la
stessa libertà di porre fine al legame familiare, riconosciuta nel nostro
ordinamento fin dal 1970.
Per
contro, l’ordinamento protegge e sostiene dall’esterno il bene della vita
familiare, con misure anche materiali a tutela del nucleo familiare e dei
soggetti che fanno parte di tale essenziale formazione sociale.
Il
dovere di fedeltà non trova il suo corrispondente quindi in un diritto alla
fedeltà coniugale costituzionalmente protetto, piuttosto la sua violazione è
sanzionabile civilmente quando, per le modalità dei fatti, uno dei coniugi ne
riporti un danno alla propria dignità personale, o eventualmente un pregiudizio
alla salute.
Nel
caso di specie, la corte d’appello, attenendosi a questi principi, ha escluso
in radice che la violazione del dovere di fedeltà fosse stata causa della
separazione (perché la moglie avrebbe svelato al marito il suo tradimento solo
mesi dopo la separazione), ed ha escluso anche che il tradimento, per le sue
modalità, avesse potuto recare un apprezzabile pregiudizio all’onore e alla
dignità del coniuge, in quanto non noto neppure nell’ambiente circostante e di
lavoro o comunque non posto in essere con modalità tali da poter essere lesivo
della dignità della persona.
Parimenti
infondata è la contestazione contenuta nel sesto motivo, con la quale il L. si
duole di non essere stato ammesso a provare il pregiudizio subito: la corte
d’appello ha valutato, con suo apprezzamento discrezionale, e dato atto in
motivazione, che i capitoli di prova erano volti a provare circostanze che, di
per sé, non sarebbero state sufficienti ad integrare la prova di un rilevante
pregiudizio alla dignità del L. per le caratteristiche del tradimento, e per il
fatto che, anche se i testi avessero ammesso le circostanze oggetto di prova,
ne sarebbe emersa la conoscenza della situazione non da parte del suo ambiente
di lavoro ma di quello della moglie.
Il
rigetto del terzo motivo porta con sé anche l’irrilevanza del quarto motivo in
relazione alla posizione del B..
In
proposito, è opportuno rilevare che, in sé, l’amante non è ovviamente soggetto
all’obbligo di fedeltà coniugale – il quale riveste un evidente carattere
personale-, e pertanto non potrebbe essere chiamato a rispondere per la
violazione di tale dovere.
Laddove
si alleghi, correttamente, che il diritto violato non è quello alla fedeltà
coniugale, bensì il diritto alla dignità e all’onore, non può escludersi, in
astratto, la configurabilità di una responsabilità a carico dell’amante. Essa,
peraltro, potrà essere affermata soltanto se l’amante stesso, con il proprio
comportamento e avuto riguardo alle modalità con cui è stata condotta la
relazione extraconiugale, abbia leso o concorso a violare diritti inviolabili
-quali la dignità e l’onore- del coniuge tradito (si pensi, per esempio,
all’ipotesi in cui egli si sia vantato della propria conquista nel comune
ambiente di lavoro o ne abbia diffuso le immagini), e purché risulti provato il
nesso causale tra tale condotta, dolosa o colposa, e il danno prodotto. In caso
contrario, infatti, il comportamento dell’amante è inidoneo a integrare gli
estremi del danno ingiusto, costituente presupposto necessario del risarcimento
ex art. 2043 c.c., avendo egli semplicemente esercitato il suo diritto,
costituzionalmente garantito, alla libera espressione della propria
personalità, diritto che può manifestarsi anche nell’intrattenere relazioni
interpersonali con persone coniugate; allo stesso modo in cui, sia pure entro i
limiti delineati, resta libero di autodeterminarsi ciascun coniuge.
Ciò
premesso, il quarto motivo è comunque, in parte qua, irrilevante, dal momento
che avrebbe potuto farsi questione dell’esclusa corresponsabilità dell’amante
della controricorrente, come co-artefice della distruzione del nucleo familiare
o come corresponsabile delle lesioni ai valori costituzionalmente protetti
riportate dal marito, soltanto qualora la moglie stessa fosse stata ritenuta
responsabile di ciò, in accoglimento del terzo motivo di ricorso, non essendo
mai stata allegata una autonoma condotta denigratoria o diffamatoria del B.
Quanto alla posizione delle due società, il quarto motivo è comunque infondato,
in quanto non è configurabile, in ogni caso, una responsabilità (concorrente
con quella del danneggiante principale) della società datrice di lavoro per non
aver sorvegliato e evitato che tra i dipendenti si instaurassero relazioni
personali lesive del diritto alla fedeltà coniugale; e ciò anche nel più
limitato ambito della rilevanza solo indiretta della violazione di tali doveri,
qualora la violazione di essi abbia dato causa alla violazione del rispetto
alla dignità personale dell’altro coniuge. L’ingerenza del datore di lavoro
nelle scelte di vita personali dei dipendenti integrerebbe di per sé, al
contrario, la violazione di altri diritti costituzionalmente protetti, quali il
diritto alla privacy nel luogo di lavoro.
Il
rigetto del terzo motivo porta con sé l’irrilevanza del quinto motivo. Dalla
sentenza impugnata non emerge affatto che corte d’appello abbia attribuito una
scarsa rilevanza alla confessione stragiudiziale della I. in ragione della sua
revoca è stato invece escluso che i fatti integranti la violazione del dovere
di fedeltà, per come si erano svolti, avessero potuto comportare una violazione
del diritto alla propria dignità personale del L..
Riprendendo
l’esame del primo motivo, sulla omessa declaratoria di estinzione nei confronti
della riconvenzionale del B., che si era costituito parte civile nel processo
penale, il ricorso è eccessivamente generico.
Anche
il secondo motivo è eccessivamente generico e inoltre è irrilevante, perché la
finalità cui era tesa la produzione documentale richiesta e non ammessa era
provare che tutti sapessero, nell’ambiente di lavoro della moglie, che la
stessa avesse conseguito un avanzamento in carriera solo grazie al supporto
dell’uomo col quale aveva una relazione, circostanza ritenuta irrilevante dalla
corte d’appello ai fini della prova della lesione del diritto alla dignità
personale del marito.
Il
settimo motivo, con il quale il ricorrente lamenta di aver subito una ingiusta
condanna per lite temeraria nei confronti degli appellati, è infondato: in
primo luogo, è stato condannato ex art. 96 c.p.c. nei soli confronti
del B., in secondo luogo, la sentenza di appello, che conferma il rigetto della
sua domanda, ha valutato la sussistenza dei presupposti della responsabilità
processuale aggravata per aver evocato e costretto a resistere ad una
impugnazione infondata, situazione valutabile dalla parte, anch’essa avvocato.
L’ottavo, con il quale si lamenta la condanna alle spese, conseguente all’esito
negativo del giudizio di merito, è inammissibile perché è strumentale alla
contestazione dell’esito stesso del giudizio, ed infondato laddove non c’è
stata alcuna violazione delle regole di soccombenza.
Il
ricorso va pertanto rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano
come al dispositivo. Il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo
posteriore al 30 gennaio 2013, e il ricorrente risulta soccombente, pertanto
egli è gravato dall’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma
del comma 1 bis del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma
1 quater.
P.Q.M.
La
Corte rigetta il ricorso. Pone a carico del ricorrente le spese di giudizio
sostenute dalle tre parti controricorrenti, che liquida in complessivi Euro
1.800,00 per ciascuno, oltre 200,00 per esborsi, oltre contributo spese
generali ed accessori.
Dà
atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte de ricorrente
di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto
per il ricorso principale.
Così
deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Corte di Cassazione, il 11
dicembre 2018.
Depositato
in Cancelleria il 7 marzo 2019